L'immagine sonora e la musica nel film
di NAZARENO TADDEI
Edav N: 358 - 2008
Pubblichiamo di seguito ampi stralci del capitolo dedicato da padre Nazareno Taddei a «Il sonoro» nel fondamentale volume Trattato di teoria cinematografica – L’immagine del 1963 (*).
L’immagine cinematografica è essenzialmente visiva. Però, come è noto, essa può essere accompagnata anche dal sonoro.
La presenza del sonoro nel cinema pone alcuni problemi di carattere teorico.
Anzitutto ci si deve chiedere se c’è sostanzialmente differenza tra cinema muto e cinema sonoro; se cioè la definizione di cinema possa e debba essere unica, da valere tanto per il muto quanto per il sonoro, oppure se questi due tipi di cinema presentino caratteristiche cosí differenziati da richiedere due distinte definizioni.
Il problema – come si vede – è importante poiché riguarda il cinema nella sua stessa essenza.
E ancora: supposto che la definizione debba essere unica, si può dire che l’immagine cinematografica si compone di una immagine visiva e di una sonora, oppure si deve dire che l’immagine cinematografica è immagine visiva muta o sonora?
E nel caso di cinema sonoro, si può parlare di immagine sonora oppure si deve parlare di immagine sonorizzata?
Finalmente, nel cinema sonoro quale paope deve avere il sonoro nei confronti del visivo?
Cerchiamo di rispondere a questi vari interrogativi. E prima di entrare nel vivo del problema, notiamo che per diversi motivi si può e si deve parlare di «immagine sonora», cosí come si parla di «immagine visiva» e che pertanto l’immagine cinematografica non potrà mai essere chiamata semplicemente «immagine sonora», poiché nel cinema sonoro c’è una parte visiva e una parte sonora e il termine «immagine sonora» si limita solo alla parte sonora.
«Immagine», infatti, significa «rappresentazione materiale»; e tale rappresentazione (che in campo visivo corrisponde a «figura») può avvenire ovviamente anche in campo sonoro. Come un’immagine visiva riproduce, p.e., una fontana, cosí un’immagine sonora riproduce, p.e., il rumore di quella fontana. L’una e l’altra sono vere e proprie immagini, benchè di diversa natura.
Orbene, l’immagine cinematografica, in caso di cinema sonoro, è composta praticamente di un’immagine visiva e di un’immagine sonora.
Considerando piú particolarmente l’immagine sonora che si ha in cinema, ma prescindendo per il momento dal rapporto che essa ha con l’immagine visiva, dobbiamo constatare che il sonoro nel cinema (come avviene in radiofonia o in discografia) è ottenuto con mezzi tecnici tali che, per quanto fedeli, alterano poco o tanto il suono riprodotto.
Queste alterazioni, dovute soprattutto – nei casi di maggiore semplicità e allo stato attuale della tecnica – a degli organi di amplificazione insostituibili agli effetti della riproduzione, si riflettono sostanzialmente sui suoni armonici.
È noto che la fedeltà di una riproduzione sonora dipende dalla capacità dello strumento (registratore, giradischi, ecc.) di rispondere alla gamma, la piú vasta possibile, di frequenze. Una tale capacità non è altro che la capacità di captare il maggior numero possibile di armoniche del suono.
Per quanto riguarda lo strumento riproduttore sia perfetto e per quanto vasta sia la gamma di frequenze interessate c’è sempre un’alterazione di armoniche provocata dal mezzo tecnico. (Per questo, p.e., si parla di voci e di suoni «microfonici», che cioè rendono bene se uditi attraverso quegli strumenti).
Orbene, i suoni armonici sono quelli che determinano il timbro, in quanto la verità di timbro dei suoni (tromba, sassono, voce umana, pianoforte ecc.) è prodotta dalla verità degli armonici concomitanti il suono fondamentale (p.e. il do di una certa altezza e di una certa intensità).
Gli organi d’amplificazione di cui s’è detto non fanno che alterare i rapporti delle armoniche, esaltandone alcune ed eliminandone altre.
Ne segue che il suono riprodotto non è uguale al suono reale per quanto gli sia molto simile e per quanto non sempre sia possibile coglierne a orecchio le diversità.
Ne segue soprattutto che c’è un suono e che c’è ben distinta (anche nella qualità) una sua riproduzione.
Questa riproduzione è esattamente quella che chiamiamo – e si deve chiamare – «immagine» di un suono. Si può quindi e si deve parlare di «immagine sonora».
Ma c’è di piú. L’uomo, nel riprodurre i suoni, può influire – grazie al mezzo tecnico – su questa riproduzione, accentuando, p.e., i bassi o gli alti, creando dei piani di sonorità, ottenendo effetti speciali. Ciò dimostra che i mezzi di riproduzione sonora possono divenire anche mezzi espressivi e che pertanto l’immagine sonora, già di per se stessa, nel cinema o fuori del cinema, può essere usata in maniera espressiva analogamente a quanto s’è detto a proposito dell’immagine visiva.
Precisato cosí il concetto di immagine sonora e assodato praticamente che anche nel cinema sonoro l’immagine sonora esiste e conserva la sua autonomia d’origine, vediamo piú direttamente il problema dell’immagine sonora nei suoi confronti con l’immagine cinematografica.
Dopo quanto detto, è ovvio anzitutto che l’immagine cinematografica è essenzialmente visiva e che tale resta sia nel cinema muto sia nel cinema sonoro. Nel cinema sonoro, tale immagine è accompagnata da una correlativa immagine sonora.
L’autonomia ontologica dell’immagine sonora è sufficiente a dimostrare l’infondatezza di quegli assunti in base ai quali si vorrebbe rifiutare di considerare l’aspetto visivo dell’immagine cinematografica quale essenziale e l’aspetto sonoro come non essenziale, mettendo sullo stesso piano i due aspetti.
