Comunicare bene: una sfida, un servizio, un'etica
di LUIGI ZAFFAGNINI
Edav N: 365 - 2008
Pare proprio che siano arrivati i tempi in cui la buona comunicazione si rivela come lo strumento piú idoneo ad aiutare l’uomo della civiltà tecnologica a ritrovare se stesso e i suoi valori. Non c’è settore della vita pubblica o privata che si sottragga a questo imperativo: comunicare! E comunicare bene. Non è un problema di pubblicità commerciale o di tecnica e tecnologie. Queste ci sono, alla portata di tutti e anche efficientissime. Non è nemmeno un problema di soli buoni contenuti. Certo, anche questo è importante, visto il panorama di comportamenti che inducono tutti a sottolineare una vera e propria emergenza educativa. Il problema è soprattutto quello del bisogno di capirsi e di far capire, con chiarezza, tutto un patrimonio di ragionamenti corretti che si sono perduti per strada, durante gli ultimi decenni di massificazione e di cultura demagogica.
È dunque chi deve comunicare sicurezza, rettitudine, organizzazione, serietà e quant’altro serve a far progredire autenticamente le condizioni materiali e spirituali di una società, che non riesce piú a contrastare e a sconfiggere chi comunica per confondere, per destabilizzare, per sovvertire i valori di riferimento della vita individuale e collettiva.
Ne parlano ormai tutti, dai religiosi ai genitori, dagli educatori ai politici, dagli economisti agli psicologi e psichiatri, dagli imprenditori agli operai. Tutti affermano che «si deve» e che «bisogna» raggiungere un obiettivo che è anche di risanamento morale, ma poi trovano difficoltà a indicare come si fa e da dove si parte, preferendo concludere che il problema è risolvibile solo facendo un «atto di fede» per quella parte della società che, a detta di chi volta per volta comunica, propugna buoni contenuti e buone idee. Insomma una grande kermesse pubblicitaria, a imitazione delle campagne della civiltà dei consumi, in cui tutti vantano il prodotto migliore e denigrano quello altrui.
Sicuramente non si può prescindere dalla natura di ciò che si comunica, ma non si può fare a meno di costatare che, oggi, tanti valori positivi ed essenziali sono relativisticamente messi in dubbio. È proprio questo, quindi, che fa riflettere sul fatto che, per quanto si affermino individualmente i buoni principi, essi non riescono a fare presa sulla società di massa, perché dissacrati e ridicolizzati o sviliti a livello di qualsiasi prodotto merceologico di consumo. Perfino il piú grande dei valori, quello della stessa vita umana, è ridotto a questo livello!
Senza la pretesa, allora, di voler ridurre a poche osservazioni la questione o voler affermare che esiste una «bacchetta magica» che può risolvere tutto, possiamo affermare che la strada da percorrere esiste, che è faticosa, che richiede studio e dedizione, ma che è vincente nel fare chiarezza a livello di ragionamento e, conseguentemente, a livello di comunicazione.
Non sono le tante parole, o la retorica, che servono a fare chiarezza, bensí la precisione, l’essenzialità, la pertinenza e la consapevolezza del linguaggio che si sta usando, che permettono di raggiungere un alto livello di comprensibilità e quindi, se non di immediato consenso, almeno di certezza di comprensione dei messaggi e dei fenomeni. Tutte cose che si possono insegnare, apprendere, applicare con profitto attraverso una buona preparazione alla comunicazione, nelle due forme del saper leggere e del saper applicare.
Poiché, dunque, apparteniamo a una civiltà in cui dominano il linguaggio dell’immagine in generale e quello dei massmedia tecnologici di ultima generazione, in particolare, non si può fare a meno di pensare che una gran parte dei problemi riguardanti la difficoltà di comunicazione tra persona e persona e tra persone e istituzioni, dipende proprio dalla mentalità, dal modo di pensare, che è stato indotto attraverso l’egemonia creata da un ben determinato ambito culturale.
Contro di esso, la logica del linguaggio, usato secondo i criteri di un mondo abituato alla parola parlata o scritta, ha poca speranza di riuscire a ottenere risultati duraturi, anche quando si fa ricorso all’uso della televisione o dei giornali, se chi vi fa ricorso non è preparato a neutralizzare gli aspetti negativi del medium e non è consapevole di avere in mano un’arma ambivalente che può produrre, a seconda di come la si usa, la distruzione della personalità o la educazione alla libertà.
