Roma Città Aperta
Regia: Roberto Rossellini
Lettura del film di: Nazareno Taddei
Edav N: 346 - 2007
Titolo del film: ROMA CITTÀ APERTA
Cast: regia: Roberto Rossellini - scenegg.: Sergio Amidei, Federico Fellini, Roberto Rossellini (non accreditato), Celeste Negarville (non accreditato) - sogg.: Sergio Amidei e Albeto Consiglio (non accreditato) - fotogr.: Ubaldo Arata - mus.: Renzo Rossellini (diretta da Luigi Ricci) - mont.: Eraldo Da Roma - scenogr.: Rosario Megna - interpr.: Anna Magnani (Pina), Aldo Fabrizi (Don Pietro Pellegrini), Vito Annichiarico (Marcello), Marcello Pagliero (Ing. Manfredi), Nando Bruno (Agostino), Harry Feist (Maggiore Fritz Bergmann), Francesco Grandjacquet (Francesco), Maria Michi (Marina Mari),Eduardo Passarelli (Brigadiere metropolitano), Carlo Sindici (Questore), Akos Tolnay (Disertore austriaco), Joop Van Hulsen (Capitano Hartmann), Giovanna Galletti (Ingrid), Carla Rovere (Lauretta), Amelia Pellegrini (Nannina), Turi Pandolfini (Nonno), Alberto Tavazzi (Prete confessore)- durata: 100' - B&N - produz.: Excelsa Film, Minerva Film AB - origine: ITALIA, 1945 - distrib.: Minerva Film, Domovideo, Nuova Eri, Mondadori Video, Videogram, Eden Video, Skema, 20TH Century Fox Home Entertainment, Cde Home Video, Gruppo ditoriale Bramante, M&R (Il Grande Cinema, Cinecittà )
Sceneggiatura: Sergio Amidei, Federico Fellini, Roberto Rossellini (non accreditato), Celeste Negarville (non accreditato)
Nazione: ITALIA
Anno: 1946
Presentato: 1. Festival di Cannes, 1946 - In Concorso
Premi: PALMA D'ORO AL FESTIVAL DI CANNES 1946; NASTRO D'ARGENTO PER LA MIGLIOR INTERPRETAZIONE FEMMINILE (ANNA MAGNANI) E IL MIGLIOR FILM.
Roberto Rossellini è nato a Roma l’8 maggio 1906, da una famiglia agiata. Compiuti gli studi liceali, all’Università preferí attività piú congeniali al suo temperamento e realizzò per proprio conto alcuni cortometraggi fantasiosi e originali. Avvicinatosi cosí al cinema, dopo aver preso parte alla sceneggiatura di LUCIANO SERRA PILOTA (1938) di G. Alessandrini, partecipò come co-regista, accanto a F. De Robertis, al film LA NAVE BIANCA (1941). Realizzò poi come regista unico UN PILOTA RITORNA (1942) e L’UOMO DELLA CROCE (1943), manifestando subito una notevole sensibilità realistica e una ricchezza di interessi umani. Nell’immediato dopoguerra, fattosi interprete del clima spirituale e degli ideali della Resistenza, girò con mezzi di fortuna i suoi due capolavori: ROMA CITTÀ APERTA (1945) e PAISÁ (1947), che lo resero famoso in tutto il mondo come uno dei fondatori e maestri del neorealismo italiano. Tra le opere da lui successivamente realizzate ricordiamo: GERMANIA ANNO ZERO (1948), FRANCESCO GIULLARE DI DIO (1950), STROMBOLI (1951). Considerato un maestro anche in campo internazionale, chiamato a dirigere le sorti pericolanti del Centro Sperimentale di Cinematografia, negli ultimi anni s’è dedicato a lunghi e pregevoli lavori televisivi di carattere (o di intento) educativo e per ultimo ha realizzato il film MESSIA (1975) che peraltro non ha avuto grande successo né di critica né di cassetta, nonostante i molteplici pregi d’arte, di tecnica e soprattutto di spirito.
ROMA CITTÀ APERTA, uno dei primi esempi della corrente neorealista del cinema italiano, nasce nel 1945, nel momento storico in cui si avverte un rinnovato senso di libertà dopo, il ventennio fascista e la sanguinosa esperienza della guerra, dell’occupazione nazista e della Resistenza. La realtà storico-sociale sollecitava i registi di questa corrente (tra i quali Rossellini è uno dei piú rappresentativi) piú direttamente di quanto non avesse fatto per i sovietici Ejzenstejn e Pudovkin (che realizzarono le loro opere dopo un intervallo di otto-nove anni dallo scoppio della rivoluzione e che si trovavano quindi in una posizione di maggiore distacco.
