Sacerdoti e comunicazione: l'insegnamento di padre Taddei
di LUIGI ZAFFAGNINI
Edav N: 361 - 2008
Su Famiglia Cristiana del 27 aprile 2008, nella rubrica «Il Teologo» a cura di Silvano Sirboni, compare un titolo molto significativo: «Ma i nostri parroci sanno predicare?». A un lettore che osserva con una certa drasticità: «Dopo aver ascoltato centinaia di omelie, anche in posti diversi, mi sono reso conto che i nostri parroci non sanno predicare, compresi quelli piú giovani», il teologo replica, tra l’altro: «Al ministro ordinato (vescovo, prete e diacono), oltre la testimonianza, è affidato anche il compito di “tradurre” oggi, qui e per noi la Scrittura proclamata nella celebrazione liturgica in modo che la parola di Dio “si faccia evento, risuoni nella storia, susciti la trasformazione del cuore dei credenti” (Episcopato italiano, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 32). […] “Forma insostituibile di evangelizzazione, all’interno stesso della celebrazione del rito sacramentale, è l’omelia. […] L’esposizione cioè semplice e pertinente che cali nell’esistenzialità dell’assemblea le multiformi ricchezze del mistero di Cristo e del rito sacro in atto” (Evangelizzazione e sacramenti, 69). Ma tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare. […] Da quanto risulta dalle lamentele dei fedeli, sembra che molte omelie siano astratte, lunghe, ripetitive, incapaci di far risuonare nella storia l’entusiasmante e concreto messaggio di Dio. Persiste il vecchio stile della predica moralistica che si limita a elencare obblighi e divieti. Persiste quel modo di predicare esasperatamente spiritualista, fatto di logori luoghi comuni che non toccano piú la sensibilità odierna. Con un deviante concetto di semplicità e concretezza, è invalso anche un modo sciatto e banale di parlare di tutto fuorchè della parola di Dio».
Se perfino Famiglia Cristiana, che si assume il non facile compito di rendere divulgative tematiche religiose scottanti, è pervenuta a diagnosi di questo tipo, allora significa che vale la pena di ricordare che le cause della malattia erano da tempo note, che anche la terapia era ed è conosciuta e che, là dove è stata sperimentata, ha sanato il deficit immunitario della comunicazione di tipo predicatorio, catechetico o omiletico a fronte dei virus dell’epoca massmediale.
Un po’ di storia.
La funzione comunicativa della Chiesa delle origini viene espressamente riconosciuta con la celebrazione della festività della Pentecoste (Atti 2,1-11). Da quel momento la diffusione del Cristianesimo è stata affidata alla testimonianza e alla capacità predicatoria di una innumerevole schiera di seguaci consacrati e laici. In ogni epoca, ma in special modo nei momenti di particolare difficoltà, la Chiesa si è affidata a ordini di predicatori «specializzati», accanto agli ordini che, pur svolgendo una preminente attività d’assistenza tra il popolo di Dio, avevano il compito di una divulgazione della Parola. Cosí sono nati i Domenicani e i Cappuccini, cosí è nata la Compagnia di Gesú. Per fronteggiare il relativismo protestante di marca luterana e calvinista, il Concilio di Trento, poi, fissava, tra le priorità nella formazione dei sacerdoti, un’adeguata preparazione in materia di comunicazione pubblica. In questo modo si è proceduto per quasi tre secoli e mezzo, con una buona preparazione culturale dei religiosi, all’altezza delle esigenze dei tempi in cui il sacerdote rappresentava un punto di riferimento non solo per l’etica propriamente religiosa, ma anche per la conoscenza scientifica, letteraria ed artistica. Prova ne sono la consistenza e la modernità delle biblioteche degli enti religiosi, che, all’indomani dell’unità d’Italia, sono state incamerate d’autorità dallo Stato, divenendo il patrimonio di base dei giacimenti delle odierne biblioteche pubbliche.
Il passaggio dalla cultura del libro a quella dell’immagine.
Ma, proprio mentre si passava dalla cultura del libro a quella della immagine ed esplodeva tutto il potenziale della comunicazione di massa, grazie alle nuove tecnologie, nel mondo cattolico si verificava lentamente, ma costantemente un complesso fenomeno. Mentre il Concilio Vaticano II, per la prima volta nella Storia della Chiesa, trattava solennemente degli strumenti di comunicazione sociale, con un taglio squisitamente spirituale, nel decreto «Inter Mirifica», la diffusa e articolata struttura organizzativa del mondo cattolico percorreva altre strade.
Equivocando sulla natura dei nuovi media, ne considerava solo il potere quantitativo di aggregazione e di utilizzo per il tempo libero e si impegnava a fondo soprattutto in attività di allestimento e di gestione di sale cinematografiche, economicamente costose, che avevano il grande merito di animare un circuito di pellicole per ragazzi, per famiglie o di vero e proprio cinema d’essai. Ma, oltre alla lodevole attenzione, pur non sempre professionale, ai contenuti, salvo qualche raro e benemerito caso, non si andava. Infatti, restava esclusa, da questa attività, la capacità di fronteggiare il potere del linguaggio dei massmedia nel modificare idee e comportamento del pubblico. Soprattutto non ci si sforzava di capire che il diretto antagonista del sacerdote non era solo l’ideologo ateo, ma era soprattutto il personaggio umano che emergeva da cinema, televisione, stampa e pubblicità di massa, che, con la forza espressiva del linguaggio massmediale, modificava mente, costume e sistema dei valori del popolo cattolico.