Non è dunque il possesso di «potenti mezzi» di comunicazione che può garantire il successo di un adeguato mutamento di costume circa i tanti problemi di disagio, di comportamento, di emergenza educativa e di difficoltà nell’arrivare a comprendere messaggi e fenomeni. Occorre, piuttosto, una preparazione e una coscienza in coloro che sono, per incarico, per funzione e ruolo, per missione religiosa o laica e politica, chiamati al difficile compito di educare, comunicare, dirigere e organizzare. Coloro, insomma, che hanno una qualche responsabilità nei confronti di una qualsiasi comunità, sia essa una famiglia o una azienda, una scuola o una istituzione di potere politico-amministrativo o ancor piú una comunità ecclesiale con una funzione di annuncio, o che devono saper convincere, rispettando la personalità altrui, devono anche poter contare sul raggiungimento dell’obiettivo della propria comunicazione.
Essi non possono affidarsi a messaggi sparsi al vento, sperando che, nella quantità, secondo quanto dice la statistica sociologica, una parte di essi vada a buon frutto. Si tratta di uno spreco di risorse di tutti i tipi, destinato a raccogliere sempre solo una parte infima di quanto si è seminato.
Piuttosto si deve ripartire dall’inculturazione di un progetto «educativo» in senso ampio, in un ambiente sociale ormai plasmato dai media e al quale vanno fornite le informazioni e le chiavi di lettura della realtà. Occorre, allora, saper recuperare il senso e il valore della comunicazione come fatto che sfrutta la grande potenzialità delle nuove tecnologie, senza però subirne i devastanti effetti negativi, che sono rappresentati, tra l’altro, sotto il profilo psico-comportamentale dalla perdita dell’interiorità, dall’incontro superficiale e dalla sostituzione della verità con l’opinione.
Basta riflettere un poco sulla esagerazione e superficialità delle conversazioni causata dall’uso dei cellulari, sulle abitudini e comportamenti indotti da modelli televisivi e da frequentazioni on-line, per capire quanto sia urgente intervenire per invertire la rotta di una società che si frantuma e cozza contro gli scogli di un individualismo esasperato, unito a un conformismo delle idee. Individualismo nella vocazione egoistica e meschina della tendenza al puro consumo e possesso materiale; conformismo nella obbedienza acritica a modelli di comportamento che includono la piú sfrenata irragionevolezza nel non tenere conto della esistenza degli altri e dei loro diritti anche nella semplice vita quotidiana.
Aggressività, intolleranza e violenza vengono scatenate come normali metodi che caratterizzano le manifestazioni di opinione o le rivendicazioni e le trasformano in forme di imposizione e ricatto a tutti i costi. I doveri, al contrario, in tale sistema di rapporti di relazione, non fanno piú parte dell’impegno personale, ma solo di quello preteso dagli altri.
Nessuno ha il coraggio di affermarlo apertamente, ma una società cosí è di fatto un sistema incivile, disgregato ed anarchico e, potenzialmente, preda di un giustizialismo sommario che i grandi media contribuiscono a fomentare con irresponsabilità, favorendo emotività e superficialità a scapito della ragionevolezza. Quando, nei comportamenti individuali e collettivi quotidiani, prevalgono l’astuzia sulla intelligenza, la apparenza sulla realtà, la quantità sulla qualità e la ciarlataneria sul merito e la capacità, significa, purtroppo, che un sistema educativo e comunicativo ha fallito e che tanti devono assumersi le proprie responsabilità, almeno riconoscendo di essersi fatti interpreti di una cultura della confusione anziché della chiarezza.
Di fronte a tale situazione, a quanti non intendono cedere alla sopraffazione di una diffusa ingiustizia culturale e comunicativa, spetta il compito di promuovere una diversa cultura della qualità attraverso una educazione al corretto procedimento di lettura della realtà dei fatti e di traduzione di essa in informazione, insegnamento e comunicazione civile, politica e religiosa.
Per questo occorre, prima di tutto, chiarire a se stessi e agli altri che due sono le premesse da cui non si può prescindere: la de-ideologizzazione del linguaggio e la adozione di una concezione di comunicazione come servizio e sforzo che intende far corrispondere il piú possibile la natura degli eventi con l’essenza delle idee contenute nei segni, che di quegli eventi danno testimonianza.
La de-ideologizzazione del linguaggio è, prima di tutto, un esercizio mentale, che fa giustizia della schematica divisione degli altri in «buoni e cattivi», a partire dalla affermazione che: sono «buoni» quelli che la pensano come me; sono da disprezzare quelli che la pensano diversamente da me».
