La bestia nel cuore
Regia: Cristina Comencini
Lettura del film di: Nazareno Taddei
Edav N: 333 - 2005
Titolo del film: LA BESTIA NEL CUORE
Cast: regia: Cristina Comencini scenegg.: Francesca Marciano, Cristina Comencini e Giulia Caleda fotogr.: Fabio Cianchetti mont.: Cecilia Zanuso mus.: Franco Piersanti scenogr.: Paola Comencini costumi: Antonella Berardi interpr.: Giovanna Mezzogiorno (Sabina), Alessio Boni (Franco), Stefania Rocca (Emilia), Angela Finocchiaro (Maria), Giuseppe Battiston (Regista Negri), Luigi Lo Cascio (Daniele), Valerio Binasco (Padre), Francesca Inaudi (Anita) durata 120 colore produtt.: Riccardo Tozzi produz.: RAI Cinema e Cattleya - origine: Italia, 2005 distrib.: 01 Di-stribuzione
Sceneggiatura: Francesca Marciano, Cristina Comencini e Giulia Caleda
Nazione: ITALIA
Anno: 2005
Presentato: 62. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia - 2005 - In Concorso - COPPA VOLPI FEMMINILE (Giovanna Mezzogiorno)
Ho già scritto che i testi parlati dei film «in presa diretta» non sono sempre intelligibili.
Per fare un film, infatti, sono necessarie almeno due cose: anzitutto, un’«idea» esprimibile anche in parole; e, secondo, tale conoscenza del linguaggio cinematografico da essere capaci di tradurre (non basta: «trasporre») quelle parole in immagini; il che è già un po’ piú difficile, perché occorre avere un’idea (cioè qualcosa da «dire», come contenuto tematico, e non solo da «narrare»); occorre quindi sapere bene cos’è un Soggetto («traduzione» e non solo «trasposizione» dell’idea in una serie collegata di «sequenze» cinematografiche narrative), un Treatment («traduzione» e non solo «trasposizione» di ogni sequenza in una serie di episodi che la compongono, narrati però cinematograficamente) e una Sceneggiatura («traduzione» e non «trasposizione» di ogni episodio in immagini narranti cinematograficamente [cioè: chi narra dev’essere l’immagine e non la parola].
La Comencini ha scritto che «le parole non sono mai all’altezza del mito che rappresentano». Ma è anche vero che le parole hanno verbi, con relativi tempi (presente, passato e futuro), avverbi e aggettivi, mentre l’immagine ha solo azioni (o, meglio, solo rappresentazione «verbale» di azioni, che – se fatte come vanno fatte – esprimono i vari modi [di tempo, qualità, ecc.]); per di piú: le immagini dicono sempre tutte e solo al tempo presente.
Tutt’altro modo di esprimere, dunque; tutt’altro linguaggio.
Non essendo ancora capaci di «tradurre in immagini» un testo verbale, i registi, giovani e non piú giovani, italiani e non solo italiani, ricorrono alla parola, parlata o scritta (dialoghi, annotazioni, ecc.), per «dire» (cioè «esprimere» quello che non sono riusciti a dire conl’immagine. Quindi, se il parlato, a voce o scritto, è difettoso o lacunoso, siete fritti.
È quello che mi succede quasi a ogni film anche di questa Mostra, dove, nonostante almeno i quattro anni di rimostranze non riesci a capire le vicende – cioè la base narrante di un film – perché o le riprese (come già detto) sono «in presa diretta», anziché in doppiaggio, o i sottotitoli sono stampati in bianco su fondi chiari o addirittura bianchi; cosí, non si riesce a cogliere quello che il film sta veramente narrando.
È poi da dire, che la vera valutazione o artistica o tematica o pedagogica di un film dipende solo (direi: esclusivamente) dai vari «modi» in cui esso è realizzato.
Caschiamo cosí nell’altro fondamentale capitolo, ch’è quello della CRITICA, e che anche quest’anno s’è presentato – e non senza angustie – al Lido di Venezia.