E, a fronte di questa inarrestabile presa di potere sulle coscienze, si perpetuava l’astratto modo di predicare dall’altare di troppi religiosi. Progressivamente, infatti, la gente si allontanava dalla capacità di comprendere a fondo l’insegnamento evangelico e la religione finiva per essere sempre piú una incombenza confinabile nella ripetitività del rito. Molto dipendeva proprio da un tipo di predicazione, che continuava a far leva sulla esclusiva logica del linguaggio dei concetti, mentre tutti si abituavano alla natura del linguaggio per immagini. Mentre si perdeva, cosí, il senso di una spiritualità a vantaggio di un diffuso materialismo e quantitativismo secolarizzato, la formazione dei sacerdoti non includeva, come non include oggi, alcuna preparazione in materia di comunicazione che non sia quella impregnata di semplice psicologismo o sociologismo. I frutti avvelenati della assenza di una seria preparazione sono oggi riscontrabili ampiamente nella diffusione della cultura laicista e relativista di massa anche nel mondo cattolico.
Gli anni difficili e il significato di un impegno profetico.
Nel contesto di quegli anni trionfava la cupa atmosfera di una diffusa paura delle conseguenze ideologiche della guerra civile e si annunciavano già le profonde spaccature sociali, provocate da una strategia della tensione e dal terrore degli anni di piombo. Questo, nelle sue estreme forme di complicità internazionale, sarebbe arrivato al progetto di combattere non solo lo Stato, ma addirittura la intera società civile italiana.
In questi tempi, dunque, mentre si predisponeva il tentativo di eliminazione di un Papa, dopo che si era potuto eliminare uno statista, solo una voce, almeno a quanto c’è dato conoscere dal panorama degli studi sulla comunicazione, si levava a mettere in guardia profeticamente il mondo cattolico dai rischi e pericoli, che, oggi piú che mai, stanno minandone le basi. Era la vox clamans in deserto che promanava dai ponderosi studi e dai numerosi interventi di Padre Nazareno Taddei sj riguardo alla necessità di preparare in un certo modo religiosi e laici cattolici alla strategia della comunicazione per una pastorale e una catechesi adeguate ai tempi della moderna civiltà tecnologica.
Mentre alcuni, come Eco, si profondevano in indagini sociologiche del tipo di quelle comparse in «Apocalittici ed integrati», che creavano tanta suggestione, ma che non fornivano alcuno strumento cognitivo per affrontare la rivoluzione epocale che si delineava, Taddei andava al cuore del problema e centrava sul linguaggio l’attenzione che poteva disincagliare il mondo cattolico dall’immobilismo in cui era caduto a causa della ambigua tendenza a seguire le mode culturali, coltivate nella incapacità di differenziarsi dalla linea ideologica egemone. E, lungo l’arco dei decenni, mai allontanandosi dal dettato e dal magistero della Chiesa in materia di Comunicazione sociale, fino ai tempi piú recenti della «Redemptoris Missio», Taddei creava un robusto «corpus» metodologico e un vastissimo patrimonio di applicazioni, capaci di costituire, sotto il profilo teoretico e sotto quello pratico, la strada maestra per formare una nuova figura «professionale» di religioso, autorevole ed ascoltato, nella diffusione dottrinale cristiana in piena epoca dei media.
Per comprendere quanto questo profilo di religioso fosse importante allora e sia importante soprattutto oggi, faremo ricorso alle parole, non già di una autorità religiosa, bensí di un laico non credente, che è comunque una autorità indiscussa nel campo della scienza del comportamento.
Lo psichiatra Vittorino Andreoli, nel tracciare un viaggio sul ruolo dei sacerdoti nella società di oggi (Cfr. «I preti e noi» in Avvenire, 30 aprile 2008, pag. 23), si sofferma con particolare attenzione sul fatto che: «Se nel passato era la gente che andava al tempio, ora bisogna che il sacerdote esca e richiami chi è sordo o disattento ad entrare. Bisogna che egli si proponga […] E per potenziare questa facoltà, egli deve prepararsi a comunicare in maniera efficace per essere in grado di interessare, incuriosire, attrarre. Si parla a questo proposito di carisma […] Carisma che è sí una dotazione naturale, ma che in parte si può anche acquisire. Da notare che la stessa comunicazione ha assunto oggi i caratteri di una vera disciplina scientifica, e dunque la si può apprendere, al fine di disporre dei linguaggi verbali come di quelli non verbali. Siccome il sacerdote ha per obiettivo non di piacere agli altri, ma di portarli là dove l’attenzione si centra su Cristo, egli deve dedicarsi alla causa del Signore in modo che sia attraente».