Infatti, mentre l’immagine visiva ha un’origine (anche tecnica) ch’è quella che fa chiamare «immagine cinematografica» l’immagine sonora ha un’origine che nulla ha a che fare, di per sé, col cinema. È evidente dunque che se ci può essere cinema senza sonoro, non ci può essere cinema senza visivo. Ed è pure evidente che quando si ha l’accostamento delle due immagini, il predominio essenziale è quello dell’immagine visiva.
E la questione non è puramente teorica. Infatti essa viene a galla continuamente sia in sede critica sia in sede realizzativa quando si tratta di vedere l’autenticità cinematografica di un sonoro. E non è chi non veda come da tale autenticità dipenda se un film può dirsi opera cinematografica o non, p.e., opera di teatro filmato o di letteratura illustrata da immagini in movimento.
Parlando quindi di cinema sonoro noi affermiamo prima d’ogni altra cosa che il sonoro non appartiene essenzialmente – sottolineo la parola essenzialmente – al cinema come tale. In altre parole, la definizione di cinema non include di per sé il concetto di immagine sonora da aggiungersi a quella visiva.
Si può anzitutto invocare una ragione storica, un dato di fatto: si è avuto per anni un cinema che era muto e che, pur limitato sotto vari aspetti tecnici, ha dato autentiche opere d’espressione cinematografica. Vedremo subito la ragione teorica di questo dato di fatto. Prima però ci pare opportuno accennare che qualche autore, anche insigne, ritiene il cinema essere essenzialmente cambiato con l’avvento del sonoro, cosí che quanto s’afferma del cinema muto non sia valido per il cinema sonoro e viceversa.
Se questa tesi fosse valida, cadrebbe naturalmente il nostro assunto. Ma essa non è affatto accettabile e noi lo dimostriamo proprio sostenendo che il sonoro non è elemento essenziale del cinema: se è cosí, l’avvento del sonoro non ha modificato essenzialmente la natura del cinema muto e quindi la definizione di cinema è la stessa sia per il muto sia per il sonoro.
Dobbiamo naturalmente dimostrare la non essenzialità del sonoro in cinema con ragioni diverse da quella storica, poiché tale prova viene direttamente oppugnata da quella tesi.
Ed ecco il nostro ragionamento: il sonoro non è essenziale poiché il cinema è il linguaggio di immagini fotoschermiche in movimento e tale linguaggio può aversi anche senza sonoro.
Che il cinema sia quel tipo di linguaggio è dimostrato direttamente dall’esperienza e dall’evidenza del mezzo tecnico: che tale linguaggio possa aversi anche senza sonoro è dimostrato dal fatto che esso può realizzarsi anche solo con immagini visive (e a questo punto la nostra prova storica riassume il suo valore, poiché qui sta a dimostrare solo che ci sono state opere di cinema muto le quali di fatto sono riuscite a esprimere qualcosa e quindi sono state – con i soli mezzi visivi – opere di linguaggio).
Si noti: non diciamo che il cinema è linguaggio di immagini fotoschermiche (e cioè visive) perché l’immagine sonora non gli è essenziale; bensí diciamo che l’immagine sonora non è essenziale perché il cinema è essenzialmente linguaggio di immagini visive e diciamo che lo è perché tale è il mezzo tecnico che lo produce e quindi la sua natura d’origine; e comproviamo la cosa con il dato di fatto di opere cinematografiche mute che sono autentiche opere di linguaggio.
Il ragionamento pertanto è perfettamente valido ed è ben lontano dal difetto di tautologia che qualcuno ha creduto di scorgervi.
Il sonoro dunque non è elemento essenziale del cinema; il che significa che quando in cinema la comunicazione dell’idea avviene sostanzialmente attraverso l’immagine sonora anziché attraverso l’immagine visiva, ci troviamo di fronte a un’opera non cinematografica, bensí a un’opera appartenente ad altro linguaggio cui il cinema fornisce materialmente un’integrazione visiva.
A questo punto pertanto possiamo rispondere a parecchi degli interrogativi che ci siamo posti piú sopra.
Anzitutto, la definizione di cinema (cosa sulla quale ci intratterremo piú avanti diffusamente) può e deve essere unica, valida cioè sia per il cinema muto sia per il cinema sonoro.
In secondo luogo, l’immagine cinematografica – essenzialmente visiva – si compone nel cinema sonoro di un’immagine visiva e di un’immagine sonora, le quali immagini dovendosi integrare in unità compongono non già un’«immagine sonora» (come erroneamente si usa dire per brevità), bensí un’«immagine visiva sonorizzata», oppure – il che è lo stesso – un’«immagine cinematografica sonora» in cui il «cinematografica» definisce la visività e il movimento visivo dell’immagine e il «sonora» definisce la riduzione in unità delle due immagini.
Resta ora da vedere piú da vicino il rapporto fra le due immagini e cioè il ruolo che l’immagine sonora ha nei confronti di quella visiva ai fini dell’unità dell’immagine cinematografica sonora.
Se il sonoro non può considerarsi quale elemento essenziale del cinema, è altrettanto vero che esso dà un apporto di completamento, di integramento, di potenziamento all’immagine visiva e talvolta può essere talmente richiesto che, ove esso manchi, manca qualcosa al visivo stesso. Ciò si verifica quando la realtà visivamente riprodotta è una realtà anche sonora. In questo caso, se l’immagine è solo visiva, c’è evidentemente una deficienza del cinema come mezzo di riproduzione e, di conseguenza, ma non essenzialmente, anche come mezzo di espressione.
