BEIXI MOSHUO (BEHEMOTH)
Regia: Zhao Liang
Lettura del film di: Manfredi Mancuso
Titolo del film: BEIXI MOSHUO (BEHEMOTH)
Titolo originale: BEIXI MOSHUO (BEHEMOTH)
Cast: Regia, scenegg., fotogr.: Zhao Liang – durata: 95’ – origine: FRANCIA, 2015
Sceneggiatura: Zhao Liang
Presentato: 72. Mostra Internazionale D'arte Cinematografica di Venezia (2015) VENEZIA 72
In Cina, gli implacabili meccanismi del Progresso industriale stanno poco a poco cambiando il volto del paesaggio, mentre i pascoli verdi del passato lasciano il posto alla polvere delle miniere. Autocarri e ruspe lavorano incessantemente notte e giorno, quasi mitici mostri meccanici che si stagliano sul profilo delle montagne, le cui sommità vengono a loro volte sconquassate dai lavori di estrazione mineraria.
A farne le spese, come spesso accade, è l’uomo: i lavoratori, distrutti dalla fatica per condzioni di lavoro inumano, e fiaccati dalle condizioni disagiate, si ammalano, costretti a dover contare su macchine artificali che li aiutano con la respirazione.
Il tutto per mandare avanti la catena della “Modernità”, mentre città fantasma, belle e angoscianti, vengono costruite e poi abbandonate. Tutto al costo di vite umane.
Il regista Zhao Liang divide il racconto in tre diversi segmenti, i quali si rifanno per ispirazione ai diversi regni della Divina Commedia Dantesca (Inferno, Purgatorio e Paradiso). I richiami all’Opera ora menzionata sono del resto enunciati lapalissianamente nel corso del film, dalla voce narrante, che cita interi versi delle quartine del poeta Italiano, e mettendo in scena una metaforica figura di uomo nudo (del quale non si vede mai il volto per significare appunto la sua universalità di figura umana), accompagnato da una “Guida”. Questi è di fatto un altro personaggio con precisi riferimenti alla Commedia (Virgilio), che mostra al viandante (e allo spettatore) gli orrori da attraversare per giungere all’agognato Paradiso e che va in giro portando sulle spalle uno specchio, significante forse, nel suo simbolismo, un nostalgico ricordo del Passato che fu e al quale non si potrà più tornare indietro (lo specchio mostra il percorso retrostante, rispetto alla Guida che invece procede sempre in avanti). Liang fa anche un uso descrittivo di tre colori principali (rosso, grigio e alla fine blu) per significae gli stadi di passaggio di tale viaggio.
Dopo aver presentato gli antefatti dell’orrore (il paesaggio e i verdi pascoli divelti e squarciati dalle esplosioni delle miniere, mentre i pastori si allontanano con le loro pecore in cerca di altri spazi), la macchina da presa si sofferma a più riprese a osservare le condizioni di lavoro e di vita dei minatori; la casupole inospitali e prive delle necessità di base nella quale vivono; i loro volti scavati e sporchi, mentre tentano alla fine della giornata di lavar via lo sporco dalla loro pelle. Un quadro rosso indica poi il passaggio all’Inferno vero e proprio, vissuto da uomini che lavorano nelle fucine delle miniere, tra getti rossi di liquido metallo incadescente e vampate di fiamme vive che costringno gli operai, grondanti di sudore, a cercare a più riprese il ristoro di un sorso d’acqua dei loro thermos. Nel Purgatorio (distinto da un quadro grigio, come il cielo delle miniere, saturo di polvere), si passa quindi a indagare le condizioni di salute degli operai, ammalati a causa del loro lavoro e le loro lotte per il riconoscimento dei propri diritti. Tutto questo confluisce infine nel “Paradiso” (introdotto da un fugace quadro blu), enormi quartieri di città fantasma (nelle quali però, si badi bene gli uomini continuano a lavorare, seppur il loro lavoro non giovi a nessuno e sia del tutto privo di senso) con enormi grattacieli e strade immacolate e prati verdi che sembrano di plastica (così come del resto lo sono le statue delle pecore che “abbelliscono” i dintorni).
Utilizzando un linguaggio rigoroso e preciso il regista esprime con efficacia (tutta visiva e con minimo ricorso alle parole) l’idea che il Progresso, quando insensato e incurante della dignità della vita umana, diventa un mostro. Non a caso il titolo del film, riporta proprio a un mostro biblico, al quale - e il film tiene a precisarlo (in quei pochi momenti in cui la voce fuori campo torna a farsi sentire) - siamo noi stessi a dar vita.
Intelligente, ben realizzato e non privo di certa mordace ironia, il documentario di Zhao Liang si fa apprezzare anche per la forza visiva dell’opera, suggestiva e anche poetica, in certi passaggi, nonostante la crudezza delle situazioni che descrive.
Vero è che il documentario cade a tratti nel didascalismo, specie in quei momenti in cui il concetto espresso dalla voce narrante concide con quello mostrato dalle immagini, ma è un peccato veniale che non incide comunque sul giudizio complessivo dell’opera.