Chi giudica in questo modo non può che concludere che l’unica comunicazione utile è, per forza, quella che porta gli altri a pensare come me, costi quello costi. È la formula di una nuova e continua guerra tra uomo e uomo, tra gruppo e gruppo, ossia la premessa per un asservimento degli altri. Non sono piú la violenza e la distruzione materiale gli strumenti per ottenere l’obbedienza altrui; è il sottile e spregiudicato uso della comunicazione a creare le condizioni per obbligare, piú che convincere, gli altri a dare il loro consenso e ad ammettere che queste idee sono giuste e vantaggiose o, comunque, che ci si deve arrendere ad esse.
La concezione del servizio e non del potere richiede, invece, una coscienza etica, non solo dei contenuti, ma anche dei modi e dei processi della comunicazione. Essa non può semplicemente essere funzionale a ottenere consenso acritico o sudditanza, ma, nel rispetto della verità e della libertà di adesione, deve portare al convincimento durevole e all’impegno a sostenere e a diffondere ulteriormente una comunicazione rispettosa della realtà, insomma a una testimonianza e non a un inganno o a una schiavitú mentale.
Queste due premesse si devono tradurre in una strategia fatta di ben precisi passi che si apprendono non sulla base dell’uso della tecnica dell’Hardware (che comunque deve esserci), ma piuttosto con un addestramento al discernimento. Il che accade quando i pensieri sono ben ordinati e volti al perfezionamento morale dell’individuo e quando si ha ben chiaro che l’intelletto serve alla riflessione e la volontà serve a controllare e a incanalare i sentimenti e le emozioni. Questa strategia implica che coloro che vogliono essere ascoltati e vogliono vincere una mentalità massmediale e confusa, prima di tutto si assicurino di depurare la propria mentalità dalle scorie della massificazione, per acquistare quella serenità e chiarezza, che sono il punto di partenza per essere creduti. Devono cioè fare una conversione alla ragionevolezza, alla quale aggiungere la competenza in fatto di linguaggi e di metodologia comunicativa.
Ma, se è difficile poter trovare chi ammetta di dover seguire un cammino per conseguire la chiarezza e l’ordine del pensiero, perché è improbabile riconoscere da sé di essere massificati, è assai piú facile dimostrare che la competenza in materia di linguaggi e di comunicazione con l’immagine non è una cosa che si apprende naturalmente con la nascita, anche se, a prima vista, parrebbe il contrario.
Ci troviamo, infatti, in presenza dei linguaggi dell’immagine tecnica, usata massmedialmente, che, oltre all’effetto di occultare il veleno della manipolazione mentale, sotto l’impressione di immediata e facile informazione, hanno la caratteristica di apparire universali e comprensibili senza sforzo, perché riproducenti i contorni delle cose. Paradossalmente, invece, sono complessi e difficili assai piú che si trattasse di una lingua straniera. Anzi, una lingua straniera è piú facile da apprendere del linguaggio dell’immagine, perché ad essa ci si può addestrare solo tramite l’uso della parola, una volta che si sia imparato un po’ di grammatica, un po’ di sintassi e un po’ di lessico.
Al contrario, anche se tutti o quasi possiedono macchine fotografiche e videocamere sofisticate, pochi possiedono una buona tecnica e assai meno sono quelli, padroni del linguaggio, che possono essere sicuri di esprimere correttamente la loro idea e di farsi chiaramente capire in una forma che non è né parlata né scritta. Non basta vedere e fissare su un qualsivoglia supporto ciò che si inquadra, per potere dire di essersi espressi con l’immagine; occorre molto di piú e di piú complesso, perché l’immagine che scaturisce da una macchina nasce rappresentativamente dalle cose, ma espressivamente dalla mente e dalla perfetta organizzazione del pensiero di chi la produce.
I concetti di creatività a buon mercato e di istintività fanno parte di una concezione culturale che si rifiuta di accettare il metodo ragionativo e l’impalcatura concettuale come indispensabili alla comunicazione e pensa che siano sostituibili con l’innata propensione artistica e con la conoscenza tecnica. Qui non si discute l’artisticità, si pone il problema della efficacia e della comprensibilità dei messaggi, in ordine a una capacità di renderli tali e non di una improvvisazione o di una semplice conoscenza delle tecnologie nei loro effetti.
