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Dalla conoscenza al segno e le tre verità: logica, morale, ontologica


di NAZARENO TADDEI
Edav N: 359 - 2008

Tratto da «Papa Wojtyla e la “nuova” cultura massmediale», ed. Edav, pp. 48-53

                     
LA CONOSCENZA
La CONOSCENZA può essere:

a) per esperienza diretta: quella che abbiamo nel contatto con le cose (fig. 15: la conoscenza sensitiva [filo azzurro, sopra], diventa conoscenza intellettiva [filo rosso, sotto]);

b) per comunicazione: quella che abbiamo delle cose attraverso «segni» che ce ne parlano o ce le mostrano. Nel mondo della comunicazione di massa, praticamente tutto ci viene fatto conoscere per comunicazione.

Per comunicazione, conosciamo ciò di cui il segno è veicolo, cioè l’idea del suo autore e quello che egli vi ha espresso e ci ha voluto comunicare (Tatto capisce che Titti gli dice di quel quadro e di quel fiore, ma non sa come sia fatto il quadro e di che tipo di rosso sia quel fiore, fig. 15).

La Conoscenza è «possesso mentale»: la mente (capacità conoscitiva) entra in possesso, non fisico, bensí conoscitivo (cioè mentale, spirituale) della cosa conosciuta (fig 16). Avviene in due fasi:

1ª) quella dei nostri sensi (conoscenza sensitiva: linea blu). Entriamo in contatto con la concreta realtà (cioè con i contorni) delle cose, compresi i segni (p.e. immagini). I nostri sensi operano tutti contemporaneamente; ma, a seconda della natura della cosa conosciuta e anche a seconda della nostra esistenzialità di conoscenti, noi ci fermiamo particolarmente sull’uno o sull’altro aspetto della cosa che stiamo conoscendo.

Si dice di uno che «ha spirito d’osservazione», proprio quando si tratta di uno che sa cogliere contemporaneamente un gran numero di aspetti della cosa che gli sta dinanzi.

2ª) quella dell'intelligenza (conoscenza intellettiva, linea rossa). Con l'intelligenza, arriviamo alla quiddità. In altre parole, noi «IDENTIFICHIAMO CONCETTUALMENTE» la cosa (oggetto, azione, situazione) sotto l'aspetto che ci colpisce di piú in quel momento (fig. 17); e ce ne formiamo il «CONCETTO», vale a dire l'astrazione di quella realtà («Bel quadro»). Il concetto (p.e. «quadro bello») può essere applicato a tutte le realtà di quel certo genere o specie («quadro»), comunque esse siano (purché «bello», cioè che piace già lí per lí) e si presentino nel tempo e nello spazio: «un quadro (= tela dipinta) in certo modo (bello) e incorniciato».

«Identificare» vuol dire «fare idem, fare eguale»: con l'«identificazione concettuale», noi «facciamo idem» la nostra mente alla cosa a uno o piú dei suoi livelli di quiddità o di conoscibilità (v. la verità logica).

Però noi — sia pur con minor attenzione — stiamo conoscendo anche tutti gli altri aspetti della cosa. Orbene, il contesto di tutte queste conoscenze (p.e. bel quadro, incornicato in quel modo, appeso in quel luogo a quell'altezza, con quella certa luce, in un certo ambiente, ecc.) è l'«IDEA» che noi abbiamo di quel quadro, in cui ovviamente alcune conoscenze sono piú in primo piano e altre sono piú sullo sfondo.

L'«idea» pertanto si differenzia dal «concetto», perché è piú complessa, piú esistenziale, piú ricca; mentre il concetto è la cristallizzazione (pur importantissima e basilare) di una nostra conoscenza.

Ma la nostra operazione conoscitiva non si ferma qui.

Confrontando tra loro due o piú aspetti di una certa cosa, oppure confrontandoli con altre conoscenze che abbiamo, noi formuliamo un «giudizio», il quale di fatto è acquisizione di una nuova conoscenza. Confrontando, p.e., quel quadro con la sua qualità pittorica (secondo il nostro gusto e in quel contesto visivo), esprimiamo il seguente giudizio: «Questo quadro è bello»; cosí come, confrontando il concetto di «Piero» con quello di «bontà umana», diciamo che «Piero è un buon uomo».

