SALO'-SADE O LE CENTOVENTI GIORNATE Dl SODOMA
Regia: Pier Paolo Pasolini
Lettura del film di: Fabrizio Costa
Edav N: 48 - 1990
Titolo del film: SALO'-SADE O LE CENTOVENTI GIORNATE DL SODOMA
Titolo originale: SALO'-SADE O LE CENTOVENTI GIORNATE DL SODOMA
Cast: regia: Pier Paolo Pasolini – sogg. e scenegg.: Pier Paolo Pasolini, Sergio Citti, Donatien Alphonse, François de Sade – fotogr. Tonino Delli Colli – mont. Nino Baragli e Tatiana Morigi – mus. Ennio Morriconi – scenogr.: Dante Ferretti – cost.: Danilo Donati – interpr. princ. Paolo Bonacelli (il Duca), Giorgio Cataldi (il Monsignore), Umberto Paolo Quintavalle (Eccellenza), Aldo Valletti (il Presidente), Caterina Boratto (la Signora Castelli), Elsa De Giorgi (la Signora Maggi), Héléne Surgère (la Signora Vaccari), Sonia Saviange (la pianista suicida) - prod.: it. - colore - VM 18 - lungh. m.: 3192 – ITALIA 1975 – distrib.: United Artist Europa (uscito in Italia il 10 gennaio 1976)
Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini, Sergio Citti, Donatien Alphonse, François de Sade
Nazione: ITALIA
Anno: 1975
Poiché Pasolini non riuscí a terminarlo completamente è difficile darne una valutazione esatta. Il disgusto e l’insoddisfazione comunque prevalgono sulla verifica dei valori o almeno degli intenti positivi che vi si intravvedono.
Il romanzo «Le centoventi giornate di Sodoma» scritto dal marchese De Sade, è rimasto celebre nella storia per aver definito in maniera inequivocabile i rapporti di potere che intercorrono tra coloro che torturano e i torturati, per scopi di piacere. Procurare atroci sofferenze alle proprie vittime per il piacere personale era, per il «Marchese illuminato», un lusso che solo una nobiltà francese pre-rivoluzione poteva concedersi, prima di morire definitivamente.
Pasolini ha preso lo spunto dal suddetto romanzo trasportandolo dal settecento pre-rivoluzionario al millenovecentoquarantacinque, dalla Francia all’ltalia, e precisamente a Salò: ultima roccaforte della resistenza fascista.
La vicenda è molto semplice: un monsignore, un duca e due magistrati decidono di rinchiudersi per diversi giorni in una villa di Marzabotto, con alcuni ragazzi (maschi e femmine) da seviziare. Con loro soggiorneranno anche quattro prostitute «d’alto bordo» che avranno il compito di sollecitare le voglie dei quattro potenti fascisti. Firmata la carta che contiene i regolamenti a cui i giovani saranno sottoposti durante il soggiorno nella villa, si dà l’ordine, subito eseguito da parte di alcuni soldati nazisti, di catturare le vittime cercandole tra i figli dei contadini e degli operai. Giunti alla villa di Marzabotto inizia la sequela delle torture in un crescendo spasmodico, tanto che alcuni ragazzi, pur di accattivarsi la benevolenza dei loro carnefici si tradiscono gli uni gli altri e vengono cosí, nella maggior parte di loro, condannati a perire attraverso i piú atroci supplizi. Tuttavia, alcuni giovani riescono a sopravvivere perché non coinvolti nella spirale dei tradimenti. Ed è proprio con due di questi che ballano in una stanza della villa facendosi ingenue confidenze, che il film termina.
Il racconto è svolto con struttura lineare. Potremmo dividerlo sostanzialmente in tre parti: una introduzione (fino all’arrivo alla villa di Marzabotto), un corpo centrale (la narrazione dei supplizi a cui i giovani vengono giornalmente sottoposti), una conclusione (il ballo dei due ragazzi superstiti). Il corpo centrale a sua volta è diviso in tre grossi nuclei narrativi che l’autore definisce con didascalie «gironi» (il girone delle maníe, il girone della merda, il girone del sangue) con un evidente richiamo metaforico all’inferno dantesco. A loro volta i singoli gironi sono suddivisi dalla narrazione di avventure piccanti da parte di tre delle quattro prostitute «d’alto bordo».
Dall’analisi della suddetta divisione si ricava la volontà da parte dell’autore di porre in evidenza due filoni: da una parte quello dei torturati, dall’altra quello delle loro vittime. Entrambi hanno una evoluzione verso la morte, dunque entrambi sono protagonisti del film: i primi arrivano ad una morte morale e ideologica (si noti lo spirito grottesco con cui i suddetti personaggi vengono trattati alla fine del film: vestiti da donne, o mascherati da gladiatori mentre torturano le loro vittime), i secondi a una morte solo ed esclusivamente fisica (le torture mortali inflitte ai traditori del regolamento, mostrate nella scena vista attraverso il binocolo).