Se, dunque, si tratta di un linguaggio che va appreso come una difficile lingua straniera, allora anch’esso possiede criteri e forme di significazione che vanno padroneggiate a fondo e non solo per quello che riguarda la semplice nomenclatura (inquadratura, scena, sequenza, piano sequenza, flash back, zoom, campi, piani, carrellata, panoramica e chi piú ne ha, piú ne metta), ma soprattutto per quello che riguarda il modo di tradurre i concetti in immagini, dato che non si tratta semplicemente di far vedere quello che si intende a parole. Non basta rappresentare, si deve anche esprimere e questo dipende dal modo con il quale si filtra la realtà attraverso la macchina, subordinandola al proprio modo di pensare, grazie al linguaggio della tecnologia, che consente questo risultato, impossibile al linguaggio della parola, anche quando la si usa in modo figurato.
Tutto questo, si badi bene, non deve far pensare che compito di coloro che vogliono farsi comprendere è quello di trasformarsi in professionisti nel campo dell’immagine, basterebbe che si affrontasse, sotto il profilo della struttura linguistica che genera mentalità, il grave problema delle comunicazioni inavvertite per imparare a leggere nella sostanza, e non solo in superficie, i tanti messaggi mediatici in modo da arrivare a cogliere la differenza che esiste tra la realtà e la rappresentazione della realtà. Già cosí si potrebbe cominciare a evitare il primo equivoco che induce il pubblico a non interrogarsi sulla rispondenza o meno alla verità di tutto ciò che gli viene offerto in pasto, dato che non basta vedere o riconoscere i contenuti dei messaggi mediatici per essere sicuri di averne compreso il senso, anche quando si sa identificare quello che si vede.
Già l’essere in grado di andare con sicurezza al nocciolo di un messaggio mediatico, potrebbe cominciare a suggerire, a chi vuol muoversi da competente in questo ambito, come impostare la comunicazione, anche solo a parole, nei confronti di coloro che sono massificati.
Non si può piú credere, infatti, che bastino la spontaneità, la autenticità, la passionalità, la capacità retorica del comunicante a intaccare il duro sedimento della forma mentis prodotta dalla cultura di massa. Qualsiasi atteggiamento che non si fondi su una seria preparazione in questa materia sarà limitato a fornire solo un «placebo» psicologico temporaneo, orientato ai sintomi, al posto di una radicale terapia che estirpi il male nelle sue cause.
Se non si prende coscienza che un certo modo di pensare e, in fondo, certe ideologie si sono affermati e si affermano non certo per il contenuto concettuale che sottendono o sottendevano, e nel merito del quale non intendiamo intervenire, non si arriverà a individuare il modo di fare fronte alla massificazione. Tali forme di pensiero si sono affermate come vere ideologie di massa, soprattutto perché sono state tradotte in formule culturali ed espressive di un linguaggio (visivo e non), capace di creare un consenso e una mentalità di massa. Sono stati gli intellettuali che hanno adeguato il linguaggio della astrazione concettuale, (in cui erano cresciuti come classe sociale), a un livello non banale, ma immaginativamente espressivo, che ha fatto nascere una «retorica» nuova rispetto a quella della tradizionale cultura. Si tratta del fatto che quegli intellettuali (ideologi, poeti, registi, uomini di teatro, giornalisti ecc.) hanno saputo individuare il linguaggio alla base di quella mentalità «contornuale», cosí ben studiata da Taddei, che, quando è incanalata su vasta scala nei prodotti massmediali, ingenera sistemi di pensiero indifferenziato e acritico e quindi comportamenti di sicuro consenso.
Ecco allora che, senza una strategia di linguaggio e senza la precisa identificazione dei valori su cui si fonda il concetto di servizio in ambito comunicativo, non è possibile instaurare non solo rapporti di natura religiosa, ma neppure relazioni di tipo civico e amministrativo con i cittadini di una comunità. Non si tratta di fare sopravvivere, di nome, istituzioni e servizi come paravento per un esercizio del potere, ma di rendere ogni realtà gestionale, sia essa politica, produttiva o culturale, uno strumento per un miglioramento materiale e spirituale della qualità della vita.
Ogni istituzione, ogni struttura produttiva o associativa, ogni raggruppamento politico o ecclesiale, la scuola, l’ospedale, la biblioteca, ogni agenzia informativa o formativa vanno identificati nel profondo dei valori che li connotano e che li fanno avvertire come importanti per la vita dei singoli e della comunità.
