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Miracolo a Sant'Anna



Regia: Spike Lee
Lettura del film di: Franco Sestini
Edav N: 365 - 2008
Titolo del film: MIRACOLO A SANT'ANNA
Titolo originale: MIRACLE AT ST. ANNA
Cast: regia: Spike Lee – sogg.: James McBride (dal proprio omonimo romanzo “Miracolo a S. Anna” ed. Rizzoli) – scenegg.: James McBride, Francesco Bruni (collaborazione) – fotogr.: Matthew Libatique – mus.: Terence Blanchard – mont.: Barry Alexander Brown – scenogr.: Tonino Zera – arredamento: Christina Onori – cost.: Carlo Poggioli – effetti: Grady Cofer – interpr.: Derek Luke (Sergente Aubrey Stamps), Michael Ealy (Sergente Bishop Cummings), Laz Alonso (Caporale Hector Negron), Omar Benson Miller (Soldato Sam Train), Pierfrancesco Favino (Peppi Grotta), Valentina Cervi (Renata), Matteo Sciabordi (Angelo bambino), John Turturro (Detective Antonio “Tony” Ricci), Joseph Gordon-Levitt (Tim Boyle), John Leguizamo (Enrico), Luigi Lo Cascio (Angelo da grande), D.B. Sweeney (Colonnello Driscoll), Robert John Burke (Generale Ned Almond), Omari Hardwick (Comandante di plotone Huggs), Omero Antonutti (Ludovico), Sergio Albelli (Rodolfo), Lydia Biondi (Natalina), Malcolm Goodwin (Higgins), Alexandra Maria Lara (Axis Sally), Jan Pohl (Hans Brundt), Christian Berkel (Capitano Eichholz), Waldemar Kobus (Colonnello Pflueger), Ralph Palka (Sottotenente Claussen), Kerry Washington (Zana Wilder), Massimo De Santis (Don Innocenzo Lazzeri), Michele De Virgilio (Paolo), Giovanni Zigliotto (Italo), Leonardo Borzonasca (Arturo), Livia Taruffi (Anna) – durata: 144’ – colore – produz.: Roberto Cicutto e Luigi Musini per On My Own, Spike Lee Per Buffalo Soldiers In Italy, in collaborazione con Rai Cinema, Touchstone Pictures, Tf1 International, in associazione con Mediateca Regionale Toscana-Film Commission – origine: ITALIA / USA, 2008 – locations: Alta Versilia, Garfagnana, Roma – film riconosciuto di interesse culturale nazionale dal Ministero per i Beni e le Attivita’ Culturali – distribuz.: 01 Distribution (03-10-2008)
Sceneggiatura: James McBride, Francesco Bruni (collaborazione)
Nazione: ITALIA, USA
Anno: 2008

All’inizio del film una scritta avverte gli spettatori che i fatti narrati sono frutto della fantasia del regista e di James Mcbride, autore dell’omonimo romanzo e della sceneggiatura, e che la verità e le responsabilità per quanto accaduto – l’eccidio nazista del 12 agosto 1944 a Sant’anna di Stazzema in cui furono trucidati 560 civili – sono state accertate.

È la storia di Hector, un soldato di colore della Divisione «Buffalo», impegnata sul fronte italiano durante l’ultima guerra; lo incontriamo circa quaranta anni dopo la fine della guerra – siamo nel 1983 – e l’uomo è uno spento impiegato delle Poste, incaricato di vendere i francobolli, quando gli si presenta allo sportello un uomo bianco che gli chiede, appunto, un francobollo: Hector, dopo averlo ben osservato, estrae una Luger (vedremo dopo come ne è entrato in possesso) e lo uccide. Insieme alla Polizia che interviene in forze, si presenta nell’edificio delle Poste anche un giovane cronista che ottiene il permesso dal commissario (uno stralunato John Turturro) di seguire i suoi uomini nella casa dell’omicida e, successivamente, di recarsi in prigione per parlare con l’uomo.

In casa di Hector viene scoperta la testa di una statua (anch’essa vedremo dopo come interviene nella vicenda) che è quella che si trovava su un ponte di Firenze prima che venisse fatto saltare dai tedeschi; il giovane chiede spiegazioni a Hector sia sulla statua che sulle motivazioni che hanno animato la sua mano: la risposta è «ho visto l’uomo che dorme».