Bene! Come mondo cattolico, si sarebbe potuti non arrivare al 2008 in queste condizioni, se solo ci si fosse dati pena di fare debitamente risaltare la grande sistematica del pensiero taddeiano e si fosse approfittato del suo poderoso apparato metodologico per prevenire e sconfiggere lo sgretolamento di un intero sistema educativo (famiglia, scuola e Chiesa) sotto i colpi della mentalità laicista e massmediale.
Quasi mezzo secolo fa…
Sono ormai quasi cinquant’anni da che, nell’inverno del 1960-61, Taddei metteva a punto un rigoroso studio sulla «Predicazione nell’epoca dell’immagine», inquadrando il problema in quello che, già allora, l’Osservatore Romano definiva «Il deserto materiale e spirituale che si è andato formando sotto i pulpiti». La sua esperienza di studio nell’ambito della semiologia e della linguistica, unita alla competenza operativa in campo televisivo e cinematografico, gli permettevano di traguardare la predicazione della Parola alla luce di una esigenza di convertire o rievangelizzare quel nuovo pubblico, sensibile ormai solo piú alla pervasiva civiltà dell’immagine e alle ideologie che di essa si servivano.
La distinzione fondamentale tra predicazione in senso stretto (quella che fa sí che la parola divina venga ascoltata e messa in pratica) e predicazione in senso largo (quella che riesce a muovere la volontà attraverso le emozioni), permette di capire – e Taddei lo andava codificando scientificamente – che, mentre cinema e televisione, grazie al loro linguaggio di predicazione in senso largo, acquistano sempre piú credibilità e si trasformano in un tipo di predicazione in senso stretto, facendosi ascoltare come «divine» autorità, la predicazione dall’altare, non riuscendo a coinvolgere l’assemblea dei fedeli né emotivamente né conoscitivamente, perde la funzione specifica, isterilisce l’aspirazione dei fedeli e frustra la missione del sacerdote.
Parrebbe incredibile, ma Taddei dimostrava già allora come in questo non incidere della predicazione verbale risiedesse un vero e proprio mutamento delle coscienze che si fondava su un fraintendimento del concetto di libertà. A mano a mano, infatti, che la abitudine alla facilità sintetica dell’immagine rende pesante e poco comprensibile la predicazione dall’altare, prende il sopravvento un falso senso di liberazione dalla fatica e pertanto diviene sempre piú frequente il rifiuto dell’ascolto. In realtà – precisava Taddei – si tratta di un diffondersi di una mentalità libertaria, il cui portatore «non è né un teorico né un uomo d’azione: agisce semplicemente, quasi istintivamente, su un piano di libertà, scansando le remore futili o valide che siano, disprezzando automaticamente chi la pensa o agisce diversamente e chi pone ostacoli alla sua linea di condotta». Un quadro, questo, che si attaglia ancora piú drammaticamente ai comportamenti soggettivistici, aggressivi o addirittura intolleranti dei giorni nostri.
Ma Taddei, nel suggerire ai sacerdoti il metodo per una predicazione coinvolgente, tiene a sottolineare nel religioso tre qualità di presupposto: la competenza, la convinzione e il coraggio.
«La competenza esige studio, esperienza, serietà […] La persona onesta non può permettersi l’arbitrio di dirimere questioni che non conosce abbastanza e deve stare umilmente al giudizio di chi è esperto. In certe questioni il sacerdote deve pronunciarsi, ma non può pronunciarsi se non è competente. Deve quindi cercare, nel limite del possibile, di divenirlo. Ma fino a quando non lo è, attinga prudentemente la verità presso chi la possiede: per una verità filosofica non si rivolgerà al medico, per una verità di scienza medica non si rivolgerà al filosofo».
Quanto alla convinzione «la predicazione deve proporre la verità allo stato caldo; non può essere una ripetizione di lezioncina mandata a memoria per forza. […] Il predicatore deve parlare dall’abbondanza del cuore; non dovrebbe mai parlare di ciò che non sente, pena il suonare stonato, falso e quindi inutile se non repellente o controproducente».
Un disinteressato e cristiano coraggio deve essere la terza qualità di una predicazione che voglia incidere. «Una tale predicazione, coraggiosa e sincera, potrà forse provocare risentimenti ed essere ostacolata dai potenti. Ma il predicatore, anche venisse messo a tacere momentaneamente o per sempre, avrebbe la certezza di non aver tradito la sua missione […]».
Sulla base di queste considerazioni e di tutti i corsi di formazione nasce, nel 1970, la Pastorale della Comunicazione, un trattato in nove parti, destinato a costituire il nocciolo del lavoro accademico che Taddei svolge alla Pontificia Università Gregoriana. Questo trattato sarà via via arricchito e rielaborato e sarà utilizzato in innumerevoli occasioni formative sia nei confronti del clero sia nei confronti dei laici.