Una mentalità e una coscienza si conseguono assai piú con un iter educativo di ampio respiro che non con pillole massmediali e per di piú distruttive della coscienza dei valori, a partire da quello della verità. È dunque nel nome della scienza educativa e della ragione «ragionevole» che si può percorrere il territorio della civiltà e del miglioramento con una precisa metodologia della comunicazione, che unisce l’aspetto scientifico a quello del rispetto per l’uomo nella sua natura anche di essere spirituale.
Ecco quindi che, come esigenza di base, si deve avvertire che, oggi, accanto alla formazione della persona secondo criteri di sapere professionale e tecnico, si rende opportuna una ri-costruzione della personalità, che non sia fondata solo sulla attenzione ai puri aspetti della comprensione psicologica, ma anche su quelli volti a irrobustire nell’individuo un’etica che parte dalla capacità di leggere, analizzare e risolvere i problemi reali, in modo civile e onesto e in armonia con la comunità.
Per questo, operare in direzione strategica, significa pensare a una costruzione duratura dei processi formativi, che non possono essere solo occasionali e contingenti nell’assecondare fenomeni di costume e mode culturali, ma che si fondano su criteri validi ben oltre il mutare delle condizioni ambientali e tali da fare da punto di riferimento per diversi settori della vita sociale.
Affinché, dunque, un’operazione formativa si radichi profondamente nel tessuto di una realtà sociale come quella italiana, plasmata da una mentalità superficiale, ma cocciutamente ideologizzata in senso aggressivo e sprezzante, occorre tenere presente che operare in modo strategico vuol dire integrare quel processo di formazione che, tradizionalmente, è costituito da:
con una articolazione di questo tipo:
- Produzione di un costume comportamentale.
Preliminarmente, infatti, occorre essere consapevoli che la realtà sociale, in cui l’intervento formativo / comunicativo dovrà produrre i suoi effetti, è ormai definibile come un «ambiente massmediale», connotato cioè da aspetti di mentalità e di comportamenti prodotti dai mezzi di comunicazione di massa, anche per ciò che riguarda la vita di relazione in genere e la cultura e l’educazione in particolare. Ecco allora perché è necessario addirittura creare le condizioni per comunicare con intento formativo.
«Fare capire i bisogni» vuol dire, allora, che è necessario, non tanto prendere atto di una realtà, ma sforzarsi di far capire a coloro, che piú sopra abbiamo definito come «chiamati al difficile compito di educare, comunicare, dirigere e organizzare», che c’è bisogno di invertire la rotta. Infatti, rispetto all’ormai abituale ma perdente, metodo di rivolgersi al pubblico in termini di ricerca del solo consenso a breve termine, occorre comprendere che, in funzione di un durevole convincimento, quello che veramente conta è creare nell’individuo la consapevolezza nei confronti della comunità. Se si attendesse, infatti, che si manifestasse spontaneamente questa esigenza di formazione, proprio per quel carattere di massificazione raggiunto dalla società a causa dei media, si rischierebbe di non vedere mai sorgere una consapevolezza di questo tipo, in quanto molti non avvertono neppure il bisogno di fare una analisi, che non sia strettamente di carattere tecnico e/o sociologico, quando invece, si ribadisce, il problema è radicalmente etico e di buona organizzazione del pensiero.
Per questo «Dotare di strumenti cognitivi» significa che, nella formazione / comunicazione che tende al consolidamento della personalità, non si deve pretendere di arrivare frettolosamente a una soluzione costrittiva nei confronti dei destinatari di un sistema di pensiero. L’importante è avere cura di fornire ad essi degli strumenti di conoscenza utili e rigorosi, da utilizzare, di volta in volta, nelle varie situazioni in cui l’esistenza richiede discernimento morale e culturale, che li aiuti a leggere a fondo la realtà e a non lasciarsi confondere dalla rappresentazione di essa che i media danno. Solo cosí una buona lettura è destinata inevitabilmente a trasformarsi in buon comportamento.
«Generare una mentalità», dunque, anti-massmediale, contraria alla riduzione del concetto di qualità a quantità e contraria a una visione puramente tecnica della comunicazione, e «Produrre un costume», che renda consapevoli che la cultura della ragionevolezza e della ricerca del senso profondo dei fenomeni sono ormai indispensabili a una società civile, divengono gli obiettivi strategici di una operazione formativa che si dica veramente tale.
Che cosa, dunque, mettere in atto dal punto di vista dei processi essenziali organizzativi del proprio metodo comunicativo, se non:
- Analizzare le esigenze di coloro ai quali intendiamo rivolgerci.
