Il dolce e l'amaro
Regia: Andrea Porporati
Lettura del film di: Franco Sestini
Edav N: 354 - 2007
Titolo del film: IL DOLCE E L'AMARO
Cast: regia e sogg.: Andrea Porporati scenegg.: Andrea Porporati e Annio Gioacchino Stasi fotogr.: Alessandro Pesci scenogr.: Beatrice Scarpato mont.: Simona Paggi mus.: Ezio Bosso cost.: Mary Montalto locations: Palermo, Trapani, Piemonte interpr. princ.: Luigi Lo Cascio (Saro Scordia), Donatella Finocchiaro (Ada), Tony Gambino (Gaetano Butera), Gaetano Bruno (Mimmo Butera), Gioacchino Cappelli (Saro a 14 anni), Ornella Giusto (Antonia, moglie di Saro), Emanuela Muni (signora con la parrucca), Vincenzo Amato (padre Saro), Renato Carpentieri (Vicari), Fabrizio Gifuni (Stefano Massirenti) durata: 98 colore produz.: Francesco Tornatore per Sciarlς e Stefano Cailoni per Medusa Film spa VM 14 origine: ITALIA, 2007 distrib.: Medusa Film spa
Sceneggiatura: Andrea Porporati e Annio Gioacchino Stasi
Nazione: ITALIA
Anno: 2007
Presentato: 64. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia - 2007 - In Concorso
È la storia di Saro Scordia che sembra un «predestinato» a ricoprire un ruolo di prestigio all’interno di «cosa nostra»: l’incontriamo – ancora giovanissimo – scortato dai Carabinieri in un Carcere di Massima Sicurezza dove il padre sta capitanando una rivolta e tra le condizioni poste c’è quella di incontrare la propria famiglia; di quell’incontro gli rimarrà impressa una frase che il padre gli dice: «ricordati che nella vita c’è il dolce e c’è l’amaro». Diventato adulto, viene adottato da un «capo mafia di medio livello», Gaetano Butera, per varie incombenze di fiducia, tipo incassare il pizzo dai commercianti ed altre piacevolezze del genere; in una di queste attività il giovane viene denunciato e sconta un po’ di tempo in prigione, nella mitica «università» dell’Ucciardone, e lí incontra un vero boss di cosa nostra, Vicari il quale lo prende in grande simpatia.
Uscito di prigione riprende a collaborare con Butera e da questi riceve incarichi sempre piú importanti, compreso alcune rapine in banche del nord, fino a giungere alla richiesta di una «ammazzatina» (un omicidio) da realizzare a Milano ai danni di un capo della «n’drangheda»; l’operazione si risolve bene, nonostante le indecisioni del figlio di Butera e quindi Saro viene assunto in pianta stabile dalla mafia con il grado di soldato: nell’occasione del giuramento, vengono spiegati tutti i vari gradi fino alla commissione regionale ed i nomi di coloro che ricoprono queste cariche.
Saro è innamorato di Ada, un’insegnante del luogo, ma la relazione termina in quanto lei non è disponibile a sposare un «mafioso» e quindi la ragazza accetterà di andarsene dall’isola per insegnare nel nord Italia.
Continua la carriera di Saro all’interno dell’ambiente mafioso, ma il giovane – che nel frattempo si è sposato con una ragazza del luogo ed ha avuto un bambino – entra a far parte di un conflitto di potere tra due capi mafia e rischia di essere quello che ci rimette; decide cosí di abbandonare e di andare al Nord alla ricerca di Ada; la trova e viene accolto bene dalla ragazza che sembra disponibile a rimettere in gioco un rapporto con lui: un po’ di soldi messi da parte in un conto segreto gli consentono di acquistare una lavanderia, ma il destino sembra non abbandonarlo: per un vecchio problema di droga, del quale lui è anche innocente, viene nuovamente arrestato e, a questo punto si decide a chiedere un aiuto ad un vecchio amico, Stefano Massirenti, ora giudice a Palermo, al quale dichiara di essere disposto a rivelare tutto, purché sia salvaguardata la vita di Ada; l’amico farà di piú, includendolo nel programma di protezione e quindi lo ritroviamo in un paesino del Nord, dietro il banco di una edicola di giornali, con una grande barba nera e con Ada – e il loro bambino – ancora con lui. La frase che gli lancia l’amico è stranamente uguale a quella che ebbe a dirgli il padre tanti anni prima: «nella vita c’è il dolce ma c’è anche l’amaro».
Le ultime due sequenze sono da raccontare: la penultima ci mostra Saro che sta effettuando una operazione presso la banca del luogo, quando entrano alcuni rapinatori che – con spiccato accento siculo – chiedono le solite cose (fate silenzio, dateci il malloppo, ecc.): ripensa allora che la medesima cosa accadde a lui quando faceva dei brevissima raid al nord per compiere delle rapine e scoppia in una gran risata; i banditi non capiscono e stanno per sparargli quando il «capo» impone la ritirata e tutto finisce bene. L’ultima, invece, si svolge davanti alla sua edicola e riguarda la fornitura giornaliera di quotidiani: da essi Saro apprende che il giudice suo amico è stato massacrato dalla mafia, come del resto gli aveva predetto.
Siamo davanti al «solito» film sulla mafia, forse fatto meglio di tanti altri, ma niente di eclatante: i ruoli sono sempre gli stessi e i cattivi sono sempre piú cattivi, mentre i buoni sono e rimangono buoni; c’è in piú quella frase «dopo il dolce viene l’amaro» che ritorna due volte nella narrazione, una volta detta dal padre di Saro e l’altra dal giudice Massirenti, ma non mi appare come qualcosa di molto diverso da quello che siamo stati abituati a vedere negli ultimi anni, ed in particolare negli ultimi serial televisivi dei quali ha anche il ritmo lento e cadenzato.
In piú abbiamo la presenza di un bravissimo attore come Luigi Lo Cascio, già presente in alcuni film del genere ma dalla parte opposta, cioè dalla parte del buono e non del mafioso (è sempre viva la figura di Peppino Impastato disegnata ne I CENTO PASSI); ecco, la sua interpretazione, forse per lo stereotipo di «buono» che è in noi, mi ha lasciato assai perplesso: l’aspetto mimico è assai controllato, quasi immoto, mentre la recitazione verbale è misuratissima; sembra quasi che il bravo attore abbia paura di sbagliare impostazione e quindi stia abbondantemente «sotto le righe» per non fare piú del necessario.
Tematicamente l’opera non presenta niente di nuovo: anche il bravo Saro, si pente solo quando non può fare altrimenti, ma prima di questo ne ha combinate di cotte e di crude, quasi che fosse un suo diritto uccidere, rapinare e imporre il pizzo; quindi il protagonista diventa personaggio positivo solo per forza maggiore e non per una qualche presa di coscienza che lo fa rifuggire dalle uccisioni e dagli altri reati.
Quindi possiamo concludere che il film è assolutamente didascalico, come se fosse una sorta di «documentario» sulla mafia, sulla solita mafia di sempre, vista e rivista cento volte al cinema: non a caso tutti i personaggi sono strettamente legati agli stereotipi classici del mafioso o della moglie di lui, quindi non vi possiamo ricercare niente di nuovo, anche se – nell’aurea mediocrità dell’attuale panorama cinematografico – il film di Porporati troverà certamente una discreta accoglienza. (Franco Sestini)