Le invenzioni del neorealismo non nacquero dal nulla. Esse avevano lontani precedenti storici: si rifacevano alla tradizione che arrivava fino alle attualità filmate dai Lumières e alla corrente verista e populista del cinema italiano muto (che si accostava alla realtà degli umili, sulla scia di certa letteratura verista e populista fine ‘800). Vi furono poi precedenti piú immediati: le esperienze di un Camerini e, soprattutto, del Blasetti di 1860: un’opera in cui l’autenticità con cui venivano colti certi aspetti regionalistici della vita italiana portava ad articolare un discorso sociale piú ampio, secondo certi moduli del cinema sovietico. Altri precedenti si possono riscontrare pure nell’opera di un regista come Flaherty (L’UOMO DI ARAN) e nella scuola del documentario britannico. Ma il contesto storico piú immediato da cui nacque ROMA CITTÀ APERTA è costituito da opere molto piú vicine, nello stile e nella concezione, ai tratti tipici del neorealismo: quali SCIUSCIA’ e I BAMBINI CI GUARDANO (di De Sica) e, soprattutto, OSSESSIONE di Visconti, che dopo aver assimilato da Renoir lo stile del «realismo poetico» francese, presentava un tipo di società, di ambienti e di personaggi di periferia colti in una prospettiva piuttosto inedita nel cinema italiano. ROMA CITTÀ APERTA e tutta l’opera di Rossellini furono importanti anche perché esercitarono un influsso profondo sui registi che dovevano essere i protagonisti delle affermazioni del cinema italiano negli anni cinquanta e sessanta: ed è significativa sotto questo aspetto la collaborazione al film di Federico Fellini.
È LA STORIA DI alcuni personaggi variamente coinvolti nella situazione creatasi a Roma dopo l’8 settembre per la presenza dei tedeschi, dei quali un capo della resistenza, braccato dal capo delle SS e aiutato dal sacerdote della parrocchia per l’intervento di una popolana già madre, ancora incinta e fidanzata con un tipografo pure impegnato nella resistenza, viene arrestato per il tradimento della sua amante e muore sotto la tortura; la popolana viene uccisa durante un rastrellamento la mattina delle nozze per rincorrere il fidanzato portato via dai tedeschi; il capo delle SS svolge il suo tragico lavoro con cinica, irresponsabile e testarda ambizione servendosid’ogni mezzo e non fermandosi di fronte ad alcun sistema per quanto urlante contro l’umanità: il sacerdote, coinvolto nell’arresto del capo partigiano, fedele alla sua missione di carità e di giustizia («è facile morire bene; difficile è vivere bene»), viene fucilato, ricevendo un accelerante colpo di grazia da un ufficiale delle SS che aveva espresso al capo nazista il suo giudizio anche politicamente negativo per le crudeltà adottate, mentre i ragazzini della parrocchia (che avevano collaborato ad azioni partigiane) lo salutano da lontano e se ne ritornano tristi nella città.
L’idea centrale (una delle possibili formulazioni) è relativa alla concezione della libertà dai poteri totalitari e oppressori, dei quali vengono individuate le caratteristiche di egoismo sostanziale e di stupido orgoglio che stanno all’origine del loro comportamento, libertà che si attuerà sempre qualora ci sia – e c’è di fatto nei popoli oppressi – la solidarietà e il rispetto dei veri valori umani, quindi anche religiosi, al di là d’ogni formalismo.
Rossellini cominciò a girare il suo film a soli due mesi di distanza dalla liberazione e in condizioni organizzative piuttosto fortunose. A Roma gli stabilimenti di posa erano stati smantellati e ospitavano gruppi di profughi: l’autore dovette cercare cosí le sue scenografie per le strade e le piazze di Roma, con tutti i segni ancora freschissimi che la guerra vi aveva lasciato. Anche la pellicola era introvabile e ci si dovette adattare ad adoperare (almeno secondo la leggenda) del materiale già scaduto: e per le stesse ragioni storiche ed economiche vennero scelti come attori uomini e gente della strada.
Tutte queste circostanze determinarono nella «troupe» che realizzava il film un clima che ebbe i suoi riflessi immediati anche nella qualità espressiva e nello stile dell’opera.
Ma non furono soltanto le fortuite circostanze e la scarsità dei mezzi tecnici a determinare la tipicità del linguaggio neorealistico; v’era già da tempo un fondo mentale che spronava gli autori ad una maggiore adeguazione del cinema alla realtà, contro il mondo artificioso del ventennio fascista. Rossellini contribuí alla rivoluzione linguistica che caratterizzò il neorealismo adeguando il ritmo e la lunghezza delle inquadrature ai ritmi della vita: senza curarsi di «abbellire» le immagini della realtà, lasciò che le cose e i fatti parlassero da soli. Egli scelse la posizione del testimone: ma caricando nello stesso tempo la rappresentazione della sua ideologia e, soprattutto, della sua passionalità e dell’impeto dei suoi sentimenti.