Nella Pastorale si coglie tutto il carattere scientifico e al tempo stesso teologico dell’opera di Taddei, finalizzata a collocare in modo corretto il messaggio evangelico all’interno della modernità. E alla Chiesa, depositaria di questo messaggio, viene chiesto di compiere il grande sforzo di tradurre i suoi interventi predicatori in modo tale da combattere la logica quantitativistica di quel mondo di media, che condiziona sempre piú menti e coscienze.
«La Chiesa non è solo “corpo” nel senso sociale; bensí lo è in un senso assai piú interiore e profondo. È il Corpo Mistico di Cristo…[…] Il problema della educazione rientra in questa considerazione della Chiesa e della sua missione salvifica. Educare… è formare l’uomo fino al punto in cui esso raggiunga la pienezza della vita di e in Cristo… Raggiungere la salvezza è mettersi nella linea di Dio; riconoscere la sua supremazia oggettiva e nella conduzione della vita. È dunque un contesto di riconoscimento intellettivo e pratico, senza il quale non ci può essere l’infusione soprannaturale. C’è dunque una stretta collaborazione dell’azione umana (che ha base psicologica) e l’azione divina… Dio, ovviamente, è il grande educatore, che non ha bisogno dell’azione educatrice umana per portare i suoi figli alla salvezza; ma Dio si serve generalmente delle cause seconde. E quindi l’educazione ha tale fondamentale parte, anche qualora la si consideri come azione di uomini, sia pure in funzione salvifica».
Per questo un’educazione ben fatta si serve della buona predicazione in grado di liberare dalla massificazione. Si tratta cioè di «comunicare efficacemente a fronte dell’altrettanto efficace predicazione di “non-salvezza” che ha assunto proporzioni enormi e le sue frontiere sono le frontiere dell’umanità». […] Chi, dunque, vuole predicare al passo con i tempi non può non tenere conto che i massmedia «sono ormai uno strumento di potere; e la “salvezza” non è finalità che i poteri si propongano. Dico i poteri terreni, di qualsiasi natura essi siano. C’è un’unica via per usare questa profusione di predicazione senza riceverne il danno profondo: l’educazione all’uso dei mezzi che la effettuano, l’educazione al discernere in quella ciò che è buono e ciò che non lo è».
Proseguendo su questa strada, Taddei fa seguire alla Pastorale un vero e proprio «Corso di Predicazione» (1974) perché serva di preparazione, sul linguaggio e sul modo di presentare i contenuti di Verità della Parola in rapporto con quella realtà che vivono i fedeli nel mondo delle relazioni personali e sociali.
Sul linguaggio Taddei afferma: «Qual è il linguaggio che la gente oggi è in grado di cogliere? […] Spesso noi crediamo di farci capire perché usiamo una lingua piú o meno nota ai nostri ascoltatori. Il problema invece non è solo qui: è necessario avere in comune non solo la conoscenza dei singoli segni verbali, bensí anche quella prodotta dalla struttura di essi, cioè del linguaggio non tanto a livello grammaticale e sintattico, quanto a livello di composizione semantica. […] Ne nasce, come si vede, un grossissimo problema dal quale ovviamente la predicazione non può prescindere. Sarebbe, altrimenti, come pretendere che i ciechi apprendano comunicazioni visive o i sordi comunicazioni foniche. Assurdo! Eppure questo assurdo si ripete quasi comunemente oggi nella predicazione».
Un nuovo modo di intendere anche il linguaggio verbale fa rilevare a Taddei che «anche qualora si usi il linguaggio verbale nella predicazione, è necessario conoscere le nuove potenzialità semantiche e comunicative [del linguaggio dell’immagine], sia nel senso che una vera predicazione oggi è possibile solo mediante linguaggio dell’immagine (che non significa necessariamente: linguaggio di immagini). […] Ma senza andare tanto sul difficile, io chiedo: come mai quando parli in casa o tra amici parli in un certo modo e quando parli sul pulpito, o non parli di argomenti teologici oppure parli come se girassi un rubinetto sul tuo consueto modo di parlare? La risposta è che non ci siamo ancora abituati a “tradurre” in termini correnti – legati appunto al linguaggio indotto dall’epoca dell’immagine – i concetti teologici che abbiamo. Oppure: hai mai notato che certi concetti religiosi oggi non riesci piú a farli capire ai tuoi ragazzi o giovani del catechismo? Prova a chiedertene il perché. Anche gli sforzi di rinnovamento catechetico e liturgico rischiano di rimanere senza esito, se non si tiene conto di questo elementare ma sostanziale fattore. Anzi, certe tecniche moderne (per es. certo uso delle fotografie simbolistiche ecc.), qualora non vengano usate metodologicamente come si conviene, possono essere altrettanto inutili o controproducenti di un discorso fatto col sistema di linguaggio tradizionale». «Quindi una predicazione che non si preoccupi di usare un linguaggio effettivamente accessibile, sia per la natura e il modo del linguaggio, sia per l’effettiva disponibilità recettiva del destinatario del messaggio, è una predicazione non solo inutile, bensí controproducente. Controproducente perché annoia, si mostra irritante, fa scaricare sull’oggetto della predicazione (cioè la religione) la noia e l’astio che dovrebbe scaricarsi solo sull’imbelle predicatore».
