NAZARENO TADDEI, UN GESUITA AVANTI - 7° la metodologia
di ANDREA FAGIOLI
LA METODOLOGIA
Un noto linguista, qualche anno fa, l’ha presa pubblicamente in giro, su un settimanale di larga diffusione, per la sua affermazione che «l’immagine di una seggiola non è una seggiola». Eppure, quella frase, la ripete ancora oggi tutte le volte che può. Perché?
Tullio De Mauro non è stato l'unico. Se si vuole essere piú precisi, su «l'Espresso» n° 15 del 18 aprile 1982, con la nota dal titolo «Per favore, una smentita», De Mauro piú che prendere in giro me contestò che il Ministero della Pubblica Istruzione avesse stanziato 350 milioni per una serie di corsi per la formazione degli insegnanti e l’introduzione sistematica nella scuola dell’«educazione all’immagine e con l’immagine» attraverso la fotografia, affidandone a me la direzione e la responsabilità metodologica, dove i partecipanti – annotava De Mauro - dovevano imparare «quel primo assioma e si deve sperare anche cose piú serie». De Mauro mi attaccò dicendo che facevo quei corsi solo per interesse economico, irridendo alla «concezione piramidale della struttura» insinuando che «il vertice sarà il professor Taddei e la base un bel mucchio di milioni». Risposi a De Mauro, ma l’«Espresso» non pubblicò mai la mia risposta. Ma quella nota e quella mancata risposta alla mia smentita è proprio la prova piú bella che «la notizia di un evento non è quell’evento», il che è proprio un’applicazione di quella mia… risibile affermazione. Quel mio «interesse», però, era tale che ricevetti il contributo, secondo le tariffe del ministero (se ricordo, poco piú d'un centesimo di quella cifra per almeno 400 ore di lezione), fino a 12 anni dopo. Dico 12 anni, non mesi, e senza interessi e senza rivalutazioni d'una lira che nel frattempo aveva perso notevolmente di valore. Ma, come dicevo, De Mauro non è stato l’unico ad attaccarmi per quel mio pallino.
Diceva, però, che anche un altro ha ironizzato sul suo «assioma».
Un altro che se n’è avvalso per dimostrare in ambito religioso ed ecclesiastico la vacuità del mio insegnamento. È stato un sacerdote religioso, peraltro molto apprezzato. Comunque, penso proprio di dover dire che chi mi ha preso in giro lo ha fatto perché ha capito poco del problema della comunicazione con le nuove tecnologie. E’ talmente chiaro che l’immagine di una seggiola non è seggiola che però tutti scivolano su questa buccia di banana. Pensiamo alla critica televisiva quando si dice che «il tale ha detto…». No: «Il tale ha detto in televisione». Vuol dire che chi parla è l’immagine di colui che ha detto quelle cose, non colui che le dice. Ma questo, effettivamente, è un po’ difficile da capire. Chi non ha capito che l’immagine di una seggiola non è una seggiola non può rendersi conto di questa buccia di banana sulla quale si scivola continuamente. I critici si fermano tutti a quello che il film ha raccontato, almeno i piú onesti, perché sappiamo benissimo che gran parte della critica dice del film o della trasmissione quello che si deve dire secondo la corrente. Ricordo benissimo dei miei amici critici, bravissimi e intelligentissimi, che prima di dire bene o male di un film, o avevano già avuto l’imbeccata o andavano a chiedere agli uffici stampa come dovevano parlarne.
Ammetterà, però, che la sua terminologia a volte può apparire «originale», quando ad esempio parla di «contorni 1» e «contorni 2» a proposito dell’immagine. Qualcuno dice di lei che nell’uso di questi termini è un «ostinato»?
Anzitutto, i termini «originali» sono solo quelli citati e di cui sono il primo a riconoscere che non sono felici come parlare comune. Ma chi me li trova termini migliori che dicano la stessa cosa? Ad esempio, «denotazione» e «connotazione» esprimono altri concetti e soprattutto livelli diversi. La risposta vera è che io sono stato il primo a parlare di certi problemi. Quindi, caso mai, toccava agli altri riprendere certi termini o almeno dimostrarne l’inconsistenza. Perché dovrei essere io a rinunciarvi? Quando io parlavo di «lettura», mi sono saltati addosso ridendo. Oggi tutti parlano di «lettura». Non ho nessuna difficoltà a fare questioni terminologiche, però, se si devono fare, mi deve essere dato atto che io sono stato il primo in Italia.
A questo proposito, in precedenza, ha ricordato che l’avvio della sua attività in modo organico risale all’inizio degli anni Cinquanta. Ma il primo testo base quando lo ha pubblicato?