A questo proposito, si può osservare, p.e., che talvolta, nelle comiche di Charlot, si sente la mancanza di un sonoro che le sostenti (p.e. un dialogo o una voce o un canto).
Evidentemente in tali momenti il cinema di Charlot cade da uno stato di perfezione cinematografica, poiché ciò significa che Chaplin ha usato il mezzo tecnico in maniera tale da farne sentire i limiti (l’assenza del sonoro), mentre di fatto questo mezzo aveva la possibilità effettiva di esprimere anche senza il sonoro.
Infatti, se avendo a disposizione solo del cinema muto, si fa vedere, p.e., una persona che parla e interesserebbe sapere ciò che dice, evidentemente si scoprono i limiti del mezzo; mentre se si fanno vedere cose semplicemente visive (p.e. due uomini che gesticolano o che camminano), non c’è bisogno di sonoro per dare la sufficiente riproduzione di ciò che avviene.
La forza espressiva dell’immagine muta è anzi talmente notevole che può supplire perfino alla deficienza del sonoro nella rappresentazione di una realtà sonora: vediamo una cascata e ci pare di sentirne il rumore, vediamo una macchina che si arresta di colpo e ci pare di sentire il fischio delle gomme. Ciò significa che l’immagine cinematografica per sua natura è sufficiente a esprimere e a esprimere perfino – in parte – realtà sonore.
È però necessario che venga usata come si deve. Che se nella storia del cinema muto ci troviamo spesso di fronte a brani o ad interi film che fanno sentire l’assenza del sonoro, vuol dire che non il mezzo è deficiente, bensí il modo di usarlo.
Resta sempre vero tuttavia che il cinema sonoro ha maggiori possibilità espressive, perché alle possibilità dell’immagine visiva aggiunge quelle dell’immagine sonora.
Si può concludere che se l’essenza del linguaggio cinematografico prescinde dal sonoro (cioè il cinema è vero e proprio mezzo di espressione anche se muto), fa parte di questa stessa essenza la possibilità per l’immagine visiva di essere accompagnata dall’immagine sonora, poiché l’immagine può essere immagine di realtà anche sonore e comunque il sonoro può integrare o rafforzare l’espressività della immagine visiva.
Possiamo inoltrarci ulteriormente nel problema e vedere i rapporti di concomitanza tra le due immagine.
La prima cosa da osservare – ed è di fondamentale importanza – è che l’immagine sonora non può mai sostituirsi all’immagine visiva, bensí deve sempre accompagnarla e integrarla.
La ragione è quella detta or ora: il cinema è essenzialmente linguaggio di immagini visive a causa del mezzo tecnico che lo produce. Il mezzo tecnico sonoro può anche non esserci e l’immagine visiva può esprimere anche senza immagine sonora, mentre non può avvenire viceversa, pena il rinunciare al cinema. Pertanto la realtà che sta alla base della riproduzione (e, in seconda istanza, della espressione) cinematografica è una realtà visiva.
È vero che questa realtà molte volte oltre che visiva è sonora. È vero che da ciò segue che la riproduzione cinematografica di quella realtà sarà piú completa se il film che ne coglie gli aspetti visivi ne coglierà anche quelli sonori; non solo, ma con l’aggiunta dell’immagine sonora si ampliano le possibilità espressive. In certo senso si può perfino dire che la riproduzione muta di una realtà audiovisiva sia manchevole come riproduzione (non sempre però come espressione).
Ma la prevalenza del visivo deve rimanere sempre, anche nel caso di riproduzione audiovisiva, poiché è nel visivo e non nel sonoro l’originaria natura del cinema e perché nell’espressione cinematografica di una stessa realtà audiovisiva può succedere che l’aspetto sonoro non interessi.
Un esempio potra illuminarci per precisare il discorso. Prendiamo una bella fontana (realtà audiovisiva): essa può interessare per la bellezza della sua architettura oppure per la sonorità particolarmente armoniosa dei suoi zampilli oppure per ambedue gli aspetti messi insieme. Nel primo caso, la realtà sonora non interessa come tale e il film muto che la riproducesse non farebbe rimpiangere il sonoro. Nel secondo caso, è solo il rumore della fontana che interessa e quindi il cinema non c’entra. Nel terzo caso, la fontana interessa sia come realtà visiva sia come realtà sonora e quindi il film che la riproduce sarà completo solo se sonoro.
Come si vede, escluso il secondo caso in cui il cinema non è interessato, il mezzo tecnico cinematografico è impegnato nella riproduzione di una realtà esterna che, essenso audiovisiva, può interessare anche per il suo aspetto sonoro. Pertanto la riproduzione di una realtà anche sonora è la prima giustificazione dell’impiego del sonoro nel cinema. La constatazione è importante, perché illumina sui criteri con i quali si deve guardare al sonoro cinematografico e ne introduce anzi il discorso. In certo senso, si può dire che, analogamente al visivo, il sonoro è anzitutto riproduzione, documentazione della realtà e che la sua presenza (e il suo uso) nel cinema è subordinata alla natura – anche sonora – della realtà da riprodursi.
Tuttavia, essendo accoppiato con un’immagine la cui essenza è quella di essere visiva, la sua presenza (e il suo uso) è subordinata non solo alla natura della realtà da riprodursi, ma anche – e soprattutto – alla natura dell’immagine alla quale è chiamata ad accoppiarsi.
È cosí stabilito un criterio obiettivamente preciso per l’uso del sonoro, anche se talvolta, all’atto pratico, non sarà possibile misurare materialmente l’equilibrato rapporto tra l’una e l’altra immagine.
Uso espressivo del sonoro
Come s’è gia accennato, la presenza del sonoro nel cinema non è giustificata solo da una esigenza di completezza di riproduzione, bensí anche dalla possibilità che esso offre all’autore di esprimersi piú compiutamente o in modo piú ricco.
