La verità della comunicazione e la verità nella comunicazione
di OLINTO BRUGNOLI
Edav N: 359 - 2008
La concezione occidentale della verità proviene da due diverse radici: la tradizione greca e quella biblica.
Pensiero greco (e scolastico).
Senza pretendere di sintetizzare tutto il vasto repertorio concettuale che il mondo greco ha elaborato a proposito della verità, si possono sottolineare alcuni punti fondamentali:
• Innanzitutto la verità (Alêtheia) esprime «un rapporto, un confronto, una conformità di pensiero o parola con fatto o realtà o essere».1
• Il genio greco, eminentemente speculativo, crea cosí la filosofia come scienza della verità, della verità suprema, in cui diviene intelligibile e persuasiva ogni altra verità.
• La definizione di verità, ancora in uso ai nostri giorni, risale ad Aristotele e a Tommaso D’Aquino; deriva quindi, dalla mentalità greco-scolastica: la verità è conformità tra oggetto e ragione («Adaequatio rei et intellectus» la definisce San Tommaso sia nel De veritate, sia nella Somma teologica).
• Questa definizione di verità può essere intesa in due modi. Può indicare la conformità di un oggetto col concetto che ne definisce l’essenza (è la cosiddetta verità oggettiva o materiale od ontologica); oppure può indicare la conformità di un’affermazione con l’oggetto indicato (in questo caso si tratta di verità logica).
• Nella Scolastica si parla poi, per quanto riguarda il linguaggio, di verità morale, per indicare la corrispondenza del linguaggio al pensiero (veridicità).
Tutti questi significati di verità sono stati approfonditi ed applicati da P. Taddei in modo originale e rigoroso al processo comunicativo, ed in particolare a quello informativo. Pertanto tutte queste verità possono essere considerate come condizioni imprescindibili per una verità della comunicazione.
Nel messaggio per la giornata delle comunicazioni sociali di quest’anno, Benedetto XVI parla però anche di un’altra verità («la verità sull’uomo») ed afferma che «la verità che ci rende liberi è Cristo, perché solo Lui può rispondere pienamente alla sete di vita e di amore che è nel cuore dell’uomo». Questa verità, di cui «l’uomo ha sete», in quanto può essere veicolata dai mezzi di comunicazione sociale, può essere chiamata la verità nella comunicazione e si rifà ad una concezione piú tipicamente biblica.
Concezione biblica.
Nell’Antico Testamento il termine ebraico per verità è ‘emet, derivato dalla stessa radice ‘dman, da cui deriva l’equivalente ebraico di fede, ’emunah.2
Secondo la concezione veterotestamentaria la verità non è qualcosa di astratto, è un avvenimento contingente. Quindi la verità non può essere solo conosciuta, detta, udita, ma deve essere messa in atto, deve compiersi. L’AT non conosce la tipica domanda greca, legata alla teoria della conoscenza: cos’è la verità? Piuttosto ci si chiede quale affidamento dia, quale sicurezza dia all’esistenza.
Nel Nuovo Testamento il riferimento alla verità è presente soprattutto nel vangelo di Giovanni (ben 55 citazioni). Giovanni supera sia l’alêtheia greca, intesa come evidente realtà delle cose, sia l’’emet veterotestamentaria, come sicurezza attendibile, ed inaugura un nuovo concetto di verità, che non solo è messo in rapporto all’evento di Cristo, ma si identifica con esso: «La grazia e la verità vennero per mezzo di Gesú Cristo» (v. 17). È chiaro che qui la verità non ha il significato greco di un «qualcosa che esiste da sempre in se stesso», ma quello di una manifestazione divina che avviene attraverso un evento storico. La domanda di Pilato: «Che cos’è la verità?» (18, 38) è legata ad una concezione greca di verità, considerata come un «qualcosa» di oggettivo. Ma Pilato non si rende conto di trovarsi di fronte alla verità in persona.
Ma perché Gesú può essere considerato come «la verità»? Prima di tutto perché Gesú nella sua predicazione dice la verità (8, 40.45.46; 16, 7). Ma la verità di Dio non si manifesta solo nei discorsi di Gesú, ma anche nelle sue azioni e nel dono della sua vita.
Gesú è quindi «verità» perché perfettamente conforme al volere del Padre. Ma Gesú, in quanto «vero Dio», manifesta Dio all’uomo; in quanto «vero uomo», manifesta l’uomo a se stesso. Pertanto anche l’uomo sarà nella verità nella misura in cui si conforma a Cristo. È significativo che Giovanni parli non solo di «dire» la verità, ma anche di «fare» la verità: «Ma chi fa la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte da Dio» (3, 21). E nel dialogo di Gesú con Nicodemo (3, 3-15) vengono indicate chiaramente le condizioni per «entrare» nella verità: «In verità, in verità ti dico: se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio (...) Non ti meravigliare se ti ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove vada: cosí è di chiunque è nato dallo Spirito».
• vivere la verità significa vivere secondo la logica del regno di Dio, quel regno che Gesú è venuto ad annunciare e ad inaugurare e che è inscindibile dalla sua persona («Il regno di Dio è in mezzo a voi» [Lc 17, 20-21] );
• il regno di Dio è «già» presente, qui, adesso, ma «non è ancora» pienamente compiuto; va quindi costruito nella storia, anche se avrà il suo pieno compimento oltre la storia;
• il frutto del regno di Dio, che nella pasqua di Cristo conosce il suo punto culminante, anche se non definitivo, è il dono dello Spirito Santo, che «guiderà alla verità tutta intera»;
• i segni del regno di Dio sono presenti dappertutto (nessun esclusivismo, dunque!) perché lo Spirito «soffia dove vuole» e perché Dio vuole che tutti gli uomini si salvino: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10, 34-35).