APOCALYPTO
Regia: Mel Gibson
Lettura del film di: Franco Sestini
Edav N: 347 - 2007
Titolo del film: APOCALYPTO
Titolo originale: APOCALYPTO
Cast: regia: Mel Gibson – sogg. e scenegg.: Mel Gibson, Farhad Safinia – fotogr.: Dean Semler – scenogr.: Thomas E. Sanders – cost.: Mayes C. Rubeo – mont.: John Wright – mus.: James Horner – effetti: Ted Rae, Jesus “Chuco” Duràn, Svengali Visual Duràn – interpr. princ.: Rudy Youngblood (Zampa di Giaguaro), Maria Isabel Diaz (Isabel Diaz), Mayra Serbulo (Mayra Serbulo Cortes) – durata: 139’ – colore – produz.: Bruce Davey e Mel Gibson per Icon Entertainment International, Touchstone Pictures – origine: USA, 2006 – distrib.: Eagle Pictures (05-1-2007)
Sceneggiatura: Mel Gibson, Farhad Safinia
Nazione: USA
Anno: 2006
È la storia di Zampa di Giaguaro, il figlio del capo di una piccola tribú Maya, nel Messico pre-conquistadores (siamo attorno al 1518); la vita si svolge serenamente, tra cacce al tapiro nella fitta boscaglia e risate nelle serate trascorse al villaggio, dove l’argomento che tiene banco è la presa in giro di un novello sposo che ancora non riesce a soddisfare la moglie (e di conseguenza la suocera) ed al quale gli anziani prodigano tutta una serie di consigli che altro non si rivelano se non degli scherzi piú o meno atroci, come quello di convincerlo a spalmarsi sui genitali una sorta di peperoncino, con conseguenze facilmente immaginabili; in occasione di una spedizione di caccia incontrano un gruppo di persone (uomini, donne e bambini) i quali dichiarano di essere fuggiti dal loro villaggio che è stato devastato (da chi?); l’incontro si chiude amichevolmente con uno scambio di doni: Zampa di Giaguaro regala una parte del tapiro appena ucciso e i nuovi arrivati contraccambiano con alcuni grossi pesci.
Zampa di Giaguaro, sposato con una giovane ragazza che già gli ha dato un figlio e ne aspetta un altro, ha come una specie di premonizioni notturne che gli indicano una catastrofe imminente: colui che gli fa queste previsioni è uno dei Maya incontrato nella foresta, proprio quello che gli dice che la sua gente è alla ricerca di «un nuovo inizio”.
Improvvisamente scoppia il finimondo: il villaggio viene attaccato da altri Maya, i quali però si mostrano piú «progrediti», anzitutto in fatto di ferocia e poi nell’uso di alcuni strumenti atti ad offendere, che sia pure primordiali, ma servono magnificamente allo scopo: Zampa di Giaguaro riesce a nascondere la moglie incinta ed il figlioletto in una specie di pozzo naturale, promettendo loro che tornerà per liberarli, dopo di che viene catturato insieme alla maggior parte della gente della sua tribú, mentre il padre viene ucciso sotto i suoi occhi, come per dare un tragico esempio di ferocia.
Condotti attraverso la boscaglia tutti legati insieme in modo che nessuno possa tentare la fuga, giungono al villaggio – che potremmo definire città – dei vincitori, il quale si dimostra assai diverso da quello degli sconfitti, anzitutto perché gli edifici, anziché di frasche e qualche palo, sono costruiti in calce e quindi assomigliano alle case attuali, e poi perché ha tutto un apparato «regale» che fa da sfondo alla zona dei sacrifici, dove i giovani catturati vengono uccisi, il loro cuore estratto dal corpo e la loro testa gettata giú da una lunghissima scalinata, al termine della quale sta la folla urlante e festante, inebriata dalla violenza e dal sangue.
Quando arriva la volta di Zampa di Giaguaro, un prodigio gli salva la vita – almeno per il momento – e cioè l’eclissi solare che rende buio il giorno: tutti sono impauriti, il sacerdote imputa l’evento al povero Zampa di Giaguaro ma non ha il coraggio di ucciderlo; viene allora condotto, insieme ai suoi compagni di sventura, in una specie di campo di calcio oltre il quale comincia prima una piantagione di mais e poi la boscaglia; il gioco consiste nel mettere «in libertà» i condannati e bersagliarli con frecce e lance; se riescono – per miracolo – ad arrivare in fondo al campo, trovano un altro aguzzino che ha il compito di finirli a colpi di mazza.
