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Ermanno Olmi, cantore della «relazione»


di OLINTO BRUGNOLI
Edav N: 362 - 2008

Al di là dell’evoluzione sul piano del linguaggio cinematografico, che acquista via via connotazioni sempre piú trasfiguranti in funzione poetica (poesia non solo della «cosa rappresentata», ma proprio della «rappresentazione della cosa»), e al di là delle sottolineature tematiche tipiche di ogni opera, c’è una cifrache permea e segna indelebilmente tutto il cinema di Ermanno Olmi e che rivela una concezione filosofica e teologica ben precisa. È la cifra della relazione. Per Olmi l’uomo è prima di tutto un essere in relazione e dalla relazione dipende l’autenticità (la verità) della sua vita e il giudizio storico (ed escatologico) che su di lui incombe.

Ma quale relazione? Anticipando brevemente quanto si dirà a proposito di centochiodi, l’ultimo film non solo in senso cronologico del maestro bergamasco, che rappresenta un po’ la summa di tutto il suo cinema e quindi la sua eredità spirituale, l’uomo vive sostanzialmente quattro tipi di relazione: la relazione con se stesso, con la natura, con gli altri e con Dio.

Senza pretendere di svolgere un’analisi esaustiva di tutta la sua opera alla luce di questa categoria, si cercherà di esemplificare quanto affermato facendo riferimento ai suoi film piú importanti e significativi.

Già il suo primo lungometraggio, Il tempo si è fermato (1959), pone in primo piano il tema della relazione, raccontando la storia di due uomini (uno anziano, guardiano invernale di una diga in alta montagna, e uno giovane, uno studente chiamato per alcuni giorni a sostituire il secondo guardiano sceso a valle per motivi familiari) costretti a convivere per un certo periodo di tempo. Sono due persone estremamente diverse tra di loro, per età, per situazione sociale e per abitudini mentali e di vita. Sembra impossibile che riescano a «legare», a fare amicizia. Ma poco alla volta, con la complicità di un’immensa solitudine montana e di una natura maestosa, riescono ad avvicinarsi, ad intendersi e ad affiatarsi su un piano di profonda umanità. Segno che la diversità, anziché rappresentare un motivo di divisione o di conflitto, può diventare fattore di integrazione e di arricchimento reciproco.

Senza entrare nel merito della mancanza di unità tematica del film, anche la seconda opera di Olmi, Il posto (1961), continua a parlare di relazione, ponendo in primo piano il mondo del lavoro, all’interno del quale le persone si devono inserire. Il protagonista del film, Domenico, è un ragazzo, figlio di operai, il quale, dopo qualche approccio con gli studi superiori, è costretto, suo malgrado, ad iniziare il difficile contatto con la realtà sociale del lavoro organizzato. Personaggio umile e semplice, Domenico scopre poco alla volta questo ambiente. Riesce anche ad avere una tenera storia – piú di simpatia che di amore – con Antonietta, anche lei in cerca di lavoro, ma poco alla volta gli orari che non si combinano gli impediscono di frequentarla fino a perderla di vista. Ma sarà proprio il contatto col mondo senza respiro degli impiegati e dell’ambiente aziendale che gli farà capire, una volta ottenuto il tanto agognato posto, quanto mortificante e asfittico sia quell’ambiente, proprio per la mancanza di relazioni vere, profonde, spiritualmente appaganti.

Ne I fidanzati (1963), l’autore continua a inserire i suoi personaggi all’interno del mondo del lavoro, ma sempre alla ricerca di un modo autentico di comunicare e di relazionarsi. Giovanni, il protagonista del film, è un operaio milanese che accetta di trasferirsi in Sicilia per motivi di carriera, senza preoccuparsi di lasciare la fidanzata Liliana e il vecchio padre. Ma nel nuovo ambiente trova solo disagi e solitudine che lo spingono a rifugiarsi negli affetti lontani e familiari e a riscoprirne il valore. Ed eccolo raccogliere il discreto invito di una cartolina di Liliana per iniziare da capo un rapporto sentimentale non basato su una consuetudine passivamente accettata, ma sull’esigenza sentita di un profondo scambio affettivo. Particolarmente significative le dichiarazioni del regista: «È un film con il quale ho voluto sottolineare l’importanza di aprirsi nel dialogo, di quanto a volte sia necessario parlare per evitare l’incomprensione, i silenzi che poi finiscono in tragedia. È un film sulla comunicabilità».