E da questa frase, al momento senza significato per noi, parte la ricostruzione della vicenda che vede impegnata la divisione sul fronte degli Appennini, ed esattamente all’attraversamento del fiume Serchio in territorio toscano: Hector con altri tre soldati di colore si ritrova dalla parte del fiume occupata dal nemico e chiede al comando di cannoneggiare la zona in modo che i soldati possano avanzare; l’ufficiale comandante – ovviamente un bianco – non crede che «quei negri» abbiano potuto spingersi cosí tanto avanti e rifiuta di eseguire la manovra e cosí i quattro soldati si ritrovano tagliati fuori e impegnati a ricercare una via di scampo.

Trovano un bambino, Angelo, chiaramente traumatizzato da qualcosa che gli impedisce di parlare: il ragazzo rimane sotto le macerie di una baracca e sarà uno di loro, Train, un negro enorme che usando la propria forza riuscirà a salvarlo: «sei il gigante di cioccolata» gli dice Angelo come ringraziamento; il colossale soldato si porta dietro una testa di pietra – che è quella che ritroviamo in casa dell’omicida – che, per lui, ha poteri taumaturgici: rende le persone invisibili e dà loro una forza sovrumana. Il gruppo dei militari con il bambino si incammina verso un piccolo borgo dove incontrano Renata, una giovane sposa che ha il marito in guerra e si trova attratta sessualmente dalla virilità dei negri e Ludovico, un fascista che tiene in camera il ritratto di Mussolini, ma al momento appare abbastanza incerto sulla sua credenza.

Il problema che si pone ai quattro soldati (oltre al ragazzo che non lascia di un metro il «gigante di cioccolata») è quello di cercare di rientrare alla base, ma dal loro comando è vano attendersi il minimo aiuto; nel frattempo compaiono in paese due partigiani che sono alla ricerca di un tedesco per catturarlo e farlo parlare: lo stesso obiettivo è affidato dal comandante ai quattro soldati americani che debbono cercare un tedesco che possa essere interrogato a proposito della ventilata controffensiva tedesca sulla linea gotica.

L’obiettivo comune unisce – sia pure senza la minima simpatia reciproca – i partigiani e gli americani ed è a questo punto che viene fuori la narrazione della strage di Stazzema che sarebbe avvenuta a seguito di un tradimento di uno dei capi partigiani; l’altro capo – dal nome «Farfalla» ha la sensazione che qualcosa di poco chiaro sia avvenuto e quando interroga il commilitone e lo mette alle strette, viene ucciso dal «traditore».

Intanto gli americani vengono in contatto con i tedeschi e al primo scontro riescono a sfuggire, ma si rendono conto di essere circondati; raggiunti dal comandante della propria compagnia – un «bianco» assai razzista ed antipatico – non vengono aiutati a rientrare alla base e vengono praticamente abbandonati a loro stessi, anche perché i soldati non sono riusciti a consegnare al comandante un tedesco vivo; è a questo punto che scopriamo il significato della frase di Hector «ho visto l’uomo che dorme»: si narra, in una leggenda locale, che un giovane amante rifiutato dall’amata, si sia addormentato su una montagna per proteggerla ed infatti il profilo dei monti che circondano il villaggio ricorda il volto di un uomo addormentato: sarà lo stesso profilo che Hector vede quando «il gigante di cioccolata» alza di peso con fare minaccioso un soldato bianco che vuole strappargli di dosso il piccolo Angelo.

Ed arriviamo cosí al combattimento finale dei quattro soldati contro un nugolo di tedeschi: tra gli americani si salva soltanto Hector che, sia pure ferito, si difende strenuamente e rimane l’unico che tiene testa ai tedeschi; quando anche lui sta per soccombere, il comandante delle truppe tedesche, che già in precedenza aveva mostrato di possedere grande umanità e di ritenere la guerra finita, ordina ai suoi soldati di ritirarsi e quindi salva Hector, al quale per giunta regala la propria Luger (quella che verrà utilizzata per l’omicidio) dicendogli «soldato, difenditi!».

Il bambino appare morto, ma viene raggiunto da un altro ragazzo – morto anch’esso, in occasione della strage di Stazzema – che lo invita ad alzarsi ed a seguirlo (novello miracolo di Lazzaro) e cosí infatti avviene, Angelo si alza e se ne andrà con l’amico che, peraltro, fatti pochi passi scompare, forse ritornando al proprio mondo.

Finisce cosí l’episodio che si svolge quaranta anni prima e torniamo al 1983: anzitutto scopriamo che il cliente bianco al quale Hector ha sparato a bruciapelo è l’ufficiale della propria compagnia che si era rifiutato a suo tempo di cannoneggiare le posizioni nemiche e che poi lascierà i quattro militari di colore in balia delle truppe naziste.