Per questo non si deve confondere una voce fuori campo superflua o sostitutiva dell’immagine visiva con una voce fuori campo che può essere vera e propria parte integrante dell’immagine cinematografica, in quanto concorre a dare all’immagine visiva un particolare valore espressivo. Supponiamo, p.e., che si voglia esprimere l’idea del mistico sposalizio di un’anima col Cristo, mettendone in rilievo l’aspetto di dedizione completa al mistico sposo col sacrificio totale di sé. L’immagine dà una suora che sta per fare la sua professione religiosa: è l’anima che attende il momento dell’unione con lo sposo. In questa immagine si cominciano a sentire quelle parole del Cantico dei cantici che finiranno con «Il mio diletto è fresco e vermiglio» ecc., in cui è detta l’ebbrezza della sposa che aspetta lo sposo.
Quando il sonoro è giunto alle parole citate, l’immagine passa dalla suora a un Cristo in croce opportunamente ripreso. Come si vede, è proprio da questo incontro del visivo col sonoro che viene espresso quel concetto altamente spirituale (lo sposo è un Crocefisso e la sposa ne è inebriata). Né il solo visivo né il solo sonoro l’avrebbero potuto esprimere, poiché il solo visivo si sarebbe limitato a documentare una cerimonia di professione religiosa (il Cristo può essere quello dell’altare davanti a cui la suora professa) e il solo sonoro si sarebbe limitato a esprimere l’ebbrezza della sposa (qualunque sposa, anche se indicata qui poeticamente e simbolicamente) nel momento in cui attende lo sposo. La unione delle due immagini (visiva e sonora) fa sí che l’immagine cinematografica sonora che ne risulta riesca a dire che la professione di quella sonora è uno sposalizio, che lo sposo è il Cristo crocefisso e che quello sposalizio implica il sacrificio totale ch’è fonte di ebbrezza spirituale. E – qualora il contesto nel quale si troverà quell’immagine cinematografica sia opportuno – la suora che professa diverrà non tanto documentazione di una cerimonia religiosa, quanto piuttosto simbolo di una realtà mistica che può avverarsi in qualsiasi anima cristiana e non solo in quella di una suora.
L’accostamento poi del suono e del visivo è tipicamente cinematografico perché è l’immagine audiovisiva – come immagine e come audiovisiva – che esprime.
Pertanto il semplice, opportuno accostamento di un certo sonoro a un certo visivo può dare all’immagine cinematografica un particolare valore espressivo.
Ma, almeno teoricamente, il sonoro può divenire elemento cinematografico anche strutturale, cioè l’immagine cinematografica può trovare la sua ragione di costruirsi in funzione dell’unità filmica anche in forza del sonoro, anziché del visivo, come avviene comunemente. I casi non sono frequenti, ma possono verificarsi.
Il caso piú identificabile è quello dell’immagine audiovisiva la quale si riferisce ad una realtà insostituibilmente sonora. Che significa realtà «insostituibilmente sonora»?
Mi spiego con esempi: se si vuol dire quanto è successo a Mario Rossi, si può far vedere l’avvenimento oppure una persona che lo racconti.
Questo racconto a parole non è realtà «insostituibilmente» sonora, appunto perché la prima soluzione (cioè quella di far vedere in effetti quanto è successo a Rossi) va altrettanto bene, anzi è piú diretta.
Si prenda invece il caso in cui lo svolgersi dell’azione (p.e. l’assunzione di Bruno Bianchi come uomo di fiducia in una impresa) dipende dal fatto che questi racconti al padrone quello che è successo a Mario Rossi. In questo caso, il racconto a parole di quanto è successo a Mario Rossi fa parte insostituibile di un’azione (l’assunzione di Bruno Bianchi) e come tale è realtà insostituibilmente sonora; non già in se stessa, ma ai fini dell’azione che forma in quel momento oggetto diretto e concreto dello sviluppo cinematografico.
Altro esempio: alcune persone attendono la campana di mezzogiorno per dare il via ad una certa azione. Anche qui è il sonoro (il suono della campana) e non il visivo che spiega il muoversi di quelle persone. Il far vedere, p.e., la campana che suona (sostituire cioè il sonoro col visivo) non sarebbe altrettanto pertinente, poiché quelle persone si muovono quando sentono suonare la campana e non quando la vedono muoversi (la campana infatti potrebbe essere invisibile ai loro occhi). Anche in questo caso, dunque, il suono della campana è realtà insostituibilmente sonora.
Orbene, abbiamo detto che talvolta il sonoro può divenire elemento cinematografico strutturale, può cioè contribuire – proprio come sonoro – a far procedere il racconto cinematografico secondo la sua tipica natura cinematografica. I casi riportati di realtà insostituibilmente sonora contribuiscono a tale procedere, sono dunque elemento strutturale cinematografico, perché il sonoro non sostituisce il visivo ma lo integra in una parte di realtà (quella sonora) che esso da solo non avrebbe e che invece deve avere. Infatti nel caso della campana, supplire il suono della campana con la visione di essa potrebbe essere un alterare la realtà che il cinema in quel momento sta riproducendo.
Si noti tuttavia che un parlato troppo protratto non può divenire – salvo eccezioni – azione cinematografica, perché esige un uso di mezzi letterari e non cinematografici; poiché, in altre parole, va a finire che svuota l’immagine visiva di ogni significato e la riduce ad essere pura illustrazione di un testo e pretesto visivo per permettere alle parole di diffondersi nel tempo. Pertanto una realtà insostituibilmente sonora si giustifica cinematograficamente fino al punto in cui l’azione visiva ha un suo effettivo valore di racconto. Se quella realtà dovesse far varcare questo punto e degradare l’immagine visiva, sarebbe necessario ricorrere a una diversa strutturazione del racconto, cosí che esso risultasse realizzato dall’immagine visiva o audiovisiva, ma non essenzialmente da una immagine sonora.