In Un certo giorno (1968) la relazione è di tipo interiore; riguarda l’uomo che è costretto a guardarsi dentro, a fare i conti con se stesso, nel tentativo di ritrovare il senso della vita. Il protagonista del film, dirigente di un’azienda pubblicitaria non riesce a vedere al di là del falso orizzonte che egli stesso ha contribuito a creare. Per di piú i suoi rapporti con la moglie e con la figlia sono viziati da una carica di aggressività che rispecchiano il suo comportamento aziendale, e i suoi rapporti extraconiugali sono segnati dall’irresponsabilità e dall’alienazione. Durante un viaggio egli travolge in un incidente mortale un vecchio operaio che stava lavorando sul bordo della strada. L’apparizione fortuita e apparentemente incolpevole della morte lo porta a far esperienza del dubbio, della riflessione e del rimorso. E lo conduce a ripensare la vita e ad entrare in una dimensione nuova, piú amara e dolorosa, ma anche piú vera ed autentica.

L’Albero degli zoccoli ha ottenuto la Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1978.

Il film possiede una struttura ad incastro: i vari nuclei narrativi, che hanno come protagonisti i diversi personaggi, si alternano, si compenetrano fra loro, quasi come tessere di un grandioso mosaico, fino al compimento del quadro d’insieme.

Al regista interessa ricostruire e rievocare la vita di un gruppo di famiglie contadine della bassa bergamasca alla fine dell’Ottocento non con intenti storici o sociologici o politici (anche se questi aspetti non sono del tutto assenti), ma cercando di scoprire e di comprendere l’atteggiamento interiore, le motivazioni profonde, lo spirito di questa gente, i valori che sottostanno al suo comportamento e alla sua vita. Ecco allora: la profonda religiosità; la sacralità della natura; l’amore verso gli altri, corollario dell’amore di Dio, che si traduce in operosa solidarietà, sia nell’ambito familiare, sia nel lavoro comune (le grandi scene corali dell’uccisione del maiale, della semina, della spannocchiatura, della pesatura del grano), ma anche nei confronti degli altri, soprattutto dei piú bisognosi e diseredati; la generosità e l’altruismo. Sono tutte forme di relazione che rendono il mondo meno duro e piú umano e fanno sperare in un futuro migliore.

Il rapporto tra persone può talvolta assumere la forma del potere, che è una forma di relazione oppressiva e disumana. È quanto Olmi tenta di dire (pur non riuscendovi compiutamente) nel film Camminacammina(1983), in cui denuncia il prevaricare dell’istituzione che, secondo lui, «è la morte di qualsiasi sentimento di religiosità e di fede».

Molto piú convincente è invece il discorso in Lunga vita alla signora (Leone d’argento ex-aequo con Maurice a Venezia 1987), un film che ha il carattere dell’apologo. Tutta l’opera è basata sulla contrapposizione strutturale tra il mondo del protagonista, Libenzio, un ragazzo semplice, timido, riservato e il mondo della signora (di cui al titolo) presso il cui castello egli si reca in veste di cameriere in occasione di una cena cui partecipano illustri personalità del mondo politico, economico e culturale. Il mondo della signora è il mondo dei potenti, di coloro che a vario titolo e in varia misura detengono un potere. Ma tale mondo viene soprattutto definito sulla base degli pseudovalori o dei «vizi» che lo connotano: formalismo, esteriorità, crudeltà, corruzione, ecc.. Libenzio, che ha ricevuto un’educazione un po’ rigida e all’antica, ma anche profonda e maturante, si rende gradualmente conto dell’inautenticità di quel mondo che, fino ad un certo punto, è costretto a subire; e arriva ad una decisione irrevocabile: fuggire a tutti i costi, nonostante la paura e i pericoli. La sua fuga è rifiuto e condanna di quel mondo, ma è anche ricerca di qualcosa di piú pulito, piú puro, piú genuino (le montagne e il bosco splendidamente illuminati dalla pura luce del primo mattino). Se il mondo della signora rappresenta il Potere che è male, ma anche il potere del Male che, corrotto, cerca di corrompere, il mondo di Libenzio è, viceversa, il mondo della semplicità, dell’innocenza, della bontà. È il mondo dei valori semplici ma genuini, profondamente umani, interiori, spirituali, anche religiosi. Chi possiede tali valori non può che rifiutare la corruzione e l’inautenticità. E lo può fare facilmente perché tale rifiuto dipende esclusivamente da lui e dalla sua determinazione interiore.

