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La fabbrica dei tedeschi



Regia: Mimmo Calopresti
Lettura del film di: Adelio Cola
Edav N: 364 - 2008
Titolo del film: LA FABBRICA DEI TEDESCHI
Cast: regia: Mimmo Calopresti – sogg e scenegg.: Mimmo Calopresti, Cristina Cosentino – fotogr.: Paolo Ferrari – scenogr.: Alessandro Marrazzo – mont.: Raimondo Aiello – suono: Sandro Zanon, Remo Ugolinelli, Roberto Remorino Gambotto – mus.: Riccardo Giagni – interpr.: Valeria Golino (Anna), Monica Guerritore (la madre), Luca Lionello, Silvio Orlando, Rosalia Porcaro, Vincenzo Russo, Giuseppe Zeno – colore, B/N – durata: 90’ – produz.: Simona Banchi, Valerio Terenzio per Studio Uno – produz.: Peppe Calopresti, Piero Mascitti – realizzato con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte e della Regione Piemonte (piemonte doc film fund – fondo regionale per il documentario) – origine: ITALIA, 2008 – distrib.: Istituto Luce
Sceneggiatura: Mimmo Calopresti e Cristina Cosentino
Nazione: ITALIA
Anno: 2008
Presentato: 65. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia - 2008 - Orizzonti