Il film è di impianto corale: costruito però su un traliccio narrativo a maglie larghe, quasi un intreccio poliziesco, che si articola secondo alcune linee di sviluppo legate al personaggio di Manfredi.
Nella prima parte, si sviluppano autonomamente due linee che fanno capo rispettivamente al ricercato Manfredi (e ai personaggi che vengono a contatto con lui) e alla milizia tedesca (con il questore italiano e, piú in generale, i collaborazionisti) che gli dà la caccia. Intorno a Manfredi ruotano alcuni personaggi tipici che hanno una loro autonomia narrativa: Pina, la popolana esuberante che lavora per la Resistenza per una sua passionalità naturale ed istintiva, Don Pietro, che partecipa alla Resistenza mosso da un’esigenza di carità cristiana: i ragazzi, che arrivano ad un’azione di guerra spinti dal desiderio di imitare gli adulti (dai quali però hanno assimilato anche certe motivazioni ideologiche, quasi inconscie); Francesco, che si presenta come la continuazione della linea Manfredi (anche se è l’operaio rispetto all’intellettuale, ad un livello di maturità politica inferiore). Intermedi tra queste due linee di sviluppo (Manfredi e i tedeschi) troviamo tre personaggi femminili: Marina e Lauretta, molto vicini per psicologia e funzione, e Ingrid, la tedesca cinica e senza scrupoli. In questa prima parte del film assistiamo quindi alla lotta di tutto un popolo (emblematizzato attraverso questi personaggi tipici ai vari livelli) contro i tedeschi ed i collaborazionisti italiani. Il culmine drammatico di questa prima parte è la morte di Pina, resa piú patetica dalla sua maternità incipiente e dal matrimonio che si preparava a contrarre. Immediatamente dopo, questo culmine è proseguito nel suo movimento drammatico, dalla scena dell’attacco ai camion che trasportano i prigionieri.
Le due linee strutturali tendono ad avvicinarsi nella seconda parte del film, che si concentra su pochi personaggi (soprattutto Don Pietro-Manfredi e Lauretta-Marina) e pochi ambienti, fino alla cattura.
Da quel punto inizia una terza parte in cui le due linee narrative vengono a confluire nel confronto diretto tra il mondo della Resistenza e i tedeschi. Manfredi entra qui però prevalentemente nel ruolo di vittima eroica, resta in secondo piano rispetto alla figura dominante e attiva di Don Pietro. È quest’ultimo infatti il protagonista dei culmini drammatici di questa terza parte: «Maledetti!», l’invettiva lanciata dopo la morte di Manfredi, e la fucilazione di fronte ai ragazzini. Questa terza parte è contrappuntata dalle scene che si svolgono nel circolo ufficiali, con la tardiva resipiscenza di Marina (vittima anch’essa, anche se colpevole) e con le amare riflessioni dell’ufficiale tedesco ubriaco.
Nel film quindi la Resistenza è un datodi fatto, una realtà in atto fin da principio. Il racconto si articola nella prima parte per mettere in luce le varie componenti di questa realtà ai vari livelli (il professionista, l’operaio, la popolana, il ragazzino, il prete), con un procedimento che tende a sviluppare il discorso in larghezza anziché in senso verticale. Per accenni sommari in vari dialoghi (soprattutto tra don Pietro e Pina e tra Pina e Francesco) e nella scelta di alcuni personaggi emblematici di diverse posizioni e convinzioni intellettuali, viene proposto un discorso sulle ragioni ideologiche della lotta (il comunista, il cattolico, il tedesco). Il racconto tende però a situare i movimenti della lotta piú nella sfera morale e sentimentale (lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione della libertà; umanità schietta e ricca che lega i resistenti opposta e confrontata al cinismo e alla freddezza del tedesco; la contrapposizione tra buoni da una parte e cattivi dall’altra) che in quella propriamente ideologica. Tra i due blocchi contrapposti si situa il mondo ambiguo delle due donne (Marina e Francesca), che definisce la condizione di miseria materiale e spirituale dell’Italia di allora: coloro che non sono sostenuti dalla forza morale che anima i resistenti, sono spinti a cercare di sopravvivere accettando qualsiasi compromesso, qualsiasi viltà (su questa stessa linea si trovano anche il segrestano e i collaborazionisti: questi ultimi, al punto estremo di questo ambiente deteriore le cui varie gradazioni di livello morale rendono sfumata la contrapposizione fondamentale tra buoni e cattivi).