 La leggenda del santo bevitore (1988) è una parabola che chiama in causa non solo la relazione con gli altri, ma anche quella con Dio. Il protagonista del film, un ex minatore di origine polacca che vive clandestinamente in Francia conducendo una vita da barbone e da emarginato, per ben quattro volte riceve un credito (una somma di denaro) da personaggi piú o meno misteriosi, certamente legati ad una dimensione provvidenziale. Per tre volte egli trasforma tale credito in una realtà di vita piú umana, piena, ricca; per tre volte, al momento della restituzione, succede qualcosa che lo porta a spendere la somma predisposta; alla fine la restituzione del credito coincide con la fine della sua vita. Ma in che cosa consiste questo credito? Il credito è qualcosa che viene concesso in modo del tutto gratuito da qualcuno (si noti il contesto provvidenziale-religioso) e che serve a vivere meglio, cioè in modo piú umano. Esso dovrà essere restituito; ma fino a che è dato (e rinnovato in vari modi) può aiutare a vivere in modo pieno e dignitoso. Il credito è dunque una «grazia»; sono le «grazie» di cui la vita è costellata; forse è la «grazia» della vita stessa. Tutto ciò dev’essere restituito con la morte. Ma la morte è tanto piú «lieve e bella» quanto piú è il coronamento di una vita spesa bene, cioè in modo dignitoso e autentico, seppur tra debolezze e lacune. È in questo senso che va intesa la «santità» del bevitore: non santità nel senso canonico, bensí nel senso di piena umanità, che comprende sí carenze e fragilità, ma che resta sostanzialmente aperta agli altri e a Dio.

La relazione con la natura viene posta in primo piano in altre tre opere del maestro bergamasco: Lungo il fiume (1992), Il segreto del bosco vecchio (1993) e Genesi. La creazione e il diluvio (1994).

Il primo è un documentario che si sofferma ad osservare il Po lungo il suo corso e, nel contempo, propone una riflessione filosofico-religiosa. Il fiume scorre maestosamente ricco di vita e di bellezza, ma è minacciato dall’uomo che, con i suoi interventi spesso sconsiderati, rischia di deturpare e di distruggere l’ordine originario. La sacralità della natura, già presente ne L’albero degli zoccoli in virtú della musica di J. S. Bach, ritorna qui non solo grazie al Messia di Haendel, ma anche per l’ardita analogia che l’autore crea tra il fiume e il cammino terreno del figlio di Dio, destinato a tornare in quel grande mare che è il seno del Padre (analogia che ritorna nell’enigmatica prima immagine di centochiodi).

Il secondo, tratto dall’omonimo racconto di Dino Buzzati, racconta la storia di Sebastiano Procolo che, insieme al nipotino Benvenuto, riceve in eredità una casa e alcuni boschi. Una delle condizioni che gli vengono imposte dal testamento consiste nell’impegnarsi a non tagliare il Bosco Vecchio, cui sono legate tradizioni e leggende antiche. Qui emerge il senso panico della natura, misteriosa e affascinante, ma anche l’ottusità di Procolo che non vuole credere ai segnali che gli vengono inviati dal bosco e resta insensibile a quei valori di rispetto per la natura e di intelligenza della natura, condizioni indispensabili per l’uomo per vivere delle relazioni autentiche. C’è solo da sperare che il nipote sia piú sensibile di lui e che faccia tesoro degli insegnamenti che nascono dall’esperienza.

Nel terzo emerge il tema della creaturalità della natura. Tutto dipende dall’origine: le cose, le persone, ogni relazione e situazione. Ecco allora la creazione dell’universo, «buono» agli occhi di Dio. Ma ben presto guastato dal peccato di Adamo ed Eva e da tutti i peccati che segnano la vita dell’umanità: guerre, odio, sopraffazione, disordine, lacerazioni. Ma di tutto questo Dio chiederà conto. Dio mantiene sempre le sue promesse, ma l’uomo deve trovare la strada della riconciliazione e ritornare alla fedeltà di una alleanza.

