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IL POSTO



Regia: Ermanno Olmi
Lettura del film di: Sergio Raffaelli
Edav N: 362 - 2008
Titolo del film: IL POSTO
Cast: Regia e Soggetto: Ermanno Olmi - Sceneggiatura: Ermanno Olmi, Ettore Lombardo - Fotografia: Lamberto Caimi - Musiche: Pier Emilio Bassi (Il tema "Funiculì, Funiculà" è di Luigi Denza) - Montaggio: Carla Colombo - Scenografia: Ettore Lombardi -Interpreti: Sandro Panseri (Domenico Cantoni), Loredana Detto (Antonietta), Tullio Kezich (Esaminatore), Mara Revel (Collega di Domenico), Guido Chiti, Bice Melegari, Corrado Aprile - Anno: 1961 - Durata: 98 min. - Origine: Italia - Colore: B/N - Genere: Drammatico - Produzione: The 24 Horses - Distribuzione: Titanus - Mondadori Video (Il Grande Cinema)
Sceneggiatura: Ermanno Olmi, Ettore Lombardo
Nazione: ITALIA
Anno: 1961
Presentato: 22. Edizione Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia - 1961 - Sezione Informativa - Premio O.C.I.C., Premio DELLA CRITICA E Premio 'CITTA' DI IMOLA' - DAVID DI DONATELLO 1962 PER MIGLIOR REGIA

Riproponiamo di seguito la lettura del film IL POSTO apparsa su Letture del gennaio 1962 a firma S.R. (Sergio Raffaelli), ma in realtà dettata da padre Nazareno Taddei

 

È uno di quei film che confermano l’opinione di quanti sostengono non essere necessarie né fantasmagorie di grandi masse, né storie truci e morbose per intrattenere il pubblico davanti allo schermo senza fargli rimpiangere i denari del biglietto. Il successo che sta incontrando nelle sale italiane è da attribuire non solo ai tre premi ottenuti a Venezia (O.C.I.C.; Premio della Critica; Coppa Città di Imola 1961) e a Londra («Trofeo Sutherland»), o all’abile e legittima pubblicità sul nome del regista Olmi (autore di quel IL TEMPO SI È FERMATO altrettanto coperto di premi dalle piú disparate giurie internazionali quanto poco conosciuto dal grosso pubblico), bensí piuttosto alla partecipazione sentita del pubblico alla quotidianità della vicenda, narrata con tanta semplicità e vivezza di stile. 

È opera facile e piacevole, ma merita un esame alquanto attento, per non essere fuorvianti nel giudizio proprio da questa lineare e gustosa piacevolezza.

Sotto il profilo strutturale vi si possono riscontrare tre nuclei narrativi.

Il primo – principale e di immediata evidenza – è quello che si riferisce alla storia di Domenico: un ragazzo di campagna che scende a Milano per sostenere l’esame di concorso a un posto d’impiegato in una grossa società; l’ottiene, prima come fattorino e poi come impiegato.

La tematica che sottostà a questo nucleo narrativo potrebbe esprimersi press’a poco cosí: per quanto la conquista di un posto sicuro per tutta la vita possa sembrare il bene piú desiderabile (tale appare visto dall’esterno e tale lo considerano i genitori di Domenico, Domenico stesso e i suoi compagni d’esame), in realtà non è cosí se fin dal primo contatto con l’ambiente di lavoro ci si imbatte in chi la pensa diversamente, e se effettivamente quel mondo non pare tra i piú adatti a mostrare di che pasta siano fatte le gioie e la dignità umane.

Mentre segue il suo adolescente, Olmi sembra dirgli ad ogni passo: «il tuo posto! poi te n’accorgerai cosa vuol dire». E infatti alla fine Domenico, seduto finalmente al suo «posto» (rimbalzato di tavolo in tavolo a quello dove è necessario tenere la luce accesa tutto il giorno), guarda davanti a sé, con occhi spalancati, senza sorridere piú, mentre la macchina del ciclostile scandisce, ritmica e anonima, il simbolo dell’implacabile ingranaggio che lo terrà prigioniero per sempre.

Il secondo nucleo narrativo è proprio quello che si riferisce all’ambiente di lavoro e che per il regista doveva avere grande importanza, se si attarda a presentare minuziosamente parecchi impiegati e funzionari, con le loro abitudini (per lo piú poco entusiasmanti) e con i loro piccoli o grandi drammi familiari, con le loro piccole manie, significative peraltro dei limiti imposti alla loro quotidiana esistenza umana.

Per Olmi, dunque, un posto di lavoro in una grande società è un traguardo che dà una certa sicurezza economica, ma che nel contempo condanna l’uomo a divenire un mezzo uomo, limitato e senza respiro, quando non acido e cattivo.