Mettendo poi a raffronto due o piú «giudizi» tra loro, noi effettuiamo un ragionamento o «raziocinio» (o «SILLO­GI­SMO») (fig. 18), che ci porta a qualche «CONCLUSIONE», che è pure una nuova conoscenza. P.e. «Sono arrivate le rondini. Ma le rondini arrivano in primavera. Quindi vuol dire che siamo in PRIMAVERA.»

DALLA CONOSCENZA AL SEGNO E LE TRE VERITÀ

Ma per divenire da conoscente a comunicante, il comunicante deve passare attraverso tre distinte fasi all’interno della sua mente e una operazione all’esterno della propria mente, cioè l’effettiva realizzazione del segno.

Ed è a questo punto che interviene il discorso delle tre verità.

Infatti, è detto «verità» il rapporto tra soggetto e oggetto nelle varie fasi del passaggio tra la conoscenza e l’e­spressione; e la verità è l’ade­gua­zio­ne tra la mente della persona che co­nosce e/o esprime e la cosa conosciuta o espressa (a un certo livello di quiddità).

Ci sono cosí tre tipi di verità, cosí come tre (+ uno) sono i momenti del passaggio tra la conoscenza e l’espressione (fig. 19).

Le tre FASI INTERIORI di questo passaggio sono:

a) l'idea della cosa conosciuta

È la conoscenza (concetto o idea, giudizio, raziocinio) dell’oggetto, azione, situazione, con cui la persona conoscente è entrata in contatto conosci­tivo.

LA VERITÀ LOGICA (fig. 20) è l’adeguazione tra la mente che conosce e la realtà conosciuta, a qualcuno dei suoi livelli di quiddità o di conoscibilità. È quindi la qualità che fa autentica la conoscenza, nel suo contatto con la realtà.

Il contrario della verità logica è l’errore (non propriamente la falsità);
b) l'idea della cosa da dire

 b)È la scelta dell’aspetto o parte di quella cosa, che tale per­sona vuol comunicare agli altri.

Questa scelta può essere libera od obbligata: è LIBERA, quando lo scegliere di comuni­care un aspetto o un dettaglio piuttosto che un altro dipende esclusivamente dalla volontà del Comunicante; è OBBLIGATA, quando tale scelta è determinata da qualche fattore in­terno o esterno: interno, p.e. l’impossibilità di esprimere tutto il contenuto mentale che si ha (come si fa, p.e., a descrivere esattamente anche solo il colore di un tavolo, con la sensazione psicologica che ci suscita? bisogna accontentarsi di dire p.e. «E’ un colore bruno scuro, che mi piace poco!»); esterno, p.e. l’indirizzo ideologico del giornale per un giornalista.

 LA VERITÀ MORALE (fig. 21)è l’adeguazione tra quello che uno ha conosciuto e quello che in­tende dire di ciò che ha conosciuto. Questo tipo di verità si estende anche all’idea del segno e alla sua realizzazione.
 Il contrario della verità morale (fig.21) è la menzogna o bugia.

C’è anche una «bugia semiolo­gica», tipica dell’immagine tecnica. La «semiologica» si distingue dalla bugia «normale» (ch’è quella comu­nemente intesa) perché questa dice bugie servendosi di segni «falsi», men­tre la bugia semio­logi­ca dice bugie servendosi di segni «ve­ri», ma strutturandoli in modo che dicano cose false. Esempio di bugia semiologica nelle due foto seguenti: Il «cosa» è la scalinata con due sponde e lampioni; il «come» nella foto di sx si vedono i quattro lampioni; nella foto di dx se ne vedono solo due perchè a dx in alto è coperto da quello in basso a sx e quello di dx in basso non è stato ripreso; il «perchè»: l'intento di fingere.

 
 
c) l'idea del Segno

È la scelta del segno da usare per esprimere quella conoscenza. P.e., dirò «bruno» oppure «marrone»?; «mi piace poco» oppure «non mi entusiasma» oppure «non è di mio gradimento»?

A seconda delle lingue, è possibile di avere o di non avere parole che esprimano bene certi con­cetti. P.e. è difficile trovare una parola italiana che esprima bene la sensazione che si ha mangiando quel certo tipo di mele dure benché mature, succose ma non acquose, non fari­nose e quasi... croccanti. Noi italiani abbiamo mutuato da altre lingue alcune parole (bar, film, sport), perché non avevamo parole che esprimessero bene quei concetti; e per lo stesso motivo, altre lingue hanno preso da noi alcune parole (p.e. «aggiornamento»).