Ne Il mestiere delle armi (2001) l’autore pone al centro dell’attenzione la parabola umana e spirituale di Joanni de’ Medici, detto Giovanni dalle Bande Nere. La prima parte del film è soprattutto rivolta ad evidenziare il quadro storico e le doti militari di Giovanni; la seconda si sofferma a indagare sul mondo interiore del protagonista e sul suo modo di vivere e di affrontare la morte. Relazione con la storia e con gli altri, dunque, ma anche con se stessi e con Dio. Giovanni viene presentato come un giovane del suo tempo, che fa il suo mestiere (il mestiere delle armi), che resta vittima di un passaggio epocale (l’avvento delle nuove armi) e della disonestà degli uomini (gli intrighi e gli inganni della politica). Ma è soprattutto un uomo che sa affrontare con dignità, profonda umanità e sincera fede il momento piú importante della propria vita: il momento della morte. Il regista lo presenta come un modello: non di santità o di perfezione, bensí di un’umanità fragile e piena di contraddizioni, capace tuttavia di riconoscere i propri limiti e di accettare la morte con dignità, affidandosi alla misericordia di Dio. Un uomo di grande spiritualità, che muore in pace perché è riuscito a riconciliarsi con gli altri (anche quelli che lo avevano tradito), con se stesso (trovando la forza di accettare il limite creaturale) e con Dio (cui si rivolge con la fiducia disarmante di un bambino).

Cantando dietro i paraventi (2003), con linguaggio ellittico e poetico, racconta una storia di pirati e piratasse nella Cina del XVIII secolo. Dalla storia raccontata emergono alcuni spunti tematici. Prima di tutto quello del potere: il potere economico (i pirati sono fuorilegge finanziati dagli «azionisti anonimi» che vanno contro la legge per guadagno); il potere politico e militare (i generali offrono onorificenze ma poi eliminano chi non serve piú). Da qui la reazione e la guerra da parte dei pirati contro «i generali corrotti e gli ingordi azionisti». Ancora una volta, dunque, non sembrano esistere alternative all’odio e alla violenza. Ma nel finale emerge una prospettiva nuova. Già il vecchio e saggio imperatore aveva affermato: «Il senno di chi governa è convertire colui che è ostile in alleato». Ora, il nuovo imperatore, proprio nel momento in cui potrebbe schiacciare la piratessa ribelle, le offre il perdono che porta alla conversione e alla riconciliazione. Quindi alla pace. Il discorso si fa teologico: non si ottiene il perdono perché ci si pente, ma, viceversa, ci si pente perché si è già ottenuto il perdono (la grazia). Le parole finali che raccontano che gli uomini, finalmente in pace, «poterono vendere le loro spade e comprare buoi per arare i campi» sono una chiara allusione a Isaia e a quel Regno di Dio di cui il profeta parla.

Nel primo episodio di Tickets (2005), il protagonista è un anziano professore che, dopo aver partecipato ad un convegno in Germania, fa ritorno in treno a Milano. Il professore sembra essere assorbito completamente dall’impegno professionale e dagli affetti familiari. Ma l’incontro con una donna bella e affascinante lo fa entrare in un’altra dimensione, quella dei sentimenti, del sogno, della fantasia. Il professore si lascia cullare dal sogno, dal suo desiderio di amore e di felicità. Ma improvvisamente prende coscienza della realtà che lo circonda: tensioni, sospetti, allarmismo. Ma soprattutto discriminazione. E quando s’accorge della presenza di una famigliola di immigrati albanesi, che viene tenuta rigorosamente fuori dal vagone ristorante, e vede che un militare sgarbato rovescia il biberon con il latte destinato al bambino piú piccolo nella piú totale indifferenza dei passeggeri, va lui stesso a portare un bicchiere di latte a quel povero bambino. Egli, cioè, abbandona i propri sogni e i ricordi e compie un gesto – piccolo, ma estremamente significativo – di solidarietà e di bontà. Un gesto nobile e sincero a favore degli altri, di chi si trova nel bisogno.

Come s’è già detto, centochiodi (2006) rappresenta la summa di tutto il percorso filosofico-teologico di Ermanno Olmi. Protagonista del film è un giovane professore di filosofia all’Università che sta vivendo una profonda crisi esistenziale e compie un gesto clamoroso ed emblematico: inchioda sul pavimento di legno della Biblioteca storica dell’Università moltissimi libri di grande prestigio e di enorme valore. Il motivo della sua crisi e del conseguente gesto «dimostrativo» dipende da vari fattori:

– la constatazione (tratta da un testo di Karl Jaspers) di vivere in un’epoca di perduta genuinità e la speranza che un gesto di «follia» possa rappresentare la soluzione per la nostra esistenza;

– la presa di coscienza di vivere una vita inautentica, perché «fatta di libri... una vita tutta di carta»;

– la considerazione che i libri, per quanto importanti, rischino di rimanere lettera morta, anzi possano servire ad ingannare;

– il fatto che i libri possano diventare strumenti di potere;

– il pericolo di idolatrare i libri e di considerarli piú importanti delle persone.