Bisognerà quindi esaminare caso per caso e solo un’applicazione precisa del principio permetterà di giudicare obiettivamente l’autenticità cinematografica di un sonoro che venga usato come elemento strutturale.
Oltre al caso di realtà insostituibilmente sonora, il sonoro come tale può diventare elemento prettamente cinematografico anche quando serve a dare un ritmo all’immagine visiva.
Ricordo la scena di un vecchio film il cui titolo mi sfugge. Si vede un uomo immobile appoggiato ad un armadio: parla, parla, parla. Questo parlare dà l’impressione di provenire dall’esterno dell’immagine e di entrarvi per metterla in movimento – essa che è e resta fissa – sconvolgendola tutta. Il ritmo dell’immagine perciò qui è dato dal sonoro. Si tratta forse di un esempio piú unico che raro, ma innegabile e decisamente cinematografico, poiché la compenetrazione del sonoro col visivo è interiore e profonda. Quell’uomo immobile che parla, crea una sorta di allucinante movimento ideale ed è come se si muovesse. Se l’uomo non fosse stato cosí immobile in quella posizione, l’incanto sarebbe stato spezzato: il movimento reale visivo avrebbe distrutto questo rarissimo movimento ideale.
Un esempio analogo lo si trova nella prima sequenza de Il cammino della speranza di P. Germi. S’è appena visto un imbonitore che invita la gente a emigrare sotto la sua guida; la macchina da presa percorre il paese che è deserto e la voce di quello (ormai non se ne distinguono piú le parole) si diffonde per quelle strade. Anche qui l’integrazione del visivo con il sonoro è interiore e profonda perché esprime in forma unitaria (né il visivo, né il sonoro da soli riescono a farlo) che le idee sparse da quell’imbonitore si diffondono in quel paese e penetrano nelle case. Anche qui è il suono a dare movimento al visivo in quanto il suo ritmo prevale su quello – molto dosato – dei movimenti di macchina.
Il sonoro allarga il campo d’azione del visivo
L’avvento del sonoro ha introdotto non solo nuove possibilità espressive, ma ha allargato anche il campo d’azione del cinema. Si pensi, p.e., ai film musicali in cui la colonna sonora è veramente regina o per il suo intrinseco valore o perché è essa a far nascere il gioco delle immagini (cfr. p.e. Fantasia di Disney). Oppure si pensi ai film teatrali, quelli cioè che realizzano cinematograficamente un copione teatrale (da non confondersi con i film che si ispirano a un testo drammatico). Di tutti questi film l’aspetto principale è un fenomeno sonoro. Qualora la realizzazione cinematografica sia fatta nel rispetto dei principi sopra enunciati a proposito del rapporto tra visivo e sonoro, non è chi non veda quale importantissimo apporto abbia dato o possa dare l’avvento del sonoro alla potenza espressiva del cinema.
Ma tale apporto è evidente anche senza ricorrere ai film musicali o teatrali. Supponiamo di voler rendere in film il dramma di quelle ragazze che sono costrette a lavorare anche otto ore di seguito, ogni giorno, in una sala di telai dal rumore assordante. Il lavoro non è difficile né pesante, ma quell’atmosfera sonora dal ritmo violento e ossessivo lo rende terribile. Oppure supponiamo il dramma di uno che impazzisce per il rumore incessante di una cascata o per il ronzio implacabile di un calabrone. Son tutte realtà che hanno il loro principale interesse nel fatto sonoro. Per poter affrontare questi aspetti della realtà, il cinema ha bisogno del sonoro o quanto meno col sonoro li può affrontare piú direttamente e piú efficacemente.
Si può quindi concludere che il sonoro dà una nuova dimensione al cinema, cosí come un’altra nuova dimensione esso potrebbe avere se riuscisse ad essere olfattivo.
Di fronte a queste considerazioni, è ancora possibile sostenere il principio che il sonoro deve integrare e non sostituire l’immagine visiva? Certamente sí. La ragione è semplice e verrà anche a completare quanto si è detto piú sopra. Nel cinema audiovisivo non si può considerare il sonoro come un fatto distaccato dal visivo. Tale cinema è uno speciale tipo di cinema; è cioè essenzialmente caratterizzato dalla presenza del sonoro. Ne segue perciò che ci deve essere una speciale unità fra visivo e sonoro e che il ritmo che porta a questa unità potrà essere determinato forse dal sonoro, ma sarà sempre ritmo di un’unità audiovisiva, della quale il visivo resta il costitutivo essenziale e fondamentale.
Il cinema audiovisivo
E a questo proposito converrà fare qualche precisazione.
Nell’immagine cinematografica sonora abbiamo un ritmo visivo e un ritmo sonoro. Il ritmo – si è detto – è il rapporto di movimenti successivi. Questi movimenti possono essere reali (p.e. il movimento di una musica, di una linea che si muove), oppure ideali (p.e. il movimento del braccio di una persona dipinta).
Il ritmo può riferirsi al tempo e allo spazio: realmente si riferisce al tempo, idealmente allo spazio; però anche lo spazio può assumere un valore ritmico reale quando esso spazio si muove nel tempo. Pertanto nel cinema il fatto visivo ha una spazialità ed una temporalità reali e quindi ha sempre un ritmo spazio-temporale reale; mentre il fatto sonoro ha una temporalità reale ed una spazialità ideale e quindi un ritmo solo temporalmente reale.