Quindi è ovvio che un’adeguata conoscenza anche teorica e pratica del linguaggio cinematografico si impone sia per gli au¬tori, cioè per chi fa il film, sia per i fruitori di un film; tanto piú quindi per chi deve scegliere, e ancor piú valutare i film di una Mostra, e parlarne come a quella del Lido.
Non è difficile rendersi conto, anche solo dagli accenni che ho offerto, che si ha a che fare con un film – già per la vicenda – piuttosto complesso e non perfettamente vincolato da un struttura, che è tutt’altro che perfetta e rigidamente chiara, dove il testo verbale è chiamato non una sola volta a far capire quello che l’immagine non sermpre riesce a fare da sola: eppure si tratta di un film costruito su un romanzo.
«È la prima volta – ha scritto l’autrice Comencini – che mi succede di “trasformare in cinema le parole di un mio romanzo”». Ed è chiaro che non è impresa facile: si tratta di due linguaggi completamente diversi che nascono e determinano seccamente l’origine di due diverse culture. «Questa ch’è nata dai nuovi modi di comunicare», come ha scritto Papa Wojtyla nella sua magistrale pericope all’art. 37 dell’enciclica Redemptoris Missio: bensí «occorre integrare il messaggio cristiano in questa “nuova cultura” creata dalla comunicazione moderna. È un problema complesso, poiché questa cultura nasce, prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici.»
Veniamo dunque al nostro film.
È tratto dall’ultimo romanzo omonimo della stessa Comencini e racconta la storia di Sabina, un’attrice che non avendo avuto molto successo lavora come doppiatrice. Vive insieme a Franco, anche lui attore; sono innamorati e la loro vita è abbastanza serena.
Ma Sabina ha una «bestia nel cuore», cioè un incubo che la tormenta, legato - come si saprà piú avanti - ai ricordi incresciosi suoi e del fratello Daniele (ora in America), dovuti al papà che abusava sessualmente della loro giovinezza.
Il film inizia con Sabina al cimitero, dove le vengono restituite le due fotografie del papà e della mamma tolte dalle rispettive tombe dopo molti anni.
Sotto i titoli di testa, il film percorre, senza vero e proprio significato, se non per il raccordo con l’ambiente, l’interno di una casa borghese con mobili e suppellettili coperti di polvere.
Sabina, guardando le foto ricevute al cimitero e anche altre, cerca di ricordare qualcosa della sua infanzia, ma non trova nulla di significativo. Fa però un sogno angoscioso dove si vede bambina, col papà che di notte la prende e la porta sul proprio letto.
Questo sogno arriva a stravolgere tutta la sua vita e perfino a turbare il suo rapporto con Franco dal quale non vuole piú essere toccata.
Sabina parla di ricordi con l’amica Emilia, amica di infanzia, una ragazza che ha perso la vista e che vive isolata dal resto del mondo; ma non riesce a sapere niente al riguardo. Emilia vorrebbe da Sabina qualcosa di piú d’una semplice amicizia, ma questa non le ha mai corrisposto. Anche con Maria, una collega di lavoro che è stata abbandonata dal marito, dopo vent’anni, per una ragazzina che ha l’età della loro figlia, Sabina parla di queste cose e in lei si accentua il turbamento.
Con il loro aiuto cerca di mettere ordine fra i suoi ricordi, ma le sembra che gliene siano rimasti molto pochi. Sente cosí il bisogno di andare in America per parlarne col fratello Daniele e parte per gli Stati Uniti.
In America, solo al fratello dice che è incinta, ma che Franco non lo sa.
La notte dell’ultimo dell’anno, in piena festa in casa del fratello con loro amici, a mezzanotte corre lo spumante e Daniele in giardino accende i fuochi d’artificio.
