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25° Torino film festival 23 novembre – 1 dicembre 2007


di ADELIO COLA
Edav N: 356 - 2008

Il successo d’una iniziativa non è sempre prevedibile. Nel caso del TFF è stato superiore alle previsioni.

Le osservazioni premesse al catalogo generale del festival dall’assessore alla Cultura della città di Torino Fiorenzo Alfieri con gli assessori della Provincia e della Regione Piemonte, puntualizzano la natura della manifestazione: «Il Torino Film Festival è un vero laboratorio di cultura: ha offerto un palcoscenico a giovani autori capaci di proporsi con la freschezza di linguaggi nuovi e diversi, ma è anche stato luogo di incontro e di confronto, di crescita, di scambio, di sviluppo e di analisi critica. Una manifestazione che ha saputo imporsi a un pubblico sempre piú ampio, un pubblico vero che ogni novembre affolla le sale dei cinema per assistere alle proiezioni, partecipare ai dibattiti, approfondire la propria conoscenza. L’opportunità di osservare la realtà da piú angolazioni è una condizione essenziale per comprendere e non solo conoscere, per incontrare l’altro attraverso un dibattito costruttivo che diventa occasione di formazione e di crescita individuale e collettiva: queste le ragioni di esistere del Torino Film Festival».

L’esplorazione del mondo contemporaneo da punti di vista diversi che permettono di incontrare culture e tradizioni lontane, che spesso sono viste con pregiudizi per il fatto di non essere conosciute e quindi comprese, è stato quest’anno un merito particolare del festival torinese.

Il dibattito costruttivo, al quale fanno riferimento le parole citate, si è offerto quale mezzo di confronto ragionato di idee e non quale criterio per accettare o rifiutare impressioni e giudizi dell’altro.

Ognuno ha il diritto di avere e difendere opinioni e convinzioni personali; il confronto aperto con chi pensa e vive in modo diverso e talvolta opposto, è degno di rispetto e diventa fonte di positivo dibattito.

 

Uno dei modi, forse tra i piú efficaci, di esporre oggi la propria Weltanschaung è l’uso del linguaggio cinematografico. Le immagini visive e sonore del regista dicono, talvolta meglio delle parole del letterato, la mentalità e l’esistenzialità del loro autore. Resta allo spettatore, oltre che al lettore, la comprensione (= lettura) delle immagini usate dal regista in modo che esse siano ciò che volevano essere, i mezzi espressivi del suo pensiero.

Il programma del 2007 ha presentato tra l’altro la rassegna dei film diretti da Wim Wenders, occasioni per rilevare modi e scelte linguistiche di qualche tempo fa confrontabili con l’aggiornamento delle tecniche con le quali il regista esprime oggi i suoi messaggi.

 

I quattro film di W. Wenders che ho potuto vedere testimoniano, al di là della buona dose d’allegria e d’umorismo con la quale s’è presentato al pubblico nelle conferenze stampa, l’altrettanta buona dose di pessimismo che esiste nel fondo della sua personalità.

Il coraggio giovanile di filmare, con il consenso dell’interessato, gli ultimi giorni di vita dell’amico regista Nicholas Ray (NICK’S FILM LIGHTNING OVER WATER, RTF/Svezia, 1980, 90’, colore), è stato sostenuto dalla decisa volontà di N. Ray di volere lasciarsi filmare in quelle condizioni. C’è un’altra specie di morte che Wenders testimonia, quella della solitudine quotidiana, sperimentata da coloro che tra affari e lavori soffrono di quel male incurabile.

I due personaggi di IM LAUF DER ZEIT (RTF, 1976, 175’, bn), Bruno riparatore di proiettori cinematografici e Kamikaze, indagatore dell’interiorità delle persone attraverso la loro scrittura, girano il mondo taciturni e riflessivi riconoscendo alla fine che «quaggiú tutto è sbagliato e che bisogna cambiare tutto!». Circa il suo mestiere, riflette Bruno con amarezza ripensando alle parole della figlia d’un suo collega morto, «È meglio che il film non esista piú, se il film continua a sfruttare ciò che vede e fa abbrutire gli uomini!». L’autore del film desiderava dunque (si era negli anni ’70) che la settima arte cambiasse strada e si proponesse obiettivi diversi.