Il primo testo base è il «Trattato di teoria cinematografica», che risale al 1963 e che faceva parte della collana «i 7», che allora dirigevo, edita dal Centro San Fedele. Oltre al mio trattato, inizialmente furono pubblicati altri due volumi: «Le tecniche della realizzazione cinematografica» di Renato May e «Il segno, dalla magia fino al cinema» di Gianfranco Bettetini. Successivamente ne furono pubblicati altri tra cui «Teologia dell’immagine» dell’attuale arcivescovo di Bari, Francesco Cacucci. Ma in questo caso eravamo già nel 1971 e avevo già trasferito a Roma, in via Aurelia, il Centro dello Spettacolo e della Comunicazione sociale che, per questo, non aveva piú la dicitura San Fedele. Fra l’altro, di lí a due anni, il 18 settembre 1973, sarebbe nato l’attuale CiSCS, Centro internazionale dello Spettacolo e della Comunicazione sociale. Mentre l’anno prima, nel novembre 1972, era iniziata la pubblicazione della rivista «Edav», che era la continuazione e lo sviluppo del vecchio «Note schedario», che avevo iniziato nel 1970 al posto dello «Schedario cinematografico».
Avevo studiato molto sul linguaggio cinematografico, forse non ancora abbastanza, ma per quanto mi constava non c’era in circolazione un lavoro del genere e quindi lo scrissi. Fra l’altro, nel 1965, ricevette anche la Targa Leone San Marco alla XXVI Mostra internazionale di Venezia. La stessa che l’anno dopo ricevetti anche per lo «Schedario cinematografico».
Credo che siano oltre 60, comprese le dispense e le riedizioni. Alcuni miei lavori, come la «Lettura strutturale del film», hanno raggiunto piú edizioni in Italia e all’estero. Per l’esattezza, la «Lettura strutturale del film» ha avuto quattro edizioni italiane, tre spagnole (una in Spagna e due in Colombia), una portoghese (in Brasile) e una inglese (nelle Filippine). All’inizio degli anni Settanta ho realizzato anche il primo videolibro dedicato all’educazione all’immagine. Realizzato esclusivamente con lucidi per lavagna luminosa, secondo un sistema che io ho definito «sovrapposizione iconica in funzione concettuale (o espressiva)», è costituito da ben otto volumi. Successivamente è uscito anche un secondo videolibro dedicato ai Sacramenti.
Può ricordare altri titoli oltre al «Trattato» e alla «Lettura strutturale del film»?
Cosí, a caso: «L’immagine oggi nella vita», «Predicazione nell’epoca dell’immagine», «Educare con l’immagine», «L’avventura semiologica del film», «Mass media, evangelizzazione e promozione umana», «Dalla verità all’immagine», «Pastorale e mass media», «Lettura strutturale della fotografia»…. A proposito di fotografia, devo semmai ricordare di aver realizzato delle serie di diapositive, ad esempio proprio sul «Linguaggio della fotografia», in tre volumi di 360 dispositive, divise in 15 serie, piú un libro guida per ciascun volume, edito dall’Ldc dei Salesiani di Torino. Ci sono poi due altre raccolte sistematiche: una di 300 diapositive pubblicata dal Ministero della Pubblica Istruzione per la serie di corsi «La fotografia nella scuola per la vita» e l’altra di 268 diapositive a integrazione del mio volume «Lettura strutturale della fotografia». E poi anche una serie di diafilm, ad esempio su «Educazione all’amore», per la preparazione dei fidanzati al matrimonio. In collaborazione con Cipielle ho realizzato altri tre dialibri: «Come il consumismo vede la famiglia», «Le tre dimensioni dell’amore coniugale», «Aprirsi al mondo». Piú di recente sono uscite anche delle videocassette redatte da Eugenio Bicocchi con sei mie lezioni sulla «Storia del linguaggio cinematografico». Con le dispense, inoltre, ho affrontato anche la «Lettura strutturale del giornale».
Adesso avrebbe voglia di riscrivere un trattato di teoria cinematografica per aggiornare il precedente?
Non esattamente. L’aggiornamento, se cosí si può chiamare, sta nell’ultimo volume che ho scritto (quello però lo vorrei aggiornare davvero) «Dalla comunicazione alla lettura strutturale del linguaggio cinematografico». Mi sono accorto che non sono riuscito ancora a dire tutto bene quello che vorrei dire sulla comunicazione e sul linguaggio cinematografico perché ogni volta sono stato preso dall’uno o dall’altro aspetto.
Può darsi, me lo dicono in diversi. Ma non saprei. E’ vero che non sono mai contento e se questo vuol dire essere perfezionisti, allora lo sono senz’altro.
Comunque, ha tenuto e continua a tenere, oltre a quelli universitari, centinaia di corsi in varie parti del mondo, dai quali sono usciti quasi 10 mila allievi. Com’è nata l’idea di questi corsi e in particolare di quelli cosiddetti «estivi», che da sempre sono un punto di forza del suo Centro?