Il punto di incrocio tra visivo e sonoro ai fini del ritmo sta nella temporalità che è reale per ambedue. Pertanto il cinema sonoro è quel cinema che ha una spazialità visiva e una temporalità audiovisiva, il che significa che il visivo ha due realtà mentre il sonoro ne ha una sola (anche di qui la preminenza del visivo); e il ritmo audiovisivo nascerà dal connubio di queste spazialità con queste temporalità, che costituiscono gli elementi naturali del fatto filmico sonoro.
Spazialità e temporalità ideali e reali
Vediamo di illustrare maggiormente questi concetti.
Si può parlare di spazialità ideale della musica cosí come si può parlare di movimento ideale (cioè di temporalità ideale) della pittura.
Tuttavia la spazialità ideale della musica è meno ideale e piú reale di quanto non lo sia la temporalità della pittura.
Di temporalità, in pittura si può parlare per un fatto di potenzialità e per un fatto di analogia.
Il fatto di potenzialità consiste in questo: per rappresentare un movimento (p.e. una donna nell’atto di sollevare il suo bambino da terra per stringerlo al seno), la pittura, come pure la fotografia, deve concentrarlo in uno dei suoi istanti, a differenza del cinema il quale avendo un movimento (= una temporalità) reale lo può rappresentare nella sua integralità, introducendolo dal primo all’ultimo istante.
La pittura dunque dà l’idea di movimento stando ferma: il suo movimento è ideale. Diverrebbe reale se, per un trucco cinematografico, si facesse muovere quella pittura; ma in tanto quel movimento potrebbe divenire reale (e quindi la pittura assumere una temporalità reale) in quanto esso era potenzialmente contenuto in questa pittura. (La figura, p.e., di un cavallo non potrebbe mai dare origine al movimento di una donna che solleva il suo bambino).
Ne segue che la temporalità di quella pittura è solo potenziale, perché concentra un movimento che potrebbe essere sviluppato realmente con speciali mezzi tecnici (p.e. il disegno animato) ed è ipotetica perché suppone un fatto interno (una donna, non un cavallo, per il movimento della donna) e un fatto esterno (il trucco cinematografico p.e.) che alteri, per cosí dire, la natura della pittura.
Il fatto di analogia invece consiste in questo: di fronte a un quadro noi con lo sguardo ne percorriamo le parti, le linee. Non sono quelle parti o quelle linee che si muovono, bensí il nostro sguardo; ma il nostro sguardo in tanto le può percorrere in quanto esse si sviluppano nello spazio. Per questo comunemente si dice: «Guarda come si muove il braccio di quella Vergine; come quelle linee si intrecciano, ecc.».
Il movimento è quindi ideale, perché non reale; ed è analogico perché gli elementi del quadro entrano in vicendevole rapporto come se si muovessero (e si muovono di fatto non in se stessi, ma nel nostro sguardo). E poiché il vicendevole rapporto di movimenti viene espresso con la parola ritmo, con la stessa parola si può esprimere – in senso analogico – il rapporto suddetto.
In pittura, quindi (cosí come in fotografia), non c’è temporalità reale perché non c’è movimento reale. Per questo si può parlare solo di temporalità ideale, basata su fattori ipotetici o analogici.
Nella musica invece la spazialità è meno ideale, perché non si basa solo su elementi potenziali o analogici. Il fenomeno fisico della musica ha un’effettiva spazialità. Non solo si può parlare in tutta verità di suoni alti e bassi (rapporti quindi di spazio tra due suoni), ma il fenomeno vibratorio che è all’origine del suono si verifica di fatto nelle tre dimensioni dello spazio, come lo dimostrano gli esperimenti di acustica (una corda tesa che si faccia vibrare, una lastra di vetro su cui sia cosparsa della polvere finissima e al cui bordo si faccia sfregare un archetto di violino, la traduzione mediante fotocellule del fenomeno sonoro, ecc.).
Anche la sinusoide che descrive il suono ha un aspetto spaziale oltre che temporale. Essa non è solo una rappresentazione schematica del fatto fisico, ma ne è un aspetto diretto. E questa sinusoide, intersecata da altre sinusoidi che la intrecciano, dice altezza, intensità e timbro del suono, cioè tutti e tre gli aspetti fondamentali del suono. Il che significa che il suono, in tutti i suoi tre aspetti caratteristici, è un fatto temporale e spaziale insieme. Siamo però in un piano di spazialità intesa in un senso che vorremmo dire causale. La spazialità concreta che osserviamo nei citati fenomeni è un prodotto del suono su delle realtà già concretamente spaziali.
Non è da stupirsi dunque che tra un fenomeno veramente spaziale quale è l’immagine visiva e un altro fenomeno altrettanto spaziale (benchè in modo diverso) quale è l’immagine sonora, si possa stabilire un rapporto reale sul piano spaziale.
Visualizzazione della musica
Avendo una sua spazialità, la musica può essere rappresentata visivamente da elementi spaziali: p.e. una linea (= melodia) che si muove, si alza, si abbassa, si attorciglia, si arresta; una combinazione di zone colorate (= armonia) che si muovono, si modificano, si cangiano, sfumano ecc.. Evidentemente, essendo la musica un fatto asemantico (tranne che nella riproduzione o nell’imitazione di fatti sonori), tanto piú precisa e diretta sarà la sua rappresentazione visiva, quanto piú gli elementi visivi saranno asemantici, cioè connaturali al sonoro.
Ma non è escluso che gli elementi visivi traducenti una musica possano essere semantici, benchè in questo caso si cominci ad allontanarsi da una diretta traduzione visiva del fenomeno sonoro e ci si inoltri in zone in cui i rapporti divengono di natura psicologica o analogica. Il film Fantasia di W. Disney contiene sostanzialmente tutti i modi di visualizzazione della musica. Dalle immagini della colonna sonora (all’inizio), alla rappresentazione astratta della musica di bach e alle storie visive create sulle musiche di Beethoven, Ciaikowski, Gounod, c’è tutta una gamma di possibilità, delle quali quella che sta piú aderente alla visualizzazione diretta, pur essendo semantica, è la descrizione visiva di fatti e di oggetti sonori: una cascata, il vento, ecc.