Il professore inchioda i libri, ma si arresta di fronte a quello che richiama il Vangelo di Giovanni e parla della necessità di «rinascere a vita nuova».

Ed ecco che il professore decide di cambiare vita, di diventare un uomo nuovo, instaurando nuovi tipi di relazioni: prima di tutto con se stesso, ritrovando la pace interiore e la serenità dell’anima; con la natura, misteriosa, affascinante e amica, che dev’essere rispettata; con gli altri, quelle persone umili e semplici che gli è dato di incontrare, all’insegna della condivisione, della solidarietà, del rispetto e dell’amore; con Dio: la sua connotazione cristologica è evidente e il suo agire è perfettamente conforme a quel Regno di Dio che rappresenta il motivo fondamentale della predicazione di Gesú. Regno di comunione, di armonia, di pace e di riconciliazione. Il tutto alla luce dello Spirito, che «soffia dove vuole» e che conduce alla piena verità, quella escatologica, chiaramente evocata da quel mare rappresentato nella prima immagine del film.

Tre film a sintesi di una carriera.

Queste le schede delle tre pellicole di Ermanno Olmi (due documentari e un film), che saranno presentati al Lido di Venezia nel corso della serata per la consegna al regista bergamasco del «Leone d’oro alla carriera».

 

MANON FINESTRA 2 (1956; durata 13’)

regia: Ermanno Olmi – commento: Pier Paolo Pasolini – voce: Arnoldo Foà – montaggio: Lilli Scarpa, Giampiero Viola – assistente alla regia: Walter Locatelli – direttore di produzione: Ugo Franchini – segretario di produzione: Lamberto Caimi.

Girato nella centrale idroelettrica di Cinego ai piedi dell’Adamello, il film nasce dalla collaborazione tra Olmi e Pasolini che, all’epoca, iniziava ad affermarsi come sceneggiatore collaborando con Soldati, Bolognini e poi Fellini. Nel linguaggio dei minatori, la «finestra» è il foro aperto nel fianco della montagna per scavare le gallerie indispensabili per incanalare l’acqua nella condotta forzata che azionerà le pale delle turbine. Nel seguire la nascita della nuova diga, Olmi fa emergere le durezze e i pericoli del lavoro quotidiano riflessi nei volti e nei gesti dei minatori: «soli, in questa specie di esilio, cosí vicino al cielo, e dal cielo cosí lontano, nelle viscere della montagna».

TRE FILI FINO A MILANO

(1958; durata 15’)

regia: Ermanno Olmi – fotografia: Carlo Bellero – musica: Pier Emilio Bassi.

Per Olmi è l’attenzione per la dimensione umana ad avere il sopravvento. Piú che i pali elettrici che portano energia a Milano, di questo cortometraggio restano impressi i volti degli operai, segnati dalla fatica; il freddo che li avvolge, in un cantiere collocato in montagna, all’inizio dell’inverno; i falò accesi per riscaldarsi; le arrampicate sui tralicci, senza imbracature, privi di qualsiasi mezzo di sicurezza.

IL TEMPO SI È FERMATO (1959; durata 93’)

regia, soggetto e sceneggiatura: Ermanno Olmi – fotografia: Carlo Bellero – montaggio: Carla Colombo – musica: Pier Emilio Bassi (canzoni: King of Rock, Adriano Celentano, Proteggimi, Anita Traversi) – interpreti: Natale Rossi, Roberto Seveso, Paolo Quadrubbi.

Commissionato come documentario dall’azienda Edison Volta per mostrare gli impianti idroelettrici della Val d’Avio, questo film si trasforma progressivamente nel primo lungometraggio a soggetto di Ermanno Olmi. Il film ottenne numerosi riconoscimenti tra cui la Gondola d’oro alla XX Mostra di Venezia nella sezione Mostra Internazionale del Film Documentario.

 


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