Il titolo del film non è simpatico. Quando gli intervistati dal regista parlano di quella «fabbrica», da un certo punto di vista la benedicono «perché ci dà i mezzi per sopravvivere», ma per lo piú la ricordano maledicendola. «I Tedeschi, fare la fabbrica sempre piú grande sempre piú grande, soldi soldi sfruttando gli operai, umiliazioni, sacrifici continui…».
Per quanto è dato di sapere e da quello che si ascolta dagli interessati, colleghi sopravvissuti dei sette morti, già prima che scoppiasse l’incendio nel Settore 5 della THISSENkRUPP ACCIAI SPECIALI TERNI DI TORINO, ci si aspettava che prima o poi succedesse qualche disgrazia! «Avevano deciso di chiudere a Torino ma intanto non hanno provveduto ai sistemi di sicurezza. E noi orari e turni inumani, perché la produzione non si può fermare, bisogna andare sempre avanti, il nostro è l’acciaio migliore del mondo, tutti ce lo invidiano, vengono da tutto il mondo a vedere come facciamo noi, vengono ad imparare come si fa…». L’orgoglio del risultato d’un «lavoro bestiale», otto e piú ore a contatto con il fuoco, nel buio del fumo, vetri rotti sostituiti con fogli di plastica nera che non lasciano passare la luce, neanche il tempo di scambiare quattro chiacchiere, lontani dalla famiglia da mantenere…arrivi a casa e non hai neanche voglia di mangiare, non hai il tempo di stare con la moglie e con i figli, hai solo bisogno di sdraiarti sul letto e riposare…».
Intanto, mentre ascoltiamo testimonianze e memorie dei colleghi morti bruciati, rivediamo ogni tanto la facciata della fabbrica con quel suo nome tedesco all’entrata e davanti al cancello mucchi di mazzi di fiori e fotografie degli scomparsi.
Era cominciato, il film, facendo ascoltare rumori sinistri, (sapremo che è l’incendio che li produce!), sostituiti subito da una delle cento possibili variazioni dell’antica melodia «La follia», azzeccatissimo commento musicale alla decisione dei «capi» di continuare a mantenere aperta la fabbrica senza condizioni di sicurezza: «Follia follia follia!», ripete indignato un operaio.
Il regista incontra con il ruolo d’intervistatore amici e familiari dei morti, fa brevi domande, lascia parlare senza interrompere chi parla, dimostra partecipazione muta a chi ricorda il marito, il padre, l’amico che non ci sono piú. La piccola troupe con il fotografo di scena che fissa istantanee dei presenti, l’operatore che gira il documentario, il gruista che con il microfono allungato cattura in presa diretta parole e rimpianti, alterna le riprese intervistati e autore del film quasi sempre in PPP.
L’ambientazione delle persone interrogate è varia: ai margini della pubblica strada, ferme sulla panchina del parco, addossate ad un albero, sullo sfondo della fabbrica, in casa d’una vedova con il bambino sulle ginocchia. Con quelle belle fotografie a colori, che ti fanno rimpiangere chi non c’è piú.
I brevi viaggi in automobile da un’abitazione all’altra per incontrare amici e parenti dei morti interrompono le testimonianze raccolte. Il rimpianto affettuoso ed inutile di chi li ricorda belli buoni bravi non è mai sottolineato da lacrime e lamenti «spettacolari». Rispetto e dignitoso silenzio tra le brevi frasi registrate accompagnano le espressioni di cordoglio di chi parla, condivise da chi le raccoglie.
Il film si presenta come documentario diviso in due parti.
La prima in B/N fa interpretare i parenti stretti dei morti da artisti dello spettacolo, che rievocano gli scomparsi negli ultimi giorni prima della loro fine. Attraverso personaggi popolari il regista esprime cosí il lutto che ha colpito tutti gli italiani (e non soltanto loro!) alla notizia che nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 è successa la disgrazia della morte sul lavoro di sette operai. Tutto è dipeso dalla mancanza di attrezzature efficienti per spegnere l’incendio che improvvisamente (non imprevedibilmente!) s’è sviluppato nel settore 5 della «Fabbrica dei Tedeschi».
Gli interpreti della prima parte parlano rivolgendosi ad interlocutori che non si vedono: figli, madri, spose, amici. L’attesa e la speranza d’una vita migliore da procurarsi con i frutti dei duri sacrifici incontrati lavorando in condizioni molto disagiate, li sosteneva da anni giorno dopo giorno.
Il fuoco che riempie improvviso lo schermo introduce la seconda parte del film, che comprende le interviste ricordate sopra.
Il nostro non è un film spettacolare, e questo è un pregio dal momento che esso vuole commemorare, senza approfittare dell’occasione per spettacolarizzare una disgrazia, chi è perito nell’adempimento del suo dovere in un lavoro faticoso e pericoloso, lasciando a casa vedove, figli e amici, che ora li rimpiangono e «tirano avanti soli nella vita».
Semplicità e sincerità sono le caratteristiche che raccomanda il documentario a spettatori (pochi… finora!) che desiderino condividere il lutto dei sopravvissuti dopo quanto accaduto a pochi giorni di distanza dal Natale del 2007, per il quale alcuni dei morti avevano previsto «festa in famiglia con regali, acquistati con la tredicesima, per i bambini sotto l’albero illuminato!».
La colonna sonora, che si ascolta dopo «La follia», commenta con accorata melodia lamentevole il dignitoso documentario.
Perdoniamo al regista qualche cedimento divistico, specialmente nella prima parte, ed alcune (forse involontarie?) pubblicità occulte: vedi le bottiglie di liquori in casa d’una persona intervistata e la ripetuta ripresa in PP d’una marca di occhiali da sole, indossati da signore riprese con insistenza su dettagli del volto di fronte e in profilo.
È significativo il fatto, testimonianza dell’immigrazione italiana interna alla ricerca di posti di lavoro pericoloso ma redditizio, che tutti gli intervistati si esprimano con inflessioni dialettali meridionali.
Superflua, perché evidente, è l’esplicitazione seguente:
È la storia di familiari ed amici di sette operai italiani morti nel lavoro  (già impegnati in esso per mantenere le proprie famiglie) in condizioni mantenute pericolose da imprenditori industriali preoccupati soltanto del profitto economico, i quali li ricordano con accorato rimpianto.

Per la formazione della personalità dei giovani in cerca di lavoro è utile la visione del film affinché gli interessati si preoccupino non soltanto di guadagnare e di «fare soldi» ma di lavorare in condizioni di sicurezza, controllata e collaudata dalla competente autorità (qui c’è anche l’idea centrale del film). (Adelio Cola)
 

 


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