È dunque possibile un rapporto tra immagine visiva e immagine sonora sul piano della spazialità. Se a questo si aggiunge anche il fatto temporale (che è reale sia nel sonoro sia nel visivo cinematografico), si capisce facilmente come l’immagine cinematografica possa raggiungere l’unità di ritmo audiovisivo proprio grazie all’unione dei due fattori.
Ovviamente tra temporalità visiva e temporalità sonora c’è un rapporto che direi fisico, materiale: un uomo che cammina facendo rumore coi tacchi è tutt’uno, visivo e sonoro. Invece la spazialità visiva e la spazialità sonora non si muovono sullo stesso piano: un uomo che sale la scala facendo rumore coi tacchi non è un sonoro che sale nell’ambito degli spazi musicali, è un sonoro che sale negli spazi topografici. Il rapporto ci può essere ancora, ma non è piú un rapporto diretto; diventa – come s’è accennato – psicologico o analogico.
Col rapporto diretto tra visivo e sonoro siamo nel campo della asemanticità, per quanto riguarda la musica e nel campo della riproduzione audiovisiva per quanto riguarda le realtà sonore. Col rapporto indiretto invece, il problema entra nel campo dell’espressione. L’espressione sonora ha una sua autonomia, ma può adeguarsi a congiungere la propria espressività a quella del visivo, come s’è detto parlando dell’uso del sonoro. Ciò che risulta dall’uno e dall’altro rapporto – perché ci sia cinema – dev’essere non già «visivo piú sonoro», bensí l’immagine cinematografica audiovisiva, con la preminenza delle esigenze e delle strutture visive su quelle sonore.
Sincronismo e asincronismo
Dobbiamo chiederci ora in quali e quanti modi un sonoro possa entrare a integrare il visivo. È il problema del sincronismo e dell’asincronismo.
Pudovkin ha già trattato di ciò nel suo Film e fonofilm. Nonostante le pregevolissime cose che vi si leggono, ricche di intuizione e di esperienza, mi pare non si possano accettare certe conclusioni che egli trae, qualora le si considerino in una luce filosofica. (Va detto però che egli non voleva fare della filosofia, ma della teoria cinematografica). Egli afferma, p.e., che l’asincronismo è condizione indispensabile perché ci sia arte, essendo il sincronismo una riproduzione piatta della realtà. Che una simile asserzione non sia accettabile, almeno senza chiosa, e che nemmeno sia in pieno accettabile che egli dà di sincronismo e di asincronismo, dovrebbe risultare, evidente dalle considerazioni che stiamo per fare sull’argomento.
Per sincronismo, si intende la presenza del sonoro richiesta da elementi che sono nel visivo (p.e. si sente una campana suonare e la si vede). Per asincronismo si intende la presenza del sonoro richiamata da elementi che non sono nel visivo (p.e. il ricordo della voce di una persona).
Il sincronismo
Il sincronismo può essere oggettivo (cioè sincronismo sincronico) e soggettivo (cioè sincronismo asincronico).
Si ha sincronismo oggettivo quando un suono è richiesto da un elemento:
a) materialmente visibile;
b) che fa parte dell’immagine (p.e. si vede un campanello e se ne intende il suono, oppure si vede una persona che parla e se ne sentono le parole).
Il sincronismo oggettivo può distinguersi in diretto e indiretto. Si ha sincronismo oggettivo diretto quando la fonte sonora è in campo (gli esempi citati or ora); si ha sincronismo oggettivo indiretto quando la fonte sonora è fuori campo, ma fa parte del visivo per il contesto (p.e. Tizio e Caio parlano tra loro: vedo il PP di Tizio che ascolta quello che dice Caio, il quale momento ovviamente è fuori campo; oppure mi trovo nel bar dove c’è l’organino che suona: sento la musica, ma in questo momento vedo il barista che prepara un caffè).
Si ha sincronismo soggettivo quando un sonoro è giustificato da un elemento dell’immagine che materialmente non può essere visibile nell’immagine stessa (p.e. vedo un soldato al fronte che ricorda la ninna-nanna materna: odo quella ninna-nanna. Oppure vedo Tizio che parla delle musiche sentite il giorno prima: sento le parole di Tizio [sincronismo oggettivo] e sento anche sullo sfondo quelle musiche [sincronismo soggettivo]).
Anche il sincronismo soggettivo può essere diretto o indiretto a seconda che l’elemento richiamante il sonoro (il soldato al fronte, Tizio che parla) sia in campo o fuori campo.
L’asincronismo, invece, si ha quando la presenza di un sonoro è richiamata da qualcosa che non è visivo né direttamente (in campo) né indirettamente (fuori campo). L’elemento, dunque, che «richiama» quel sonoro non è un elemento dell’immagine né materialmente presente (sincronismo oggettivo) né materailmente possibile ad essere presente (sincronismo soggettivo).
L’asincronismo può essere oggettivo (asincronismo sincronico) oppure soggettivo (asincronismo asincronico).
Si ha asincronismo oggettivo quando il sonoro è richiamato (si noti «richiamato» non «richiesto» come nel sincronismo) da un’azione presente sullo schermo, ma non è materialmente richiamato da nessun elemento di essa (p.e. vedo il soldato di prima al fronte, egli non sta pensando alla ninna-nanna, ma io la sento egualmente: è un richiamo a scene precedenti; oppure vedo un oratore che sta parlando del modo di migliorare le industrie e sento l’inno di Mameli: l’azione di quell’oratore viene cosí inquadrata in una visione patriottica).