Con il film FALSCHE BEWEGUNG (RTF, 1975, 103’,colore) si ha l’impressione che il regista abbia voluto annoiare il suo pubblico con una interminabile meditazione sull’inutilità della vita, vissuta senza ideali e convinzioni di alcun tipo, neanche politico. Il pensiero della morte ingombra la testa dei due personaggi principali, un giovane scrittore apatico e indifferente a tutto ciò che succede e l’attrice di teatro Teresa, insoddisfatta di tutto e di tutti, eppur affamata di corrispondenza d’affetto, che non trova. Entrano nel film, tutti guidati dal caso, un uomo anziano accattone girovago in compagnia d’una giovinetta acrobata, un improbabile poetastro occasionale e un industriale arrivato. Quest’ultimo risolve l’insoddisfazione per la sua vita fortunata con il suicidio. A che cosa «serve», dunque, la vita?

DON’T COME KNOCKING - Non bussare alla mia porta (Germania/Usa/Francia, 2005, 122’, colore) è un film altrettanto senza speranza, se non addirittura disperato. Tratta d’un artista di cinema, interprete di numerosi film di cow boy, sempre malinconico e chiuso in sé, per nulla comunicativo, il quale, dopo aver preoccupato tutto il cast, in particolare i produttori del film al quale s’era impegnato per contratto di partecipare come protagonista, con la sua improvvisa scomparsa senza lasciare indicazioni dei motivi dell’abbandono del set e della meta della sua fuga, alla fine, dopo disavventure di viaggio, compresa l’accoglienza poco gratificante di sua madre, convinta che egli secondo la sua abitudine abbia fatto esperienze negative, riportato davanti alla cinepresa da una specie di detective che avevano messo sulle sue tracce, quando aveva finalmente ritrovato in capo al mondo la sua antica fiamma, scopo della sua fuga dal posto di lavoro, che ormai però l’ha dimenticato e non vuole piú condividere la vita con lui, e mal volentieri mantiene l’impegno di continuare a sottoporsi alle riprese del film. Diversi elementi universalizzanti permettono di elevare il livello del personaggio, senza meta nella vita disordinata e senza speranza nel futuro, alla categoria dell’americano medio di oggi, senza ideali, vittima dei vizi, celebre nel mondo economico come uomo realizzato ma... senza futuro. «Dove vai, America, sembra lamentare Win Wendres, non t’accorgi che hai toccato il fondo vivendo in quel modo?».

 

Protagonista di NEANDERTAL (Germania, 2006, 103’, colore, concorso) di Ingo Haeb e Jan-Christoph Glaser, è l’adolescente Guido,che si rende conto che il mondo nel quale gli tocca vivere è cattivo: egli somatizza le fortissime emozioni che lo colpiscono ed una tormentosa dermatite lo fa soffrire senza speranza di guarigione. Egli è normale, ha pregi e difetti comuni dei ragazzi della sua età ma si sente diverso. Vorrebbe appartenere ai normali discendenti dell’uomo di Neandertal, che vivono sulla terra da quattrocentomila anni. Quando scienziati americani scoprono che i nostri contemporanei non discendono da quell’«uomo, che non ha continuato a vivere perché eliminato da una razza piú forte», la notizia s’aggiunge alle altre cause della sua malattia: il padre è compiacente con la sua segretaria, la madre sa e deve accettare in silenzio il compromesso, fino al punto da ammalarsi per colpa del marito che la umilia e dev’essere ricoverata all’ospedale, il fratello maggiore abbandona la famiglia e se ne allontana piú che può andando a cercare lavoro in Nuova Zelanda. Quando Guido rimprovera il padre della sua condotta, quest’ultimo cerca di ricattarlo firmandogli un assegno in bianco che gli permetta di raggiungere il fratello maggiore. Un amico del protagonista, che a modo suo si dimostra deciso e coerente nelle idee che coltiva, dopo essere stato mortalmente ferito sulla strada da amici politicamente schierati su un fronte diverso, si suicida perché non si rassegna a continuare a vivere in un mondo che egli non accetta.