«Per la predicazione, oggi, è necessaria una nuova mentalità; non una nuova teologia. Temo che certe nuove teologie siano aride e inutili (se non dannose) come certe vecchie teologie, perché hanno la stessa mentalità di base: formule (quindi formalismo), giochi e assolutizzazioni di parole, non contatti con la realtà che è verità. Che cosa dobbiamo comunicare agli uomini che ogni domenica ci ascoltano? Cristo, la Verità. E cos’è Cristo, cos’è la Verità, per questi precisi uomini che mi stanno davanti in questa precisa domenica dell’anno 1974? Ecco che cosa vuol dire conoscere quello che si predica. Oggi è diventato di moda far coincidere cristianesimo e socialità, cristianesimo e povertà; è lo stesso errore di quegli ecclesiastici che in passato sono stati dalla parte dei potenti (e non è detto che anche qualcuno dei nuovi ecclesiastici, al pari di quelli, non abbiano scelto un altro tipo di potere; solo cambio di etichette). Il cristianesimo parla di «poveri di Jahvè», i quali – v. le beatitudini – si ritrovano tanto tra i ricchi quanto tra i poveri, tra gli alti e tra gli umili. Non possiamo sfalsare, colorare a piacimento nostro, idee e testi che valgono per tutta l’umanità e non per un solo gruppo o periodo di essa, ma che devono applicarsi – in maniera esegeticamente e metodologicamente esatta – a tutti i gruppi, gli individui, i periodi. Il “potere di diventare figli di Dio” è stato dato per il e dal Verbo “a coloro che credono nel suo nome” (Gv. 1. 1 ss), non a chi ha o non ha soldi nel portafoglio; a “chi ha fame e sete di giustizia” non a chi ha fame e sete di alimenti terrestri. Dal che ovviamente non si può dedurre che interessarsi ai problemi anche terrestri dell’uomo non possa e non debba essere compito del cristiano. Ma lo stesso Cristo che ha moltiplicato i pani e i pesci ha detto anche: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti”; é questione di mentalità; è questione di taglio ideologico, di linea di demarcazione tra materialismo e spiritualità. Il cristianesimo è spiritualità; ma spiritualità di uomini fatti di carne e ossa».
Nella predicazione, dunque, il contatto col recettore deve avvenire sull’interesse. Cioè, l’argomento della predicazione deve essere proposto come qualcosa che interessi direttamente l’individuo che ci ascolta. E non dimentichiamo che i problemi dello spirito sono piú sentiti di quanto non si creda: tutto sta a proporli nella dimensione psicologicamente e culturalmente accessibile all’ascoltatore.
Taddei, perciò suggerisce di chiedersi ad esempio: «Quali sono i problemi, connessi col cristianesimo, che interessano in questo momento a questa gente? Oppure: quali sono i problemi da cui oggi questa mia gente è presa e che certamente non vede connessi col cristianesimo, mentre lo sono? E ancora: qual è il mezzo, termine di interesse che si può trovare tra il messaggio che oggi voglio dare e la loro vita concreta di questo periodo o di sempre? E ancora: questo problema religioso che oggi vorrei trattare ha qualche aggancio di interesse con la persona concreta d’oggi? E ancora (in qualche caso, molto importante): l’interesse che oggi prende questa mia gente ha un effettivo valore di fronte al problema della salvezza? Come posso fare per rivoltare la frittata?».
Di fatto oggi la mentalità, indotta soprattutto dai massmedia, è sostanzialmente materialistica. Spesso anche i religiosi ne sono vittime: il formalismo e il moralismo non ne sono che due tipiche manifestazioni. E quando nella loro predicazione prendono l’abbrivo la abitudine alla astrattezza, o la tentazione didascalica minimalista, o la tendenza a ideologizzare in chiave socio-politica il Vangelo, allora non ci si deve meravigliare se il Cristianesimo non riesce a far presa e, al posto dei valori, nella nostra società ingrossa sempre piú una «fede» in una ideologia sociale che viene anteposta alla fede nella ricerca della propria salvezza spirituale. Orbene, se la predicazione deve essere un messaggio di spiritualità, sia pure «incarnata», la sua funzione non può essere quella, come purtroppo succede sempre piú frequentemente oggi, «di secolarizzare, cioè materialisticizzare, il messaggio cristiano, bensí quello di re-spiritualizzare la mentalità corrente. Lavoro duro ma non impossibile, qualora si posseggano gli strumenti di conoscenza teologici, psicologici e di linguaggio».
Il conforto della ricerca.
Furono ascoltati questi insegnamenti? La ricerca sull’omelia, condotta nel marzo-aprile del 1979 dal CiSCS, ci fornisce una risposta inequivocabile su quegli anni, ma essa non è diversa da quella che molti, per esperienza diretta, possono dare ai nostri giorni. L’inchiesta, rivolta a sacerdoti e fedeli, toccava un campione che riguardava sette regioni per una durata di sei settimane.
