LA TERRA DEGLI UOMINI ROSSI
Regia: Marco Bechis
Lettura del film di: Olinto Brugnoli
Edav N: 363 - 2008
Titolo del film: LA TERRA DEGLI UOMINI ROSSI
Titolo originale: BIRDWATCHERS
Cast: regia, sogg.: Marco Bechis – scenegg.: Marco Bechis e Luiz Bolognesi con la collab. Lara Fremder – fotogr.: Hélcio Alemão Nagamine – mus.: Domenico Zipoli (brani 1688-1726) e Andrea Guerra – mont.: Jacopo Quadri – scenogr.: Clóvis Bueno e Caterina Giargia – cost.: Caterina Giargia e Valeria Stefani – coach: Luiz Mário Vicente – suono: Gaspar Scheuer – interpr.: Abrísio Da Silva Pedro (Osvaldo), Alicélia Batista Cabreira (Lia), Ademilson Concianza Verga [Kiki] (Ireneu), Ambrósio Vilhalva (Nádio), Claudio Santamaria (lo Spaventapasseri), Matheus Nachtergaele (Dimas), Fabiane Pereira Da Silva (Maria), Chiara Caselli (la Fazendeira), Leonardo Medeiros (il Fazendeiro), Nelson Concianza (lo Sciamano), Poli Fernandez Souza (Tito), Eliane Juca Da Silva (Mami), Inéia Arce Gonçalves (la Cameriera) – durata: 108’ – colore – girato in Amazzonia – produz.: Classic, Rai Cinema, Karta Film, Gullane Filmes –– realizzato col contributo del Ministero Beni e Attività Culturali Direzione Cinema – origine: ITALIA, 2008 – distrib.: 01 Distribution (02-09-2008)
Sceneggiatura: Marco Bechis, Luiz Bolognesi
Nazione: ITALIA/BRASILE
Anno: 2008
Presentato: 65. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia - 2008 - In Concorso
Il regista. Nato a Santiago del Cile nel 1955 da madre cilena e padre italiano, Marco Bechis vive ora a Milano. Le sue opere cinematografiche sono: Alambrado (1991), Garage Olimpo (1999) e Figli – Hijos (2001).
Il racconto procede con struttura lineare. Le prime e le ultime immagini del film rappresentano quel luogo, quel pezzo di giungla ripreso dall'alto, teatro della vicenda. All'inizio poi vengono ripresi i turisti che ammirano quelle bellezze e che, stupidamente, cercano delle emozioni guardando quegli indios che fingono di attaccarli. È una nota di folclore, apparentemente innocua, ma che cela una realtà ben più drammatica. Ed ecco la parte centrale del film che incomincia a descrivere le tristi condizioni di vita di quegli indigeni. Un cartello segnala che si trovano a vivere in una “Riserva indigena – Terra protetta”. Ma non hanno i soldi per comperare i viveri e quando tentano di uscire dalla riserva per andare a cacciare vengono immediatamente allontanati. Il suicidio per impiccagione di due donne presenta subito la drammaticità di quella situazione. Ed ecco la decisione, quasi dimostrativa, di accamparsi ai margini della proprietà. Per andare al fiume a raccogliere l'acqua devono attraversare il campo arato e subito i guardiani intervengono per impedirglielo. Per evitare che altri indios seguano il loro esempio, i proprietari assumono una specie di “spaventaindios”, un tizio armato che vive in una roulotte vicino all'accampamento. Ogni tanto qualcuno offre loro un lavoro: si tratta di lavorare per qualche giorno da qualche fazendeiro in condizioni di semischiavitù. Naturalmente essi rifiutano questa specie di elemosina-sfruttamento. Quando celebrano i loro riti, i bianchi intervengono per impedirglielo e alla fine arriveranno perfino ad offrire loro dei soldi per farli allontanare. All'interno di questo quadro completamente negativo e conflittuale, l'autore mostra (e forse questo è un elemento tematicamente spurio) la graduale amicizia che nasce tra Osvaldo e la figlia del proprietario terriero. Ma l'impiccagione di un amico di Osvaldo fa precipitare le cose. Altri indigeni escono all'improvviso dalla foresta, allontanano il guardiano e si accampano sulle terre coltivate. Naturalmente questo non può essere tollerato e i proprietari pensano bene di eliminare il capo. Ora è la figura di Osvaldo che emerge. L'aspirante sciamano corre nella foresta e tenta di impiccarsi. Ma poi desiste giurando vendetta. Il suo grido terribile da animale ferito s'ode per tutta la giungla e le sue parole hanno un che di profetico:«Io ho vinto e tu hai perso». Osvaldo ha vinto perché ha deciso di vivere, di continuare la lotta per riavere le terre dei suoi avi. Il proprietario ha perso perché deve fuggire, almeno per un certo periodo, per evitare le inchieste e l'eventuale processo. Particolarmente significativa la sequenza in cui il proprietario avanza i suoi diritti su quelle terre, dove lui è nato e che appartengono da oltre sessant'anni alla sua famiglia. Per tutta risposta l'indio non avanza diritti di proprietà o certificati catastali: prende una manciata di terra e la mangia, per dimostrare che quella terra non è di loro proprietà; quella terra sono loro stessi, ciò che li costituisce nella loro natura e che plasma le loro esistenze. Una presa di posizione coraggiosa, con una musica solenne e sacra, che denuncia una situazione di sfruttamento intollerabile, ma con una struttura narrativa non sempre unitaria e rigorosa, che, soprattutto in certi momenti, nuoce alla compattezza dell'opera. (Olinto Brugnoli)