L’asincronismo oggettivo può essere a sua volta indiretto, quando l’azione che richiama la musica è visiva (l’esempio del soldato al fronte); oppure diretto, quando l’azione che richiama è sonora (l’esempio dell’oratore). In altri termini, la ninna-nanna dell’esempio è richiamata direttamente da ciò che si vede ma non materialmente e quindi essa è asincronica (se fosse richiamata materialmente – dal soldato che la pensa – sarebbe sincronica). È, tuttavia, asincronica indiretta, perché si tratta di sonoro richiamato dal visivo e non dal sonoro. L’inno di Mameli invece è richiamato indirettamente da ciò che si vede e direttamente da ciò che si sente e quindi esso è asincronico (perché non è richiesto); ma è asincronico diretto, perché è un sonoro che si richiama a un altro sonoro.
Si ha asincronismo soggettivo quando il sonoro non è richiamato né direttamente né indirettamente dall’azione dello schermo, però è possibile mettere in rapporto tale azione (visiva o sonora) con quel sonoro. Rapporto evidentemente che viene stabilito dall’autore, il quale si serve di quell’azione per esprimere determinati significati. P.e. vedo dei bambini che giocano nel cortile della scuola e sento una tragica musica di guerra; dal contesto so che alcuni magnati dell’industria ritenevano opportuno suscitare focolai d’insurrezione per rendere piú attive le proprie fabbriche. L’immagine dei bambini su uno sfondo ideale di guerra non fa che sottolineare la bassezza di quegli speculatori.
Anche l’asincronismo soggettivo può essere diretto o indiretto, secondo che l’azione in rapporto con quel sonoro è sonora o visiva.
Il rapporto dell’azione col sonoro asincronico può essere per analogia o per contrasto. È per analogia quando l’azione e il sonoro hanno in comune un elemento analogo (p.e. vedo una mandria di buoi in cattività e sento un canto di prigionieri di guerra); è per contrasto quando azione e sonoro non hanno alcun elemento comune, ma sono legati proprio dall’assenza di questo elemento (p.e. vedo un’azione di SS e sento un coro di voci bianche).
Tutta questa catalogazione varrà se non altro a dimostrare che il sonoro portato nel cinema è in grado di precisare i significati dell’immagine visiva e pertanto offre delle possibilità narrative ed anche espressive.
Di tutti questi possibili usi del sonoro, quali sono i piú cinematografici? Evidentemente quelli i quali sono piú ricchi di possibilità espressive, per il fatto di unirsi col visivo, sono anche i piú tipicamente cinematografici e in questo senso ha ragione il Pudovkin.
Ma se si pone il problema quale di essi sia il piú valido esteticamente si deve rispondere che a priori non è possibile stabilirlo. Sotto questo profilo non è questione di arte, bensí di stile.
Bisogna vedere caso per caso come il sonoro viene usato. Tutt’al piú si può dire che certi usi del sonoro si confanno meglio a certi stili: p.e. il sincronismo al realismo e al neorealismo; l’asincronismo all’espressionismo, al romanticismo, all’epico ecc..
La musica nel film
Finora abbiamo considerato il sonoro genericamente e se abbiamo parlato a un certo punto di musica è stato per esemplificare la trattazione.
Il sonoro cinematografico comprende tre categorie di suoni: parlato, rumori di scena (tra i quali ci può essere anche la musica) e musica di fondo. Rivolgiamo ora la nostra attenzione solo alla musica sia essa di scena o di fondo.
La musica può avere nel film una funzione narrativa e una funzione di commento. Pertanto la presenza della musica, anche quella di fondo, può essere giustificata nel cinema, potendo essa divenire un mezzo espressivo. Prendiamo un esempio: un uomo sale le scale. Con quale stato d’animo sta salendo, che cosa va a fare? L’immagine visiva non riesce a dircelo; essa ci dice solo che un uomo sale le scale.
La musica può integrare l’immagine visiva: una musica drammatica dirà che qualcosa di grave lo attende, oppure che il suo stato d’animo è fortemente turbato; una musica tragica dirà che una catastrofe è imminente, oppure che egli sale con l’animo di uccidere; una musica languida dirà che l’attende un incontro amoroso; una musica serena dirà che lassú c’è una famiglia, dei bambini che gli faranno festa.
Nell’esempio citato c’è un’integrazione narrativa all’immagine visiva. Sarebbe facile portare altri esempi (basta entrare in un cinema per trovarne a decine) per dimostrare che la musica può integrare anche in senso espressivo, dando una speciale interpretazione all’azione che si vede sullo schermo. P.e. due si abbracciano e si baciano, la musica è ironica: quell’amicizia è insincera.
Ci si può chiedere piuttosto: come mai la musica, che è asemantica, può integrare un fatto semantico? La risposta non è facile. È forse piú prudente limitarsi a constatare il fatto. Tuttavia penso che il potere integrativo della musica dipenda piú da un fatto soggettivo (di integrazione psicologica dello spettatore) che da un fatto oggettivo; a meno che non intervengano fatti esteriori quali, p.e., una musica che sollecita determinati ricordi o certi fatti sonori (uno starnuto, un suono di tromba, il rumore del treno ecc.).
Comunque esulano da questo potere integrativo i valori strettamente musicali, perché di per se stessi questi esprimono un fantasma estetico asemantico e hanno un’autonomia espressiva di natura diversa da quella qui in questione.
Dal punto di vista musicale infatti si deve vedere solo la musica com’è costruita come musica, secondo le leggi musicali. Cinematograficamente invece non importa la costruzione, bensí l’effetto semantico o comunque espressivo che essa produce in unione con l’immagine visiva.