Il grido finale di Guido alla notizia della vittoria della Germania nel campionato mondiale di calcio è, forse, anche un urlo di denuncia e di rifiuto d’un mondo cattivo.

 

GYEONGUI SEON – The Railroad (Corea del Sud, 2007, 107’, colore, concorso) di Park Heung-sik comincia male, continua peggio ma finisce con un chiaro segno di speranza. Il giovane protagonista, di condizione single, è autista di metropolitana. Ogni giorno alla medesima fermata accetta da una giovane sconosciuta innamorata di lui senza mai essersi dichiarata, un piccolo dono. Quando la direzione gli cambia orario, la giovane, che non lo vede arrivare al solito appuntamento, si getta disperata sotto il treno. Per la direzione e per la gente «non è capitato nulla, non è cambiato niente!»

Anche ad un’altra giovane la vita ha riservato una brutta sorpresa: lei era innamorata del suo professore d’università, sposato con un’altra, ma dal quale anni prima era stata messa incinta, perdendo poco dopo il figlio. I due giovani maturi s’incontrano una sera in metropolitana e si confidano in una solitaria stazione capolinea le rispettive disavventure. Lei scriverà il libro dei suoi ricordi, lui riprenderà dopo qualche mese il solito lavoro.

Nell’inquadratura finale vediamo il convoglio da lui guidato che esce veloce dall’oscuro tunnel avviandosi verso l’uscita inondata da una luce abbagliante.

 

Il confronto con una cultura lontana da noi è suggerito da BRICK LANE (GB/UK, 2007, 101’, colore, fuori concorso) di Sarah Gavron, che lancia un forte appello al giusto riconoscimento della «par condicio» uomo-donna. La giovane protagonista, contrariamente alla mentalità comune del suo Paese, è convinta che «le donne possano fare molto nella società!». La mentalità comune ritiene che «se Dio avesse voluto che le donne pensassero, avrebbe creato uomini!». Ad esse non è concesso pensare con la propria testa e agire secondo la propria volontà! «Siamo stati benedetti da Dio con un figlio – è ancora il padre che sparla –, che poi il diavolo, che si porta via sempre i migliori, ci ha portato via. E poi Dio ci ha maledetti con due figlie!».

Una è ancora bambina, l’altra è ormai integrata con la comunità ospite dei sobborghi di Londra, dove la famiglia, immigrata dal Bangla Desh vive da anni, è convinta che «non tutti i musulmani sono come quelli che hanno causato la rivolta contro l’Islam dopo l’11 novembre». Ella si rifiuta di seguire il padre che, deluso di poter fare una brillante carriera nel paese straniero, dopo la caduta delle Torri Gemelle vuole «ritornare in patria, tornare a casa». La moglie, cresciuta nella cultura tradizionale che voleva le donne «disposte a sopportare sempre e a tacere», (sua madre, «non riuscendo piú a sopportare», s’era suicidata!) si lascia convincere dalla figlia maggiore a non seguire il marito e rimane a Londra.

Il film condivide la convinzione che in tutti i gruppi umani esistono i buoni e i cattivi ma afferma che è necessario che qualcuno reagisca pacificamente ma energicamente alle tradizioni superate dalla storia, in vista del bene in favore delle future generazioni.

 