Sulla durata dell’omelia, mentre evidentemente nessun sacerdote ammetteva una qualsivoglia lungaggine, il pubblico registrava lagnanze in tutte le fasce d’età e in tutte le componenti relative al titolo di studio. E quello che è piú significativo, là dove non v’erano lagnanze, ciò era dovuto solo alla accettazione scontata del «pacchetto messa + predica» come fatto obbligatorio e ineluttabile del rito domenicale.
Quanto alla valutazione dei contenuti e alla qualità della predicazione, emergevano dati altamente interessanti. La maggioranza del 73% dei sacerdoti si preparava, pur con differenti ausili, contro un 27% che improvvisava. Ma solo un 31% ammetteva di prepararsi per iscritto.
Interessante notare che mentre i sacerdoti che si preparavano ritenevano riuscita la propria omelia, il pubblico valutava in modo esattamente inverso tale riuscita. Un gradimento, dunque, che pareva nascere da una mentalità tipicamente massmediale. In questi casi, infatti, il pubblico, privilegiando solo la componente emozionale della propria natura, è meglio disposto verso una predicazione apparentemente piú immediata perché improvvisata, anche se povera di sostanza e quindi fallita in tutto o in parte nel suo scopo.
Nel quadro del raffronto «riuscita-gradimento» emergeva con chiarezza che nessun giudizio del sacerdote sulla propria omelia, per quanto autostimata né ottima né fallita, era disposto ad ammettere che l’omelia aveva detto le solite cose o era stata lunga, barbosa, confusa, fredda o troppo accalorata. Al contrario il pubblico, nonostante una maggioranza di giudizi favorevoli dai quali, però, incrociati con altri indicatori, si evinceva la motivazione del rispetto formale per la figura del religioso, si lasciava andare a tutta la gamma delle valutazioni negative.
Sul piano del raffronto tra intenzione dell’autore e comprensione del significato da parte del recettore, i dati elaborati dalla ricerca mettevano in evidenza che, mentre il sacerdote intendeva proporsi un obiettivo, il pubblico riteneva avesse voluto dire tutt’altro, non appena si andava a «grattare» oltre la semplice storia del passo evangelico trattato nell’omelia.
Per usare le stesse parole di Taddei nella conclusione della ricerca: «La comunicazione tra predicatore e pubblico sembra essere INSUFFICIENTE. […] Il predicatore, poco o tanto, si è imbevuto di quella mentalità [massmediale]. […] [tanto è vero che] il gradimento emotivo costituisce il collegamento comunicatorio, superando il fatto idealogico». Detto in parole semplici: la gente non capisce il senso profondo di quello che il sacerdote crede di aver predicato e tutto è limitato, nel migliore dei casi, a un’eventuale accettazione emotiva superficiale.
Ancora passi avanti…
Una condizione come questa avrebbe dovuto far riflettere qualsiasi livello delle gerarchie, ma, oltre ai due grandi Papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI e a poche altre figure al centro e alla periferia della Chiesa, non c’è stata nei pastori e nel gregge quella sensibilità diffusa che ci si sarebbe attesi da chi tutti i giorni ha a che fare con quella che, oggi, Benedetto XVI chiama «Emergenza educativa». Vale a dire che si sono lasciati passare troppi anni senza preoccuparsi del fatto che il terreno di confronto per la testimonianza della Verità, in un mondo secolarizzato, si identifica soprattutto con il campo d’azione dei mezzi della Comunicazione Sociale, affrontati in modo adeguato.
Per questo, Taddei, allora, sempre memore delle parole di Paolo VI, che vedeva nella frattura tra la cultura e il Vangelo il dramma della modernità, applicava e approfondiva metodologicamente la funzione pastorale fino a giungere a parlare di «Riciclaggio dei metodi pastorali nell’epoca delle nuove tecnologie della comunicazione» (1988). In tal modo non gli sarebbe stato difficile sentirsi rincuorato e spronato dal capitolo 37 della enciclica Redemptoris Missio, che coglieva con estrema sapienza l’esigenza di inculturare l’insegnamento del Vangelo all’interno del fenomeno dei nuovi «areopaghi» tecnologici.
Ecco allora che l’esperienza e il costante approfondimento gli permettono di affrontare il problema di quei predicatori che, pur rifiutando una preparazione accurata in campo massmediologico, pensavano di risolvere il gap, rispetto ai tempi e ai giovani, solo facendo leva sul fattore emozione e su una infarinatura delle solite opinioni sociologiche circa cinema, televisione e pubblicità.
Senza remore o fraintendimenti Taddei parla, allora, di «Educatori diseducanti», riferendosi al mondo dei religiosi, ma anche a quello degli insegnanti e degli animatori culturali, nonché a quello di coloro che ritengono basti avere l’etichetta di cattolico sul proprio giornale locale o sulla propria emittente radio e tv per fare la differenza dagli altri media laicisti e radical-marxisti. È lo stesso errore di chi, in materia di comunicazione, si affida solo a tecnici, pur esperti degli strumenti e del processo realizzativo materiale, ma assolutamente ignari di linguaggio, di metodologia, di antropologia, di filosofia funzionale alla comunicazione in campo religioso ed educativo.