Sentivo il bisogno di far conoscere, di fare aprire gli occhi alla gente e mi sono rivolto soprattutto agli educatori. Non si dimentichi com’è partita la mia vocazione a queste realtà. Fra l’altro, devo ricordare che nel 1963 fui nominato Segretario nazionale del nuovo Segretariato dei gesuiti per i mezzi della comunicazione sociale e incaricato di studiare i piani di studi e di lavoro per tutto l’ordine, mentre l’anno successivo, nel 1964, oltre ai primi corsi tenuti al Centro San Fedele, ai quali ho accennato, la Compagnia di Gesú mi affidò l’incarico di trasformare in scuola regolare proprio i corsi che già tenevo. Nacque cosí la «Schola S.J. apostolatus communicationis socialis», voluta dal padre generale Janssens e realizzata, dopo la sua morte, dal successore padre Arrupe. Nell’idea di Janssens, era necessario che all’interno della Compagnia si costituisse un’équipe di ricercatori nel campo della filosofia e della teologia dei mezzi di comunicazione sociale. La «Schola» era a livello internazionale. Infatti, ebbi come alunni confratelli dal Messico, dall’Irlanda, dalla Germania, dalla Spagna, dall’Olanda…. Come sede fu scelta Bergamo, dove io già insegnavo Dottrina e storia del cinema alla Scuola superiore di giornalismo e mezzi audiovisivi, dipendente dall’Università del Sacro Cuore. Riuscimmo a realizzare un biennio di cinema (1965-1967) e poi la «Schola» fu chiusa, penso, perché avevo dato parere negativo su alcuni dei miei alunni in quanto mi sembrava che non avessero accolto con il dovuto spirito religioso la vocazione alla comunicazione massmediale, alle comunicazioni sociali. E si erano lamentati. Qualcuno, infatti, uscí anche dalla Compagnia. Ovviamente non fu il caso di tutti, anzi: da quell’esperienza uscí il primo martire del mio Centro e forse di tutto il settore dell’apostolato dei mass media.
Sarebbe a dire che padre Luis Espinal, gesuita, uno degli allievi dei miei corsi, fu trovato assassinato con quattro colpi di pistola, il 22 marzo 1980, in un sobborgo di La Paz, in Bolivia. Nelle settimane precedenti, padre Espinal era stato minacciato da militanti dell’estrema destra per le sue prese di posizione sul settimanale «Aqui», che lui dirigeva. Anzi, gli uffici del giornale erano già stati oggetto d’un attentato proprio all’inizio di quell’anno. Padre Espinal, dopo il biennio a Bergamo, anziché fare un terzo anno con la prospettiva di rimanere alla «Schola» come docente, preferí mettersi subito nell’attività diretta: dapprima in Spagna e poi in Bolivia come direttore di «Radio Fides» e poi del settimanale «Aqui». Ricordo che il 19 marzo 1966, dopo una discussione piuttosto accesa con me perché rimanesse nella «Schola», mi scrisse una lettera molto bella nella quale si scusava e mi ringraziava per quanto aveva ricevuto da me e dalla «Schola». Per il fatto che in seguito a quei corsi padre Espinal si sia sempre battuto per la liberazione dell’uomo contemporaneo nel contesto dei mass media e dei parametri cristiani, io credo che possa essere considerato il primo martire del CiSCS, nel senso cruento del termine, sapendo che il primo sangue segna la maturità e quindi la fecondità.
Capisco il senso e l’importanza di questa «parentesi». Dicevamo, però, dei corsi estivi e del perché di questa scelta.
Il primo corso d’estate si tenne a Bergamo dal 10 al 19 settembre 1965, in collaborazione proprio con la «Schola». Fu dedicato alla «Lettura del film» e vi parteciparono oltre cento persone, alcune venute anche dall'estero. Con me tenevano le lezioni Aldo Bernardini e Sergio Raffaelli. La scelta del periodo era determinata dal fatto che si trattava di corsi privati e farli d’estate era l’unico modo per consentire agli insegnanti di poterli frequentare. E poi perché con l’esperienza mi ero convinto che i corsi residenziali sono piú efficaci. I programmi prevedevano sei ore al giorno di lezione, ma di lavoro diventavano 12 o anche 15, perché a tavola si continuava a parlare, dopo cena pure, qualcuno studiava, si creavano amicizie, interessi circa l’argomento. I corsi estivi sono andati avanti fino a qualche anno fa. Poi ho un po’ smesso di farli.