Zampa ce la fa a fuggire e, benché trafitto da una lancia che provvede lui stesso ad estrarsi, si lancia attraverso la giungla, dove viene seguito da uno stuolo di nemici che egli affronta con la tecnica degli Orazi e Curiazi, cioè uno per volta e, usando i modi piú svariati – dal serpente velenoso allo sciame d’api tanto per citarne qualcuno – riesce a scrollarseli di dosso ed arrivare al villaggio natio dove la moglie ed il figlioletto sono ancora in attesa che torni a salvarli: il pozzo, causa un temporale fortissimo, sta per allagarsi e i due vanno molto vicini ad affogare; oltre a questo, c’è anche il parto «sott’acqua» della ragazza che riesce comunque a salvare il nascituro fino al momento in cui arriva Zampa.
La famiglia cosí ricomposta si dirige verso la giungla costeggiando una spiaggia dalla quale vedono arrivare i primi «conquistadores» che stanno per sbarcare; chiede la moglie «dobbiamo andar loro incontro?» Risponde Zampa «è meglio se andiamo nel bosco a cercare “un nuovo inizio”».
Il film è diviso in tre grosse parti (complessivamente due ore e un quarto) che però sono precedute da una frase scritta su fondo nero, precedente ai titolo di testa, che recita: «Una grande civiltà non viene conquistata dall’esterno fino a quando non si distrugge da sola dall’interno»; tale assunto è firmato dallo storico Will Durant che non conosco e quindi non posso giudicare la validità di quanto affermato: certo che quella frase, messa lí in quel particolare modo, diventa la tesi del film, come a dire che il resto della narrazione sarà teso a dimostrare quanto detto nella prima immagine.
Ed allora andiamo avanti e vediamo questa suddivisione: la prima parte ci mostra la vita di Zampa di Giaguaro e dei suoi amici del villaggio, vita condotta in forma primordiale ma al tempo stesso felice e spensierata; le attività sono quelle che servono ad andare avanti ed a perpetuare la specie: si caccia per procurarsi il cibo, si hanno rapporti sessuali con le proprie donne con lo scopo di mettere al mondo figli che possano a loro volta cacciare quando i padri saranno vecchi o morti, si ha rispetto per gli anziani, dei quali si ascoltano le parole ed i consigli.
Nella seconda parte abbiamo l’arrivo della tribú conquistatrice che distrugge il villaggio, uccide molti uomini e stupra alcune donne; qui abbiamo una descrizione dei guerrieri vincitori che è particolarissima: anzitutto hanno «armi» piú moderne di quelle dei sempliciotti del villaggio, poi hanno degli elmi costruiti con il cranio di animali e poi sono pieni di piercing realizzati con ossa di animali e collocati in varie parti del corpo, principalmente – ma non esclusivamente – nel volto ed hanno anche tantissimi tatuaggi.
L’autore ci mostra anche uno spaccato della vita nella città dei vincitori, in particolare di quello che potremmo definire il centro del potere, con il monarca e la sua corte, composta da nani, bimbi ciccioni, matrone dissolute e sacerdoti zelanti nella loro attività di boia.
La terza parte è rappresentata dalla fuga di Zampa di Giaguaro verso il suo villaggio, dove sa benissimo che la moglie è nascosta in quella specie di pozzo, ma che non può uscirne e quindi rischia la morte; la fuga – che ha anche dell’«incredibile», inteso proprio come cosa che difficilmente si riesce a credere – è un susseguirsi di corse sfrenate attraverso la giungla, inframmezzate da agguati mortali nei confronti dei nemici ed anche di interventi fatalistici che aiutano il giovane, tipo la presenza del serpente velenoso in quel punto su quello specifico albero.