Per illustrare la pericolosità della situazione Taddei ricorre all’esempio non infrequente di quanto accade nel mondo giovanile che ruota in ambito cattolico. Un ragazzo, reduce da un campo estivo di un’importante associazione giovanile cattolica scrive al sacerdote organizzatore: «… durante la Messa hai fatto un’omelia davvero “solleva-popolo”; tutti sono rimasti entusiasti di quelle parole, ma, nel momento in cui chiedevo a me e agli altri, cosa tu avessi detto, nessuno era capace di riferirlo. La deduzione piú logica è stata che ci avevi trasmesso piú un’emozione che un contenuto, il che non è da minimizzare (anzi!), dunque non ci ha entusiasmato quello che avevi detto, ma come lo avevi detto. Per questo ti sarei infinitamente grato se avessi il tempo di scrivere e pubblicare quelle parole efficaci che, a mio parere, ti sono tanto spontanee. Sarebbe per noi una motivazione ad andare avanti e un grido di battaglia (…)».
Un caso emblematico – nota Taddei – in cui tanto il religioso quanto il ragazzo esprimono i due volti della stessa medaglia della mentalità massmediale ormai pervasiva. «Per quanto riguarda l’omelia sotto l’aspetto teologico, pare non si possa dire “cristiana”, un’omelia capace solo di sollecitare sentimenti e istinti e che addirittura prende per “annuncio” un esito d’emozione senza “contenuto”; infatti, un’omelia, quale atto di predicazione esplicita, qualunque sia e in qualunque circostanza venga fatta, deve essere conforme all’ordine missionario di Cristo “predicate”; e quindi deve essere “annuncio” e quindi deve avere “contenuto” (ovviamente di pensiero). Sotto l’aspetto di comunicazione pastorale ed educativa, invece, mi pare susciti legittimamente qualche perplessità un’omelia che, a conclusione liturgica d’un periodo educativo, è solo un “solleva-popolo” (sia pure in senso buono, ovviamente), senza un preciso e valido messaggio cristiano. Per quanto riguarda il ragazzo, la prima impressione è di ammirata meraviglia per un adolescente, o giú di li, che, nonostante il filtro distraente dell’entusiasmo, riesce a scorgere il vuoto di contenuto di quell’omelia, lo identifica perfettamente come vuoto e praticamente lo connota negativamente. […] Senonché, nella sua lettera il ragazzo non si sofferma sulla delusione di quel vuoto. Anzi, riflettendovi, “la deduzione piú logica” che trae è: “piú un’emozione che un contenuto (...) non è da minimizzare (anzi!)”. Quindi, nella sua mente, quell’“entusiasmo” emotivo prende il sopravvento sulla delusione per un contenuto non trovato e diventa addirittura “motivazione ad andare avanti e un grido di battaglia”. Proprio viceversa di quel ch’era sembrato a prima vista! Come mai? […] Cos’è che adesso lo fa cadere in contraddizione e fare dei salti logici, portandolo a considerare buono proprio quel vuoto?».
Per trovare la risposta a queste domande, ancora una volta Taddei fa ricorso a un esame approfondito della figura dell’educatore–predicatore, arrivando a precise conclusioni. «Purtroppo oggi anche molti educatori, senza volere, anzi credendo di far bene e magari teorizzando, come portatori d’un verbo nuovo, o salvatori della Chiesa al posto dello Spirito Santo, propongono (o collaborano con i mass media a proporre) come punti validi di riferimento cose che sono frutto di mentalità massmediale, anziché di mentalità basata su criteri e valori razionali e morali autentici; hanno ridotto la qualità, le forme, la stessa morale a dimensioni quantitativistiche, formalistiche, moralistiche; ci si è disabituati, p.e., a chiedersi il vero perché delle cose o a cercarlo non sulla base di valori oggettivi, bensí su tendenze personalistiche e soggettivistiche o di clan: nel giudicare, p.e., una comunicazione (p.e. televisiva), non ci si preoccupa di sapere quale ne è il risultato effettivo (che solo chi ne conosce su basi scientifiche il processo e le modalità è in grado di dire). Ma la si giudica empiricamente e soggettivisticamente sul ciò che appare, su quello che si è provato epidermicamente (è pressoché impossibile sentire qualcuno che ammetta di subire personalmente un qualche influsso dei mass media), sul fatto che concordi con quello che si pensa o si sente individualisticamente (prendendo solo questo, ovviamente, come l’unico criterio di giudizio valido); insomma, ci si è abituati, invece, a considerare che una cosa vale perché piace e non che piace perché vale; e troppo spesso su questi criteri sono fondati i punti di riferimento anche nel mondo educativo cattolico».
Una educazione per l’oggi e per il domani.