L’idea del segno è ovviamente necessaria anche per i segni-immagine o segni-gesto o segni-musica; insomma per ogni tipo di segno.

LA VERITÀ ONTOLOGICA (fig. 23) è l’ade­guazione tra l’idea della cosa da dire e l’idea del se­gno e lo stesso segno realizzato.

Il contrario della verità ontologica è la falsità (p.e. ottone «vero», oro «falso»; notizia «ve­ra» e notizia «falsa», cioè non corrispondente, come notizia, all’a­de­gua­zio­ne di cono­scenza dell’evento che essa dovrebbe avere).

 

L’OPERAZIONE ESTERNA è la realizzazione del segno.

Il segno può essere prodotto: senza strumenti (parlare, gestire) o con strumenti (scrivere, dipingere, fotografare).

Questi strumenti poi possono essere tali, che per produrre il segno devono essere guidati ma­te­rialmente dal comunicante (scrivere a mano, disegnare, dipingere, ecc.), oppure tali che producono il segno da soli, purché mossi opportunamente (scrivere a macchina, fotografare, usare il computer, ecc.).

LA TESTIMONIANZA

A questo punto, per noi che stiamo trattando della conoscenza «per comunicazione», sorge un grosso problema: se e come il Recettore di una comunicazione può conoscere la «r», cioè l’evento.

 Venendo a conoscere (cosí come possiamo venirli a conoscere) gli eventi attraverso il giornale — e, in genere, attraverso tutti i cosiddetti mezzi d’informazione — noi veniamo a conoscere per comunicazione e non per esperienza diretta gli eventi stessi.

Ciò significa che tra noi e l’evento si erge la fonte dell’informazione, la quale ci è TESTIMONE dell’evento circa cui ci informa.

Se il testimone non è valido, è chiaro che noi non possiamo dire d’aver conosciuto l’e­vento.

Orbene, perché una testimonianza sia valida, è necessario che nel testimone ci sia la tri­plice verità.

Il problema, però, allora si sposta: come fa il Recettore a sapere se nel Comunicante ci sono le tre verità?

Il discorso non è semplice.

Osserviamo:

a) «TESTIMONE» è colui che si interpone tra un recettore e una realtà che gli è sconosciuta, per farla conoscere al recettore. E un testimone è valido, quando ha — com’è evidente — le tre verità. Infatti, non può far conoscere una cosa se non la conosce (verità logica), se non vuol farla conoscere o la vuol far conoscere alterata (verità morale), se non esprime adeguatamente la sua conoscenza e quello che di essa vuol comunicare (verità ontologica).

b) Nella conoscenza per comunicazione, la conoscenza della «r» (evento, oggetto, azione, si­tuazione) non è mai — né può essere — conoscenza «per esperienza diretta» da parte del Recettore. Essa è, e può essere, solo conoscenza attraverso una testimonianza.

c) È però difficile — per non dire praticamente impossibile — sapere quando un testimone possiede la triplice verità. Non c’è un talismano, un marchingegno, che ci dia la certezza della «validità» d’una testimonianza, vale a dire della presenza della triplice verità nel te­stimone. Questo, se stiamo nello stretto ambito semiologico.

d) In campo extrasemiologico, invece, ci possono essere criteri che ci danno certezza (morale e non assoluta, salvo un sigillo divino, come sono stati i miracoli per la testimonianza della divinità di Cristo). P.e. la conosciuta e le riconosciute intelligenza, onestà, prudenza, capacità umane e comunicative, ecc. di un testimone.

e) Si può invece sapere anche quando una testimonianza non è valida; o, quanto meno, dubbia.

 Anche qui, il discorso è piú semplice in teoria che in pratica. Comunque, si può dire quan­to segue:

       • in genere, un testimone (cioè un comunicante) il quale — anche una sola volta — abbia dimostrato di fare comunicazioni carenti dell’uno o dell’altro tipo di verità, ragionevolmente non merita (tanta o poca) fiducia nelle sue comunicazioni successive, quanto meno relativa­mente al tipo di verità in cui s’è dimostrato carente;

       • ci sono situazioni, che mettono in dubbio tutto l’ambito della comunicazione: p.e. lo shock emotivo d’un testimone fa ragionevolmente dubitare quanto meno della sua verità logi­ca e ontologica; il notevole interesse personale di un testimone, non particolarmente ada­mantino in campo morale, può far dubitare appunto della validità morale della sua testi­monianza; ecc.;

       • il segno stesso può indicare la carenza di verità (voluta o meno), attraverso la mancan­za di coerenza interiore. P.e. la mancanza di proprietà di linguaggio in un testo verbale o iconico può far sospettare ragionevolmente carenza di verità ontologica; le incongruenze di una notizia possono far ragionevolmente sospettare mancanze di verità logica o morale; l’assenza di motivazioni o di indizi di prove può rilevare carenza di verità logica o anche morale, in certi contesti.