- Analizzare com’è strutturata, sotto il profilo dei punti forti di pensiero la istituzione o la comunità circa la quale desideriamo dare una informazione convincente.
- Istaurare le forme comunicative piú adeguate.
È evidente che, sotto questo profilo, divengono di primaria importanza il ruolo e la competenza di coloro che organizzano e indirizzano la comunicazione. In questa ottica si potrebbero indicare quelli che ancora rappresentano degli ostacoli a uno sviluppo di una comunicazione di qualità e contro i quali, proprio una attenzione, come quella che noi andiamo suggerendo, potrebbe riuscire ad aiutare i messaggi a diventare efficaci e vincenti.
In modo del tutto sintetico ricordiamo che cosa un buon comunicante non dovrebbe mai fare:
- considerare la comunicazione come fatto secondario rispetto ai fattori organizzativi;
- accorgersi dell’importanza della comunicazione solo quando il proprio pubblico mostra disaffezione;
- affidare le sue comunicazioni solo a interventi verbali;
- credere che le manchevolezze della istituzione vadano dissimulate;
- preferire gli interventi di effetto momentaneo al posto della formazione sistematica;
- considerare la comunicazione solo sotto il profilo dell’uso dei mezzi tecnici;
- prendere in considerazione la comunicazione solo nel momento in cui essa contribuisce a «fare immagine».
Pensiamo, ora, che sollecitare la adozione di una mentalità diversa in queste condizioni di massificazione vuol dire soprattutto fare leva sulle istanze del singolo in funzione della sua maturazione individuale. L’autonomia di pensiero lo porterà a conseguenze di positiva testimonianza anche sul piano sociale.
Il punto di partenza, allora, per il comunicante, è quello, di conoscere bene gli aspetti e le aspirazioni che oggi possono rappresentare un valido punto di aggancio per ottenere coinvolgimento e una adesione motivata.
Prima di tutto la globalizzazione e la massificazione hanno portato con sé sensazioni di precarietà esistenziale, di provvisorietà di condizione e di impotenza a dominare le situazioni, che si traducono in una ricerca di senso dell’esistenza e di sicurezza a tutti i livelli. La sicurezza materiale e sociale unita alla sicurezza di lavoro e alla aspirazione a una solidità di rapporti, vengono percepite come indispensabili anche da chi non è mai stato favorevole a concetti di ordine e di stabilità. Accanto a ciò le possibilità di promozione, non tanto in senso di percorso di carriera, bensí piuttosto in senso spirituale, di promozione della propria persona, unite a una ricerca di miglioramento di condizioni, non solo economiche, ma anche di relazioni umane, sono le condizioni che portano a una ricerca individuale, a una tensione di concentrazione e di attività che si traduce in uno sviluppo delle capacità individuali e in una esigenza di dimostrazione delle proprie capacità.
L’individuo, cioè, esprime tutta la sua tensione al miglioramento, quando ciò è inteso nella accezione piú nobile, ricercando una propria promozione, non egoisticamente, bensí potenziando le proprie attitudini e cercando di darne testimonianza, nell’ambito delle situazioni relazionali in cui si trova.
Nel momento in cui un elemento di ogni gruppo e comunità e di ogni processo produttivo materiale o culturale, si rende conto che altri, nelle sue stesse condizioni, producono uno sforzo di ricerca di miglioramento, che, implicitamente, porta a un miglioramento sia personale che sociale, ecco che si affaccia il senso di appartenenza a un insieme umano, che condivide le medesime idee e progetti, che danno la forza di superare la sensazione di limitatezza che connota la azione unicamente individuale.
È solo con un apprendimento a leggere e a valutare correttamente la realtà, che si ottiene quella consapevolezza «professionistica», utile a far superare la improvvisazione o la pura etica del volontariato, di per sé non sufficienti a un cammino di perfezionamento della società.
Solo quando si sia diffuso un costume di buon impianto ragionativo è possibile assistere a una circolazione di idee, che non è semplice diffusione di opinioni, bensí di strumenti concettuali di metodo, che servono a dare la impalcatura di un sistema di atteggiamenti comportamentali sensibili ai valori di cui si avverte tutta l’importanza concreta e non solo la affermazione di principio.
Ecco, allora, che la iniziale motivazione individuale diviene un impegno a progettare e a proseguire in una azione di diffusione dei punti di forza di una nuova mentalità, in cui il riconoscimento di autentici meriti è condizione per creare una gerarchia in cui chi è proteso verso il miglioramento delle proprie conoscenze non lo è a scopo egoistico, ma in modo funzionale e giovevole alla intera comunità.