Comunque si capiva prima che iniziasse che la fuga avrebbe avuto successo, cosí come si era certi che la moglie, il nasciture e il piccolo bambino si sarebbero salvati ed infatti cosí è; e la famiglia, cosí ricomposta, si dirige verso il folto della giungla alla ricerca di un «nuovo inizio», mentre i due unici superstiti tra gli inseguitori, vanno verso i «conquistadores» che stanno sbarcando.
E adesso cerchiamo di capire se Gibson ha ottenuto di comunicare una sua idea tematica oppure se la spettacolarità ha calpestato tutto il resto; certo che la parte dell’inseguimento sembra tratta pari, pari da «Rambo», certo che la lancia che Zampa si toglie dal petto pur continuando a correre ha dell’incredibile, ma fatto salvo questo aspetto dell’opera, possiamo dire che la tematica – del resto anticipata dalla frase dello storico – viene portata a compimento con disinvoltura; infatti, la parte di società emergente e piú dotata tecnologicamente, diviene talmente bestiale e talmente desiderosa di fagocitare tutti i vicini, da auto-distruggersi, rendendo cosí molto semplice il compito dei soldati spagnoli che sbarcheranno appunto per conquistare quelle terre. Ed appare vano sia il contrastarli – come sembrerebbero fare i due inseguitori che si dirigono verso i soldati – ma anche «cercare un nuovo inizio» come invece si accinge a fare Zampa di Giaguaro con la sua famiglia, ipotizzando un piccolo microcosmo che cerca di ricostruire, ma che sappiamo essere una mossa inutile e anti storica proprio perché quella civiltà «deve» scomparire totalmente.
Qualcuno – con molta «fantasia» ma poca conoscenza semiologia – potrà accostare questo concetto che vuole essere legato solo a quella contingenza storica, anche alla nostra civiltà supertecnologica che rischia di divorare se stessa, ma non mi sentirei di proseguire su questa strada perché non mi sembra che ci siano i presupposti per farlo, anzitutto una universalizzazione che nell’opera di Gibson manca totalmente.
Ma in concreto, la tematica (o meglio la tesi) di Gibson, regge nella sua struttura narrativa? Direi sostanzialmente di si, anche se l’eccesso di violenza, l’eccesso di crudeltà, l’eccesso di tutto, rischia di vanificarla a favore di una spettacolarità che è indubbia, ma che è anche sintomo di grande cinema espressivo, soprattutto se chi entra in sala riesce a dimenticare le tante polemiche costruite addosso al film e che al film hanno fatto bene da un lato – quello economico – e male da un altro, quello della narratività.
Magari si potrebbe dire che una struttura piú precisa si sarebbe fatta influenzare meno dalla spettacolarità, ma non possiamo saperlo in concreto perché questa precisione non c’è, come non c’è quasi mai nei film di Gibson che risentono della scrittura cinematografica, mentre la realizzazione è quanto meno esplosiva per le idee del regista/attore americano.
Sotto il profilo della realizzazione, Gibson deve aver optato per la famosa frase «squadra che vince non si tocca», nel senso che ha utilizzato quasi tutti i modi espressivi utilizzati per The Passion, a cominciare dalla lingua impiegata, il Maya Yucateco, anch’essa lingua «morta» o quasi, come l’aramaico del film su Gesú; ed anche l’utilizzo delle scene truculente – in chiave con la vicenda, ma non so quanto «indispensabili» – in quest’ultima opera Gibson lo porta addirittura a livelli maggiori: pensate che soltanto la sequenza dell’uccisione degli uomini nella città dei vincitori, ha come corollario il cuore strappato ad ognuno e mostrato in primo piano agli spettatori (e ciò non avviene in un solo caso ma in una diecina).
Definire il film carente sotto il profilo storico, è la solita affermazione inconsistente che si rileva in casi del genere: l’esattezza storica si può pretendere soltanto a chi fa opera documentaristica (e fino ad un certo punto) non a chi cerca di realizzare un’opera di comunicazione che – come è noto – esprime un’idea che l’autore delle immagini cerca di veicolare attraverso quella narrazione.
Per concludere, direi che Gibson con questo film compie un passo indietro rispetto a The Passion, ma che comunque confeziona un prodotto cinematografico di tutto rilievo, specie per i soldi che è destinato ad incassare. (Franco Sestini)