Con il procedere del racconto, si accentua questa tensione morale e sentimentale, che culmina non a caso nell’episodio della morte di Pina (risolto in termini decisamente emotivi e sentimentali, grazie alla simpatia umana che viene immessa nel personaggio dalla maternità e dai preparativi del matrimonio). Tale tensione viene ad essere valorizzata e approfondita poi dalla contrapposizione manichea di bene a male, che sfocia nel confronto finale e diretto tra vittime e oppressori (i primi ben superiori moralmente ai secondi: come dimostra anche la critica «dall’interno» dell’ufficiale tedesco).
In questa sua varietà di motivi è difficile riconoscere al film una vera unità organica, mancando una giusta ed equilibrata orchestrazione di tutti gli elementi, benché sia importante il quadro del momento storico, visto con occhi veramente umani e sociali, che ne risulta. I punti deboli sotto questo aspetto si possono cosí schematizzare:
a) le pause dialogiche e descrittive, dove la parola predomina sull’immagine: i personaggi acquistano un valore emblematico e universale (rispetto alla situazione storica) piú per quello che dicono che per quello che fanno, per la loro evoluzione interna;
b) l’insufficiente peso strutturale dei due personaggi-chiave (Manfredi e soprattutto Don Pietro) nella prima parte del film – dove sono sviluppati per accenni che li pongono sullo stesso piano (o su un piano inferiore) rispetto ad altri personaggi (p.e. a quello di Pina) – che determina la mancanza di un asse centrale capace di unificare tutto il racconto;
c) le incertezze stilistiche: quando si passa dall’ambiente autentico, dal clima popolaresco delle strade di Roma e degli interni in casa di Pina a quello in cui vivono le due donne (Marina e Francesca) o al circolo ufficiali della Gestapo, la rappresentazione perde quella forza di verità che ne fa un documento, cade in certi artifici e convenzioni che fanno sentire piú forte la presenza di uno schema che si sovrappone alla realtà; cosí analogamente per le scene violente della tortura, dove Rossellini si allontana da quel pudore che lo aveva guidato in precedenza anche nella descrizione dei momenti piú drammatici, facendo qualche concessione ad effetti grossolani un po’ esteriori. Lo schema è avvertibile poi anche nell’uso sovrabbondante di un dialogo che rende meno corposi e realistici certi personaggi-chiave (è il caso per esempio delle massime messe in bocca a Don Pietro).
Narrando con un atteggiamento quasi cronachistico e distaccato, Rossellini proietta nelle immagini del film la sua sensibilità, il sentimento con cui reagisce alla realtà che gli sta intorno. L’immagine ricerca il tono dimesso del documentario, rifugge (quasi sempre) da effetti esteriori e ridondanti: ma non si limita a registrare i fatti. L’intervento, l’interpretazione dell’autore sono continuamente percepibili nella valorizzazione di un dettaglio significativo, nella sfumatura di una battuta, in un effetto sonoro, nel guizzo improvviso che carica di drammaticità la realtà rappresentata (pensiamo ad esempio alla stupenda scena della morte di Pina, il cui impeto tragico è rafforzato non solo dalla composizione dell’immagine, da quel rapido movimento di macchina che accompagna la corsa di Pina – quasi un uccello colto al volo dalla morte –, ma anche dal contrasto che si determina con la scena precedente, quasi macchiettistica, con la padellata data da don Pietro al vecchietto ammalato), nell’invenzione di una angolazione particolarmente espressiva.
L’autore ripropone quindi la realtà nella sua freschezza e spontaneità; ma nello stesso tempo la interpreta e vivifica con la carica sentimentale e morale che da lui si continua nei personaggi e che diventa – quasi inavvertitamente – il tema di fondo di tutta l’opera.
Piú che il capolavoro del neorealismo, ROMA CITTÀ APERTA è soprattutto la proposizione di una nuova poetica, di una concezione del cinema che arriva a piena maturità grazie ad un nuovo modo di confrontarsi con la realtà. Ci sono ancora scorie del vecchio modo di fare il cinema, elementi metaforici (la croce nell’appartamento di Marina, l’uccisione delle pecore da parte dei soldati tedeschi, preannunciante il calvario dei personaggi), ed un uso retorico e convenzionale del commento musicale. Ma è ben percepibile tutta l’evoluzione linguistica che il cinema ha fatto fin allora e l’arricchimento dei mezzi espressivi conseguente all’avvento del sonoro: rispetto al cinema muto, quello che si è perso qui in qualità strettamente cinematografiche, lo si è guadagnato in ricchezza e profondità di contenuti umani. (Nazareno Taddei SJ)