Sotto il profilo comportamentale, il procedimento e i criteri da seguire rappresentano una sorta di percorso e di impegni che sottolineano un progressivo mutamento rispetto all’abitudinario costume di non progettare la comunicazione in modo logico e affidarsi alla improvvisazione. I passi di tale percorso costituiscono un algoritmo di questo tipo:
1. Conoscere bene la realtà dei fatti e dei fenomeni.
2. Basarsi su dati obiettivi e non su impressioni.
5. Considerare attentamente la psicologia del destinatario.
6. Offrire interventi che siano anche costruttivi e non solo critici.
7. Assumere la responsabilità personale di quanto si afferma.
8. Adottare la tecnologia piú idonea comunicativamente.
9. Controllare di persona e verificare il risultato.
Che cosa significhi poi tutto questo sotto il profilo attuativo, gioverà dirlo per rapidi ma chiarificanti accenni, che mostrino dove risiede la natura vincente degli strumenti concettuali di questa metodologia.
Prima di tutto, i fatti e i fenomeni con cui l’uomo, oggi, entra in contatto per esperienza diretta, sono di gran lunga in numero assai inferiore a quelli che egli viene a conoscere attraverso la comunicazione massmediale. Si rende, pertanto, necessario possedere gli strumenti per leggere correttamente tanto la realtà quanto l’interpretazione di essa data attraverso il filtro deformante di stampa, televisione e internet, imparando a distinguere la valutazione dalla informazione. Per questo diviene indispensabile una vera e propria educazione ai linguaggi della tecnologia, poiché essi tutti hanno come denominatore comune l’immagine tecnica, la quale possiede uno statuto espressivo specifico e una natura semiologica, che la rendono, non sotto il profilo psico-percettivo, bensí sotto quello condizionante della forma mentis, particolarmente difficile da neutralizzare.
Il secondo punto, relativo all’esigenza di fondarsi su dati obiettivi e non su impressioni soggettive, fa ben comprendere che in un processo formativo di mentalità sulla base di una testimonianza rispettosa del vero, gli aspetti non suffragati da riscontri di dati presentati in modo incontestabile non possono essere ammessi perché opinabili.
La formulazione di un solo obiettivo per volta, non è poi solo una esigenza di carattere tecnico, bensí una necessità imprescindibile, perché la natura di ogni atto comunicativo che voglia essere efficace, richiede essenzialità, pertinenza e precisione e non invece quella ridondanza che viene piú volte auspicata proprio in base a una mentalità quantitativistica.
Anche l’identificazione delle priorità diviene un passaggio importante nella progettazione della comunicazione efficace, perché ciò significa che la chiarezza del pensiero si evidenzia anche nella organizzazione dei livelli di importanza e della successione delle parti del messaggio che si predispone.
Quanto al tenere in debito conto la psicologia dei recettori del messaggio, occorre sottolineare che gli aspetti psico-sociologici, sono estremamente importanti, ma vanno collocati nell’algoritmo delle procedure a un ben determinato punto, per poter dar loro il giusto risalto e fare sí che siano veramente giovevoli in tutto il percorso e non possono essere, invece, come troppo spesso accade la motivazione di partenza.
Il punto che concerne l’intervento costruttivo è una esigenza etica e civile che fa della attività comunicativa una condizione esistenziale e di servizio, orientata a un vero e autentico progresso di coscienza e di impegno di chi vuole ottenere un consenso motivato. Questo non vuol dire che debba essere abolita la funzione critica nella comunicazione, ma che, al contrario, nel contesto delle tendenze distruttive, che accompagnano l’individualismo e l’egocentrismo di questa epoca massmediale, vada affermata una linea di condotta che valorizzi le tensioni costruttive a scapito di quelle che esaltano gli aspetti negativi come sostrato di ogni comunicazione.
Ci sembra, infatti, che proprio l’atteggiamento delle critiche esasperate, intriso di quel pessimismo che permea la cultura degli ultimi decenni, sia l’esito scontato di una tendenza che non lavora per la qualità, bensí per lasciare inalterata la realtà, dopo essersi limitata a mostrarne in negativo e strumentalmente le caratteristiche.