Notiamo che in questa sorta di poema sociale, dalla parte del torto non sono – fatto davvero insolito per i tempi che corrono – i padroni, bensí proprio i dipendenti. Lasciandosi prendere dalla  routine  quotidiana e adagiandosi passivamente in un lavoro in cui la massima aspirazione è il campanello della fine, oltre lo scatto e la scrivania piú comoda, essi sono gli esemplari di una società che essi stessi compongono e dalla quale essi si lasciano deprimere. È certo una concezione della vita del lavoro che, per quanto poggiata sul vero, non si può non dire patetica, quand’anche addirittura pessimistica o per lo meno tale da non aprire alcun spiraglio concreto e positivo.

Il terzo nucleo narrativo è costituito dall’incontro fra Domenico e Antonietta. Ha nel film un notevole peso, forse perché risulta il piú affascinante, grazie alla rara bellezza di invenzione e di tono. Anch’esso ha un fondo amaro. Ma quel che piú si fa notare è che affiora subito all’inizio, sviluppandosi con indugio, e poi scompare, con un andamento che si è tentati di definire autonomo. L’incontro nasce con gli esami, ma potrebbe nascere anche dopo; si estingue, non si sa bene perché, certo per fattori che non si saprebbe come collocare o anche come disgiungere dalle esigenze imposte dal lavoro.

Dei tre elementi narrativi i primi due potrebbero fondersi a vicenda e costituire l’unità, se non ci fosse, rispettivamente, troppo «Domenico» nella prima parte e troppo «impiegati» nella seconda; il primo e il terzo altrettanto, se in Domenico non ci fosse o troppo «aspetto del posto» e troppo poco «Antonietta», oppure troppo «Antonietta». Cosí gli elementi sono e restano tre; se nemmeno due riescono a costituirsi in unità, tanto meno si troverà un’unità strutturale con tutti e tre. E siamo convinti che il difetto sia stato all’origine, nella concezione stessa del film. Forse preso dall’irruenza delle bellissime cose che aveva da dire, Olmi non s’è preoccupato di sapere qual era quell’unica che gli avrebbe permesso di offrire allo spettatore una rosa e non sparsi petali, offrendo il fianco a chi l’avesse voluto accusare di bozzettismo.

Il posto, tuttavia, ha pregi estetici e stilistici tali da giustificare i pressoché unanimi consensi di critica e di pubblico finora ottenuti.

Parlando delle opere di Olmi, il termine «poesia» non è introdotto a sproposito, se usato con precauzione. Poesia alla quale egli ci aveva abituati con precedenti documentari industriali, in cui dalle tubature poderose, dalle montagne di cemento e di ferro spuntava sempre genuino il canto dell’uomo.

Anche in questo film, ambientato nel mondo meccanico dell’industria, l’uomo è sempre in primo piano. È questa preminenza che determina lo stile e impone il ritmo del linguaggio la cui caratteristica è l’adozione di un tempo cinematografico che tende a identificarsi col tempo reale. Ciò offre la possibilità di registrare anche i piú piccoli particolari delle espressioni; caricare di significati i gesti piú consueti e indifferenti, conferire un valore agli oggetti piú comuni e piú umili: pensiamo alla finissima delineazione dell’incipiente simpatia reciproca dei due adolescenti (che ha uno svolgimento nuovo e raro), con quella stupenda corsa nel parco e il dettaglio delle mani strette; pensiamo ai brani sugli impiegati osservati al lavoro e in casa; pensiamo alla magnifica sequenza della festa, cosí desolata per tutti quei personaggi che suonano, cantano, ballano, gridano «allegria».

Conseguenza di questo narrare è il dover procedere in un certo modo (potremmo chiamarlo «divisionistico»?) nel creare un personaggio, un’atmosfera, una storia. Modo che non può non fare i conti con i limiti di metraggio imposti da uno spettacolo cinematografico. Se infatti da qui nasce quella ricchezza di felici notazioni che avvince ed esilara lo spettatore, quell’immediatezza e freschezza di rappresentazione che nasce spontanea, naturale, in quel momento, qui nasce anche il già accennato difetto di insufficienza strutturale e quindi il bozzettismo.

Ora se la notazione spontanea e fresca sgorga – come sgorga in Olmi – da una sorta di ispirazione immediata e di capacità improvvisativa, la solidità strutturale non può che nascere da una lunga e profonda meditazione in fase di sceneggiatura, tanto piú indispensabile quanto piú minuta è la notazione e improvvisatoria la forza realizzativa. Altrimenti questo fortunato e particolarissimo stile si preclude la possibilità sia di racconti a largo respiro, sia di approfondimenti negli strati piú complessi della realtà e dell’anima. Ne Il posto  tali pregi e tali limiti sono evidenti.

I pregi sono poi avvalorati da un perfetto adeguamento degli elementi figurativi: fotografia e taglio di inquadrature privi di ricerche di effetto e con illuminazione «spontanea»; scenografia fedele alla realtà; dialogo che ha la sola bellezza della verità.

E non possiamo non accennare alla recitazione. Ancora una volta Olmi si è servito esclusivamente di attori non professionisti. L’esito, come nel suo precedente film, è stato sorprendente e conferma nel regista la capacità di scegliere e di guidare gli interpreti. La recitazione, fresca e dimessa, ma fine e adeguata, è perfettamente intonata allo stile di tutto il film. (S.R.)      

 


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