Dopo alcuni mesi dall’evento delittuoso, siamo in Tribunale, dove una misteriosa avvocatessa che vediamo essere una sorta di principe del foro, dichiara al giudice di accettare la cauzione di due milioni di dollari e si porta via Hector, il quale è atteso da un signore che lo conduce in riva al mare, dove ritrova il benefattore del proprio processo, colui cioè che ha ingaggiato la difesa ed ha sborsato i soldi per la cauzione: è Angelo che, dopo essere stato «miracolato» dall’amico morto, ha fatto una enorme fortuna nel campo degli antifurti e della sicurezza, fedele comunque allo slogan che l’unica difesa «sicura» è il miracolo che avverrà sempre e comunque..

Mi rendo conto da solo che la narrazione della vicenda appare sconclusionata, ma dipende dal fatto che essa è particolarmente complessa in quanto è percorsa da ben quattro filoni narrativi, ognuno dei quali avanza speditamente senza tenere conto degli altri e solo episodicamente va ad incrociarsi con gli altri; ed allora vediamoli singolarmente questi filoni narrativi: il primo riguarda l’importanza del colore della pelle anche in caso di guerra: molte volte sentiamo i soldati di colore affermare categoricamente che quella è una guerra dei bianchi e che loro non c’entrano niente; ma c’è di piú, c’è l’alterigia e il disprezzo con cui i bianchi – cioè gli ufficiali – trattano la massa negra, la quale sente il perpetuarsi delle stesse relazioni discriminatorie che vive in patria. Non dimentichiamo che il film inizia con una sorta di gesto che – solo dopo aver visto l’intero film – arriviamo a considerare un’opera di «giustizia», in quanto viene fatto pagare all’altezzoso ufficiale bianco il proprio comportamento razzista nonché tutte le malefatte combinate in guerra contro Hector e gli altri compagni negri che sono morti sul campo di battaglia.

C’è poi il secondo filone quello dei partigiani, piccolo e mal gestito: in particolare il film mostra i due «capi», completamente antitetici l’uno con l’altro, per cui abbiamo «La farfalla» idealista e autore di un dialogo nel quale si chiede – per la prima volta, credo, nel campo cinematografico – quale differenza c’è tra noi (i partigiani) e loro (i nazisti ed i fascisti) davanti a Dio; di contro a lui il regista ci presenta il traditore, colui che vende la popolazione di Stazzema ai tedeschi, al comando di uno schizofrenico comandante che non esita a ordinare la strage, anche se, dopo averla eseguita, cerca di uccidere anche il partigiano traditore, senza per la verità riuscirci. In questo blocco è bene ricordare che la descrizione dei nazisti è come deve essere: imbevuti di falsi ideali, assetati di sangue e fedeli agli ordini ricevuti; tutti ad esclusione dell’ufficiale che salva Hector e gli regala la sua pistola.

Questo terzo filone si innesta con l’altro che chiameremo del miracolo: l’autore di queste strane cose è Angelo, il bambino che sembra morto e invece non lo è: lo incontriamo che non parla e si affeziona soltanto al «gigante di cioccolata», ma poi, nel prosieguo della narrazione, scopriamo che il motivo di questo blocco mentale che gli inibisce la parola è in diretta correlazione con la strage di Stazzema: il bambino è presente, vede e sente il partigiano che parlotta con il comandante tedesco e, scoperto dai due, riesce a stento a scappare invano inseguito da una gragnola di pallottole.

Parlo di miracolo perché cosí viene strutturata la sua presenza dall’autore: all’inizio si salva da un bombardamento e sembra morto, finché Il Gigante non lo libera dalle macerie; successivamente – proseguendo nel suo mutismo o quasi – affronta i vari pericoli che gli si prospettano e non viene mai scalfito, fino a quando, nella battaglia finale, viene colpito ripetutamente dalle pallottole tedesche; è chiaramente morto, e inoltre è rimasto solo in quanto l’amico gigante è anch’esso morto; sarà un misterioso amico, Arturo, un ragazzino come lui che è anch’esso morto ma che gli appare ogni tanto, a spronarlo a uscire dalla fase della morte ed a tornare a casa: il tutto detto con la naturalezza che si potrebbe usare per raccomandare di non far tardi a scuola.

Non dimentichiamo che il bambino miracolato è il multimiliardario che si propone di difendere Hector in Tribunale dall’accusa di omicidio e che paga la cospicua cauzione. 