Sulla scorta di queste considerazioni, il pensiero di Taddei si approfondisce ulteriormente e si àncora al sicuro ormeggio del magistero pontificio. In un omaggio a Papa Wojtyla, che è insieme anche un’entusiastica dichiarazione di disponibilità al servizio di quel vigoroso apostolato richiesto da Benedetto XVI, distilla e raffina, una volta di piú, l’essenza della propria metodologia alla luce della «Redemptoris Missio». Cosí il sacerdote, che ha sulle spalle sessant’anni di incarico ufficiale nel campo della pastorale della comunicazione, all’età di 85 anni, elabora un agile strumento che serva da guida a sacerdoti e laici: «Papa Wojtyla e la “nuova” cultura massmediale – Nuova evangelizzazione, nuova comunicazione» (2005). Si tratta di un compendio in cui, accanto alla ormai imprescindibile metodologia della lettura strutturale dei media, s’impone all’attenzione dell’educatore–predicatore cristiano la solida e scientificamente agguerrita strategia dell’apostolato in epoca massmediale. Come raggiungere la chiarezza? Come scegliere tra i contenuti? Come convincere senza condizionare? Come attrarre, neutralizzando la concorrenza dei modelli cinematografici e televisivi? Come integrare il messaggio cristiano in questa cultura di massa secolarizzata? A tutte queste domande Taddei non si limita a rispondere sul piano metodologico con una precisa strategia algoritmica, ma offre esempi su esempi e suggerimenti per esportare un corretto modo di fare apostolato a tutti i settori della vita ecclesiale che sono contaminati dalla mentalità corrente.
Inequivocabile, quindi, il nucleo di un pensiero che mette al servizio della Parola tutte le conquiste di un’alta professionalità comunicativa. Tale nucleo fa perno sulla distinzione indispensabile tra mentalità massmediale e mentalità contornuale (ovvero fondata sulla capacità immaginifica dei segni, immagine o parola che siano). Anche se appare chiaro che non tutti possono, tanto meno sono chiamati, a fare di tutto, bisogna combattere «una mentalità “massmediale”, già esistente e diffusa, che va sempre piú radicalizzandosi e che è praticamete opposta o contraria all’evangelizzazione, già a livello di mentalità; [dobbiamo sforzarci di assumere] una mentalità “contornuale”, legata certo ai nuovi modi di comunicare, ma anche ai veri valori (contenuti puri) che bisogna ricreare e ridiffondere, perché l’humus individuale e sociale sia suscettibile del messaggio cristiano». «Si rilevano cosí i due grandi settori d’azione, …: 1° Il conoscere bene i nuovi modi di comunicare per saper cogliere le cose buone che il mondo attuale ci presenta, ma anche saper scoprire il mondo infido e pericolosissimo delle comunicazioni inavvertite e, alla fin fine, anche le strategie del vessillo di Satana. Possiamo chiamare questo primo settore “educazione A l’immagine tecnica”[…]; 2° Il conoscere bene i nuovi modi di comunicare, l’uso del linguaggio contornuale e l’attenzione alla mentalità contornuale per poter svolgere un lavoro efficace e autentico di evangelizzazione. Possiamo chiamare questo secondo settore: “evangelizzare CON i nuovi modi di comunicare”».
Arrivati a questo punto, si può tranquillamente dire che, se oggi, ciò che convince non è la verità, bensí il modo in cui tanto la verità quanto la falsità vengono espresse e recepite, non resta che seguire una approfondita preparazione ed esercitazione spirituale sulla comunicazione e su come imparare il discernimento dei valori, facendo luce nella confusione creata in campo morale e relazionale dal modo di rappresentare la realtà operato dai massmedia. Solo una lettura attenta e faticosa del mondo cosí come appare attraverso le interpretazioni di cinema, tv, stampa e internet, può dare la forza di sconfiggere la mentalità ottusa e refrattaria a una comunicazione spirituale. Un predicatore, un educatore, un genitore non possono non sentire l’obbligo morale di non cadere in una visione del mondo che si oppone direttamente e radicalmente alla diffusione e ricezione del messaggio cristiano. Di conseguenza, quando siano ben sicuri di non subire l’inganno delle comunicazioni inavvertite, debbono sforzarsi di mettere in pratica da se stessi e di esigere dagli altri una comunicazione, che giunga a produrre un convincimento adeguato e una adesione esistenziale e comportamentale nel rispetto di una libera scelta personale. Solo cosí si costruisce una società migliore e responsabile di generazione in generazione. Ed è nel segno delle proprie radici culturali, mai dimenticate, ma sempre riscoperte, rinnovate e proposte attraverso quel meraviglioso strumento che le nuove tecnologie della comunicazione offrono, che si combatte, oggi, una decisiva battaglia per la salvare la dignità dell’uomo come persona mentalmente libera.
«La verità vi farà liberi» ha affermato il Vangelo nella sua indiscutibile semplicità. In fondo, la strada additata, con tanta fatica e studio, da Taddei è uno strumento caritatevole per l’intelletto, al servizio della verità, che sarebbe stoltezza e superbia ignorare o rifiutare.