Una prova che oggi frequentemente colpisce anche le migliori famiglie è brillantemente affrontata da AWAY FROM HER – Lontano da lei (Canada, 2006, 110’, colore, concorso) di Sarah Polley. La demenza senile d’una signora è malattia che demolisce la sua personalità: il corpo conserva il suo aspetto normale, lo stato di salute... è la testa che se ne va, fino al punto di non riconoscere piú neppure il proprio marito dopo 45 anni di felice convivenza, come nel nostro caso. I due interpreti principali del film si calano nei rispettivi ruoli di coniugi affezionatissimi con generosa e credibile immersione in un mondo di dolore infinito senza speranza di ritorno ai bei tempi della serenità famigliare. La discesa nel buio della mente è raccontata nel film a tappe, dopo ognuna delle quali la moglie s’allontana sempre piú dalla normalità. Il marito soffre empaticamente con lei, che ad un certo punto non lo riconosce piú, ed è costretto dalle circostanze a farla ricoverare in una clinica specializzata. L’ammalata accetta facilmente la decisione e si adatta alla nuova situazione. Si dimostra particolarmente sollecita nell’aiutare un anziano ricoverato, verso il quale dimostra le sua completa solidarietà. «Che sia innamorata di lui? Che stia recitando una commedia, dal momento che “finge” di non riconoscermi?» I dubbi del marito hanno fondamento sull’apparenza e sorgono dal reale comportamento della moglie. È tentato di tradirla cedendo alla gentilezza della signora anziana, moglie dell’amico di sua moglie. Un raro momento di lucido intervallo di quest’ultima lo convincerà che la moglie, che egli visita con grande affetto ogni giorno, gli rivelerà che l’ammalata è ancora tutta «sua». «C’è chi, di fronte a circostanze simili, si rassegna quasi subito e riprende a vivere, e c’è chi protesta e non accetta la novità!», gli aveva confidato la signora anziana dell’amico della moglie. Egli fa parte di coloro che con grande fatica accettano «la novità» della grande prova.

 

Un grido di esecrazione contro l’inutilità della guerra si alza dal film BUFOR (Israele, 2007, 125’, colore, fuori concorso) di Joseph Cedar. La vicenda ricorda da vicino UOMINI CONTRO di Francesco Rosi. Un manipolo di soldati deve presidiare il castello crociato Bufor (Beaufort) su un’altura di Beirut, dopo l’invasione israeliana del Libano. Tragiche circostanze comunicate al comando generale, consiglierebbero l’abbandono della posizione. La ragion di guerra comanda di rimanere sul posto a qualunque costo in attesa di rinforzi... La strategia bellica nemica, fatta di agguati, di attacchi di cecchini infallibili, di lancio di missili micidiali, agisce in modo da far apparire al mondo mediatico l’abbandono del luogo presidiato come ritiro e fuga degli israeliani invasori. Tra i morti c’è anche il figlio d’un anziano militare, che in un’intervista alla TV fa una sconcertante confessione: «Unico responsabile della morte di mio figlio sono io, non il governo e i generali dell’esercito, perché non l’ho sufficientemente educato fin da piccolo, come aveva fatto mio padre con me, ad apprezzare sopra qualunque altro valore la preziosità della sua vita».

Non era condannabile, allora, la scelta di abbandonare tutto e salvarsi, consigliata da un soldato del presidio militare al proprio ufficiale (e da lui rifiutata: «Non sopporterò l’accusa di avere abbandonato il mio posto di guerra!»),quando ormai lassú non c’era piú alcuna speranza di sopravvivenza!

L’happy end di maniera arriverà con i rinforzi in extremis e la deflagrazione spettacolare che manderà in frantumi il vecchio castello crociato.

L’ufficiale che, ormai al sicuro, depone le pesantissime armi a terra e in ginocchio sospira ripensando ai giorni della tragica inutile avventura, conferma con il suo atteggiamento la convinzione che la guerra non provoca che distruzione e morte.

 

Altri film meriterebbero di essere ricordati tra quelli programmati dal TFF, che nel suo 25° anno ha meritano la «fortuna» che molti gli hanno riconosciuta come ben meritata.

Quando si parla di fortuna, nel nostro caso si fa riferimento alla frequenza degli spettatori nelle sale di proiezione. Sotto tale profilo la fortuna ha baciato in fronte il TFF.

Fa parte della fortuna l’accoglienza positiva dei critici ufficiali che hanno seguito lo svolgimento del programma. I giudizi espressi sono stati molto lusinghieri.

Effetto tutt’altro che secondario provocato dalla dea bendata è stato l’acquisto di alcuni film da parte delle case di distribuzione. (Adelio Cola)

 


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