Sulla assunzione di responsabilità personale nella analisi dei problemi e nei conseguenti atti comunicativi non pare che ci sia molto da aggiungere, se non che la assunzione di responsabilità è un atto di maturità e di serietà in un momento in cui si tende, invece, a frazionare in modo indistinto le responsabilità all’interno dei gruppi sociali o di lavoro, in modo tale da far apparire le decisioni o le prese di posizione come imputabili non a una ben precisa responsabilità, bensí ad agenti collettivi o ad organismi collegiali che rafforzano sí una concezione democratica esteriore, ma non permettono mai di individuare a chi si debbano determinati esiti o determinate conseguenze di atti deliberativi.
A questo punto la adozione della tecnologia comunicativa piú adeguata all’obiettivo è un fattore importante che contempla anche i problemi di linguaggio che essa comporta per quanto riguarda la traduzione dei concetti di cui è costituito l’obiettivo comunicativo. A ogni tecnologia, infatti corrisponde, soprattutto per quelle che utilizzano l’immagine come segno, una natura di organizzazione dei messaggi che impone di ben conoscere la struttura dei linguaggi e la metodologia della comunicazione. Qualsiasi illusione di risolvere il problema sotto il profilo puramente tecnico è destinata a cadere, tanto per l’uso delle strumentazioni piú semplici quanto per quelle piú moderne come il computer.
Ecco allora che, in questo percorso, si impone la necessità di un controllo e di una verifica personale, che non riguarda tanto gli andamenti tecnici della comunicazione, che devono essere delegati ai cosiddetti esperti, ma piuttosto gli aspetti metodologici o di garanzia di equilibrio e correttezza morale della comunicazione. In sostanza è l’idea che non può essere delegata ai tecnici della comunicazione o a coloro che vi applicherebbero solo una politica di effetto o spettacolarità.
Da ultimo, in questo processo, un continuo perfezionamento dell’esito ottenuto è implicito nel concetto stesso di qualità e di miglioramento. Nessun risultato è mai definitivo e perfetto al punto da non poter essere migliorato. Nella natura stessa dell’operare dell’uomo è insito questo stimolo al perfezionamento. Al livello dei problemi al quale si pone questo discorso della comunicazione di qualità, la sottolineatura del perfezionamento degli esiti è anche un atto di umiltà che si deve ammettere nel procedere della attività umana: ciò che oggi si è raggiunto non è altro che un traguardo limitato di ciò che domani si dovrebbe raggiungere nella direzione del miglioramento del servizio e di coloro che vi operano.
Dunque da una individuale partecipazione a un qualsiasi settore della vita produttiva pubblica scaturisce, per quanto piccolo possa essere l’apporto dato, un contributo che va al di là dei confini ristretti di quel settore e che produce, in seno a un ambiente più vasto, una mentalità che successivamente si traduce in comportamento. Il procedimento è dunque assai complesso e sfocia nella dimensione del miglioramento delle relazioni umane che sono alla base di ogni situazione di convivenza aggregata. Comunicare bene diviene, perciò, un servizio e un impegno che non si esaurisce nel momento stesso dell’atto, ma che continua e rinsalda nei valori ogni comunità viva e civile.
E, se di tutta questa impostazione si è convinti, non resta, ora, che intraprendere la preparazione applicativa secondo quella metodologia così minutamente codificata e sviluppata in mezzo secolo di studi da Taddei, all’interno di quella tradizione di pensiero che possiamo ormai definire di Realismo Comunicativo.
Con acutezza e lungimiranza il Cardinal Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, in occasione del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, tenutosi a Esztergom-Budapest (Ungheria) il 2 ottobre 2008, ha scolpito in modo indelebile il riferimento per quanti nel mondo cattolico vogliono essere capiti come veri annunciatori di valori evangelici.
Tra le tante osservazioni colpiscono quelle che esortano i cristiani a non subire «semplicemente il cambiamento mediatico, ma a interpretarlo alla luce della propria identità spirituale. (…)», perché, «(...) È ormai evidente che per contrastare visioni inadeguate e parziali è necessario infatti interagire in profondità con il sistema della comunicazione. È necessario interloquire con la cultura, cioè con la mentalità plasmata dai media. (...)».
Edav, che da decenni persegue questo obiettivo, si sente confortata e sostenuta dalle parole del Cardinal Bagnasco a continuare sulla strada intrapresa tanti anni fa da Padre Taddei e invita quanti avvertono la drammaticità della attuale situazione di emergenza educativa, denunciata con forza da Benedetto XVI, a sostenere questa voce libera e indipendente. (G.G.)