A tutto ciò fa da cornice una atmosfera livida e squallida, nonostante la sontuosità degli arredamenti – tipiche case alto-borghesi dell’epoca – e dei costumi.
Nel corpo centrale della pellicola, Pasolini tenta anche un’approfondimento psicologico-culturale dei protagonisti, accentuando al massimo la loro divergenza di classe e di tradizioni: i despoti sono visti come ricchi borghesi acculturati in maniera superficiale e retorica, bestiali nelle loro manifestazioni affettive data l’abiura che essi avevano operato dei valori retorici della società fascista, Patria, Religione, Famiglia; i ragazzi al contrario fanno parte di quell’universo proletario legato ad una tradizione contadina italiana che loro consente di comportarsi, anche nelle situazioni piú aberranti, in maniera spontanea e sostanzialmente umana nonostante i divieti e le punizioni. Anche il tradimento che alcuni di loro compiono nei confronti di alcuni compagni assume, in quella circostanza in cui è narrato, un sintomo di umanità presente e nonostante tutto ancora ben radicato; lo stesso si può dire di quelli tra i ragazzi che accettano, loro malgrado, di diventare collaborazionisti dei fascisti (saranno proprio due di questi che alla fine emblematizzeranno la vittoria morale dei torturati).
Nell’introduzione, il regista ci dà alcuni scorci naturali dei luoghi dove si svolgerà l’azione, presentandoli fotograficamente quasi in maniera idilliaca, tanto è il loro fascino. Sembra quasi che questi paesaggi si contrappongano agli interni in cui i personaggi si muovono, cosí lussuosamente freddi e aridi. Inoltre, subito dopo i titoli, Pasolini presenta una didascalia in cui data l’azione del film: è il millenovecentoquarantacinque, gli ultimi mesi di sopravvivenza del fascismo, di quel fascismo che aveva abiurato la monarchia e, nell’ultimo disperato tentativo di sopravvivere, si era dato una veste repubblicana. Elementi questi che emblematizzano la situazione portando lo spettatore ad una lettura soltanto ed esclusivamente storica sul fascismo, e non come vorrebbero alcuni sul potere neo-capitalistico. Infine la conclusione: due ragazzi, in tutto e per tutto simili a quelli che stanno morendo per le sevizie nel cortile, in una stanza della villa ballano insieme e si fanno alcune confidenze ingenue ma sincere sulle rispettive ragazze. È la vittoria della spontaneità dei giovani, di quei giovani che Pasolini amava, per il loro legame alla antica civiltà contadina, quei giovani che per molti anni egli ha visto come reale alternativa di classe, gli stessi dai quali lo scrittore friulano si è sentito profondamente tradito negli ultimi tempi della sua vita, quando cioè li ha riscoperti imprigionati come gli altri, dalla struttura neo-capitalistica del consumismo.
Eccoci dunque all’idea centraledi SALÒ: il fascismo, quello storico, nonostante la violenza crudele fino allo spasimo dei suoi artefici (alto borghesi, nobili, clero) non è riuscito a trasfigurare l’umanità delle vittime designate (proletariato contadino e urbano legato alle tradizioni culturali sue proprie). Tra gli uni e gli altri, vi era una distanza realmente incolmabile (si noti l’uso del grandangolo: per accentuare anche otticamente la suddetta distanza). Ma tutto questo non è piú riscontrabile nella realtà odierna, dove questa incolmabile distanza pare sia immancabilmente crollata (il discorso di Pasolini è storico: quel fascismo è finito con Salò).
Molto si è detto su quest’ultima opera di Pasolini, soprattutto al tempo in cui il film fu bloccato dalla censura. Tuttavia credo che pochi abbiano capito la forte dose di polemica he l’opera contiene nei confronti di certi politici ed intellettuali della cosidetta «intelligencija» italiana che si piccano di antifascismo «ad ogni pié sospinto» per coprire i lori misfatti contemporanei.
Lo stile è quello caro allo scrittore: scandaloso fino all’inverosimile, realista fino alla esasperazione. Queste componenti evidentemente provocano scandalo e quindi intolleranza anche nelle menti piú progredite troppo tese ad indentificare la realtà con la sua immagine, senza badare minimamente alla costruzione strutturata delle immagini.
Pasolini è sempre lo stesso della «Trilogia della vita», solo che in questo SALÒ sembra talmente sfiduciato e disilluso dalla realtà contemporanea, che per testimoniare i suoi valori è dovuto ricorrere ad un film storico, ma non per questo nostalgico. Probabilmente se fosse stato in grado di operare ulteriormente, avremmo avuto modo di seguire fino in fondo il discorso iniziato con questo film; e forse solo allora avremmo potuto comprendere e quindi mettere definitivamente da parte l’intolleranza a cui troppo spesso ingiustamente Pasolini è stato sottoposto. (Fabrizio Costa, da Edav n. 48, 1990)