Perché la gente, anche di cultura, sente sempre meno il bisogno di prepararsi. Qualche tempo fa, ad esempio, sono venuti a cercarmi da un’associazione culturale perché avevano fatto un corso (di altri) di cui non erano soddisfatti e volevano da noi qualcosa di piú serio. Mi chiesero un programma, ma quando videro che vi era prevista anche la «lettura» della televisione, mi hanno detto: «Ma che bisogno c’è della “lettura” della televisione, è una cosa che sappiamo tutti». Siamo arrivati a questo punto: che la gente non si rende conto di aver bisogno di imparare. È come se uno dicesse: «Che bisogno c’è, per prendere la patente, di imparare a guidare la macchina. Ce ne sono tante di macchine in giro e di gente che guida». Cosí è la questione dei corsi.
Per diverso tempo, negli anni Sessanta, avevo dovuto mettere un limite alle iscrizioni: il numero minimo era 60, il massimo 120.
Solo una volta non ho potuto fare un corso per mancanza del numero. Risale a qualche anno fa. Era rivolto ai sacerdoti ed era incentrato sulla predicazione: come tener conto della nuova mentalità, dei nuovi linguaggi massmediali nella predicazione. Arrivò una sola iscrizione. Di tutti i cinque mila sacerdoti a cui era stato mandato l’invito in tutta Italia, uno solo, uno di numero, aveva sentito il bisogno di aggiornarsi. Gli altri non si erano resi conto che la gente non parla piú il linguaggio concettuale. Comunque, oltre ai «Corsi d’estate», dal 1969, ho tenuto anche i «Corsi d’inverno» ed iniziative specifiche per il Ministero della Pubblica Istruzione tra cui, nel 1981, la direzione del progetto per l’introduzione sistematica nella scuola italiana dell’«Educazione all’immagine e con l’immagine attraverso la fotografia».
La sua rivista, «Edav – Educazione audiovisiva», ha raggiunto il traguardo dei 28 anni, ma si può dire che non ha mai sfondato, cioè la sua diffusione è rimasta limitata ad una cerchia di «fedelissimi». Perché?
Mi è difficile spiegarlo, tuttavia ci terrei a precisare che il mensile arriva per abbonamento in 15 nazioni di quattro continenti. Posso dire però che la mia rivista, purtroppo, è fatta per una élite. Non sono mai riuscito a renderla piú popolare, anche per deficienza mia e per mancanza di mezzi. Ma della mia rivista vorrei sottolineare un aspetto: siamo arrivati a 28 anni senza una lira di pubblicità, cioè la rivista vive solo di abbonamenti e vive senza debiti. Il che significa che per quanto non sia molto diffusa, si mantiene.
Per molti anni abbiamo avuto un contributo del Ministero dello spettacolo, ora Ministero dei beni culturali, reparto cinema. Poi, senza nessun preavviso, nel ’99, il contributo ci è stato rifiutato «per mancanza di originalità». Sono riuscito per legge a farmi ascoltare dalla commissione. Ho chiesto semplicemente in cosa consisteva quella «mancanza». Con molto imbarazzo la commissione mi ha detto che in giro c’è un «rivistume» e che quindi sono costretti a fare delle selezioni. A parte il fatto che il contributo è stato dato a riviste di livello culturale molto inferiore, proprio chi presiede quel dipartimento del Ministero qualche tempo prima aveva detto che padre Taddei, con il suo Centro, è parte della memoria storica della cultura cinematografica in Italia. Come mai l’attività di questa «memoria storica» viene considerata «rivistume» e «convegnume»? Mah! Questo per dire le difficoltà con le quali abbiamo sempre dovuto fare i conti.
Ma la scarsa diffusione sarà dovuta anche ad altri motivi, oltre a quelli accennati?
Non siamo mai riusciti a pubblicizzarla, soprattutto com'è necessario oggi. Comunque, io sono il primo a dire che la mia rivista è modesta. Nonostante ciò, vedo che è utile socialmente, pastoralmente, ben piú che culturalmente. Anche tra i miei confratelli, alle assemblee con lavori di gruppo culturale, giovanile, pastorale, mi si mette sempre in quello culturale e non in quello pastorale, come se la mia attività fosse solo quel po’ di competenza critica di cinema e tv che mi sono fatto e non un lavoro circa la «dimensione fondamentale di tutte le nostre attività apostoliche», come del resto recitano al numero 303 le «Norme complementari delle Costituzioni della Compagnia di Gesú».
La sta prendendo un po’ alla larga.
Per rispondere allora alla domanda, posso dire che è un circolo vizioso: innanzitutto non abbiamo di che pagare i collaboratori. Inoltre, io sono abbastanza severo nell’accettare gli scritti. La mia è una rivista metodologica, è un contributo metodologico, non accetto se non chi parla in questi termini metodologici. Tante volte sono stato tentato di chiuderla, perché è una «palla al piede», ma c’è sempre stato qualcosa che mi ha fatto capire che dovevo continuare.