Alla cognata che le fa gli auguri, Sabina dice d’essere incinta e la cognata si lascia sfuggire una vecchia frase di Daniele «Ora sei salva!», ma non le sa dire cosa volesse significare. Sabina, eccitatissima, cerca il fratello, urlando forsennatamente quella frase. lo trova nel giardino e Daniele è costretto a fare a Sabina la piena confessione di tutto: anch’egli ha lo stesso incubo, per cui non riesce nemmeno ad accarezzare i propri figli. Sabina riesce cosí a scoprire la verità. Il padre abusava di Daniele e poi anche di lei, ma l’ha fatto solo due volte.
La confessione con Sabina, per Daniele è la liberazione.
Mentre Sabina è in America, l’amica Emilia fa amicizia molto intima con Maria; e Franco, solo, è istigato a far sesso da una collega attrice; ma, una sola volta, cede per debolezza.
Sabina rientra in Italia e comunica a Franco di essere incinta. Questi ne è felice e cerca di abbracciarla ma Sabina si ritrae. Franco ne chiede ragione, perché la trova cambiata già da prima che partisse per l’America. Le confessa inoltre la sua scappatella e Sabina dice, invece, solo che le è successo qualcosa di molto grave che però non sa come dire.
Li ritroviamo tutti al mare: Sabina, Franco, Emilia e Maria ospiti del regista,col quale Franco lavora e divenuto anch’egli amico di tutto il gruppo.
Per Sabina, il tempo del parto s’avvicina; ma Sabina non riesce piú a resistere presso il marito e fugge di casa.
Tutti la cercano; ma non riescono a trovarla.
Frattanto, le doglie la colgono con violenza in treno. Tra un urlo e l’altro, Sabina rivede nel ricordo quant’era successo nella sua infanzia e si sente liberata dall’incubo.
Senza molte spiegazioni, la ritroviamo in un letto d’ospedale, dove tutti gli amici, compreso Franco, la vengono a trovare.
Emilia quando vede che Sabina, al risveglio, cerca Franco, si rende conto che la sua amicizia è ormai superflua e se ne va da Maria. Sabina chiama presso di sè Franco e l’abbraccia.
Vediamo ora il neonato (Daniele jr) nella culla e tra le braccia del regista, il quale sta pensando a un film su un neonato trovato nella spazzatura e, dice a questo Daniele jr di non aver fretta a crescere «perchè ho bisogno di te nel mio prossimo film».
Saltiamo in America; dove Daniele il fratello gioca col figlio maggiore, che riesce finalmente ad abbracciare.
Un film direi chiaramente psicologico; ma non oserei dire altrettanto fedele alla scienza della psicologia. E direi che è la prima e piú grave delusione che il film offre a uno spettatore attento e desideroso di coglierne l’intreccio e le motivazioni secondo scienza e verità.
Ha confessato l’autrice: «Il film è tratto dal mio ultimo romanzo. Sia con il romanzo sia con il film volevo raccontare un fondo oscuro di ognuno di noi – qualcosa che ci portiamo dentro fin da bambini o forse anche da prima. Un’origine comune della nostra affettività, dell’amore, di tutti i nostri legami, un’energia che fa parte della natura umana e che non ha connotazioni positive o negative, ma a cui noi dobbiamo dare un volto, una forma che possibilmente non faccia soffrire e ci renda felici. Ogni essere umano possiede questi doppi pensieri, questa doppia natura, contro cui talvolta è molto difficile lottare.
D’accordo che sia difficile lottare contro questa «bestia», che proprio «bestia» forse non è e che, anche detta né con quelle parole, né mi pare sia proprio convincente e nemmeno con quella stesura cinemtografica che ci fa certo capire quanto viva e anche profonda sia quella sofferenza, pur senza eliminare gli in¬terrogativi che nascono spontaneamente nello spettatore: e cos’è tutta quella faccenda? L’autrice lo afferma a parole e vuole farcelo credere, ma non so se e fino a che punto ci riesca con le sue immagini. Frutto certo di una mano e di una testolina che ci sa fare, almeno da parte di Papà. (Nazareno Taddei SJ)