Si può però segnalare come indice, pressoché indiscutibile, di carenza di verità — soprat­tutto morale — la «bugia semiologica», oggi molto frequente nei mezzi d’informazione.

L’uso della bugia semiologica si scopre da sola, purché la si sappia «leggere» mediante la «lettura strutturale», anche senza conoscenze oggettive dell’evento, data la natura semiolo­gica di questa forma di non-verità. Ed è chiaro che chi ricorre alla bugia semiologica, sia pur per seguire una certa moda, dimostra perlomeno di disattendere l’obiettività e quindi la ve­rità: automa­ti­ca­mente si dimostra — anche quando non vuol mentire — testimone scarsa­mente degno di fiducia;

• soprattutto per i mezzi d’informazione, si può verificare — fino a un certo punto, però — la validità della testimonianza, confrontando una fonte con le altre e tenendo conto, per ciascuna di esse, di quanto detto qui sopra.

A questo punto, si può cogliere che, per poter comunicare, è necessario

a) conoscere ciò di cui si parla;

b) sapere esattamente quello che si vuol dire;

c) tradurre in un segno opportuno quello che si vuol dire. E ciò nelle 2 fasi di:

• formulazione mentale del segno: se si tratta di segno verbale, è necessario conoscere la «convenzione» linguistica della lingua in cui si intende parlare o scrivere;

• realizzazione materiale del segno stesso: uno può avere in mente un bellis­simo disegno o una bellissima musica; ma se non sa dipingere o suonare uno strumento non riuscirà mai a esprimerli. Analogamente, uno può avere grandi cose da dire, ma non sa dirle («non riesce a trovare le parole adatte»); oppure uno che non ha imparato a scrivere può dire a voce quello che vuol dire, ma non riesce a metterlo per iscritto.

Nella nostra metodologia, noi impariamo a soddisfare nel miglior modo possibile a queste esigenze mediante la strategia dell’algoritmo contornuale (v. nota 6). Ma qui ne facciamo solo questo ac­cenno per metterci — per cosí dire — nei panni del comunicante, soprattutto come te­stimone. (Nazareno Taddei SJ)

 

Nota 6: Schema della strategia dell’algoritmo come noi l’intendiamo, con l’aggiunta dell’organigramma espressivo. Legenda: Obiettivo: specificazione precisa del tipo di apprendimento d’una precisa materia (o punto di essa) da parte d’una precisa popolazione; Organigramma Logico: la materia da apprendere, vista nella sua organicità, come materia ma in funzione dell’apprendimento; Organigramma Psicologico: precisa situazione psicologica (temperamento, capacità, quozienti d’intelligenza ecc.) della popolazione destinata a quell’apprendimento; Organigramma Pedagocico: scelta della strategia didattica più idonea a far apprendere quella precisa materia a quella precisa popolazione; Organigramma Espressivo: scelta del linguaggio e degli strumenti espressivi per esporre quella materia a quella popolazione secondo una data strategia; Programma Didattico: struttura su carta (analoga alla scaletta o sceneggiatura di un film), con impostazione cibernetica dell’algoritmo; Realizzazione Tecnica: operazione con cui il Programma didattico si concretizza (p.e. scelta delle diapositive, preparazione del “materiale di contorno”, ecc.) in algoritmo (o lezione, o parte, o gruppo di lezione/i) vero e proprio; Algoritmo: serie concreta delle operazioni che si compiono, secondo il Programma, per raggiungere l’obiettivo. L’idea centrale è l’obiettivo da raggiungere, concepito in termini concettuali; mentre l’algoritmo è lo strumento concreto che attua, in una molteplicità operativa e contornuale, l’espressione di quell’idea. Tale idea è praticamente l’“idea della cosa da dire”, cioè quella parte di “conoscenza della materia” che il docente vuole insegnare (cfr. Nazareno Taddei, Educare con l'immagine, vol 2°, ed. CiSCS, Roma, 1976).

 


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