Nel filone del miracolo ci dobbiamo incastrare anche Train, il gigante di cioccolata, sia per le sue credenze circa i poteri della testa di pietra e sia per il movimento che – attraverso una posizione resa splendidamente dall’immagine cinematografica – riesce a rendere l’idea della simbiosi tra la montagna e le leggende che vi sono legate (l’uomo che dorme); e comunque il rapporto tra i due – Train e Angelo – è talmente stretto da porli in stretta correlazione anche sul piano miracolistico.

A proposito di Angelo e della costruzione del suo personaggio, nessuno mi toglie dalla testa che l’autore – grande amico di Roberto Benigni – si sia ispirato al bambino di La vita è bella: a ben guardare alcune caratteristiche sono molto simili, soprattutto quell’alone di misteriosa osservazione di quanto succede attorno a loro quasi senza esserne scalfito.

C’è poi un quarto filone, piú sfumato, piú un ambito narrativo che permea gran parte della vicenda, ed è quello dei rapporti degli italiani con i soldati americani di colore: a parte i due partigiani di cui ho già detto, altri due personaggi italiani interagiscono con la truppa: Renata, una bella ragazza che alla fine si darà ad un soldato negro, forse per annegare in questo modo la disperazione per l’assenza del marito ed i patimenti propri della guerra e Ludovico, uno strano personaggio che sembra essere un sostenitore del fascismo (ha in camera la foto di Mussolini) ma nel contesto della narrazione non compie nessun atto in tal senso. Di questi personaggi, uno dei quattro soldati di colore, dirà che sono gli unici che li trattano come esseri umani, molto meglio di come li considerano in patria, eppure sono dei soldati invasori.

E adesso vediamo se è possibile tirare qualche somma: sarebbe stato bello che i quattro filoni narrativi fossero confluiti in una idea tematica, ma dobbiamo anche convenire che l’impresa sarebbe stata probabilmente non alla portata di Spike Lee e cosí dobbiamo accontentarci di alcune idee parziali, la prima e forse la piú importante è il grido disperato contro il razzismo imperante nell’esercito americano di allora, visto però come emblema del microcosmo attuale e quindi come concetto decisamente universalizzato: i negri non sono ancora riusciti ad uscire dal ghetto dell’emarginazione, anche se ci stanno provando; l’affermazione che in Italia la vita per loro soldati di colore è decisamente migliore che in patria, non può farci altro che piacere. Ma tutto finisce lí, in una banale affermazione che tutti conoscono e quindi diventa pleonastica.

Se poi prendiamo il filone dei partigiani che tante polemiche – ingiustificate – ha avuto qui da noi, anche in questo caso siamo alla Fiera della banalità: l’episodio è narrato soprattutto in funzione della crudeltà dei nazisti e del trauma che influirà sul futuro di Angelo; poi si ha anche la presenza di due personaggi, uno che rappresenta il partigiano «buono ed idealista» e l’altro che incarna invece «il traditore e la carogna»: voglio sperare che nessuno potesse presentare l’esercito dei partigiani come una compagine di eroi senza macchia e senza paura; anche tra loro ci sarà stata la mela buona e quella bacata, come in tutto il resto dell’umanità; forse sbaglia chi non vuole accettare questa logica ineluttabile.

Vista l’impossibilità di procedere all’identificazione di un’idea tematica, limitiamoci a dare alcuni giudizi circa la cinematograficità dell’opera: non possiamo negare che Spike Lee sa fare cinema, sa dare ritmo ed efficacia alla narrazione; sa utilizzare gli attori: il bambino, Matteo Sciabordi è semplicemente eccezionale, ma anche gli altri attori italiani impegnati nel cast, da Favino nei panni del partigiano idealista a Valentina Cervi in quelli di Renata e Omero Antonutti in quelli di Ludovico, danno una splendida conferma delle loro possibilità espressive; per gli attori di colore, magnifico Omar Benson Miller nel ruolo di Train, il «gigante di cioccolata» al quale conferisce grande umanità e Laz Alonso nei panni del protagonista, quell’Hector che l’autore ci presenta da giovane e da vecchio: in entrambe le versioni una prova assai riuscita.

Spike Lee ha forse fatto del suo meglio con la sceneggiatura che si è ritrovato, ma alcune cose se le poteva risparmiare, in particolare quel finale su una spiaggia incontaminata tra Hector e Angelo: non ha la minima dose di credibilità e fa soltanto sorridere lo spettatore. (Franco Sestini)

 


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