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BLACK BOOK, TRA IL FARLO E IL PARLARNE (DA PARTE DELL'AUTORE)


di FLAVIA ROSSI
Edav N: 347 - 2007

La brochure della casa di distribuzione (DNC entertainment), che ha accompagnato l’uscita del film alla LXIII Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, colloca BLACK BOOK nel genere «thriller epico». Se per «epico» si deve intendere quell’ intreccio di eventi grandiosi, agiti da personaggi eroici ed esemplari, noi dovremmo, guardandoli dal parapetto dell’età contemporanea affacciato sulla storia, riconoscere in quelli del film una profonda valenza universale (esemplarietà).

Ma il film non pare assurgere a tanto.

Piú cautamente il regista, nell’intervista riportata nella stessa brochure, non usa il termine «epico». Egli definisce il suo film «un thriller ispirato a eventi reali della resistenza olandese». Quindi un film che parte dalla realtà, ad essa si «ispira» e ritorna alla stessa realtà rappresentandola in un certo modo, quello cinematografico. Ancora di Verhoeven è la dichiarazione: «La maggior parte dei personaggi sono ispirati a persone davvero esistenti all’epoca della nostra storia.» Ma c’è anche molto che viene aggiunto in sceneggiatura: limitandoci al caso della sola protagonista, il suo personaggio è il risultato della combinazione di ben tre figure effettivamente esistite: quelle di due diverse partigiane e quella di un’artista (cfr. la citata brochure).

La ricerca storica che sta alla base della sceneggiatura, si fonda sullo studio di documenti anche fotografici sui trattamenti riservati ai prigionieri olandesi nel 1945 da parte dei guardiani dei campi e anche da parte dei cosiddetti partigiani (dichiara il regista: «Anche nella Resistenza c’era della gentaglia. A vedere le loro immagini mentre catturano i nazisti olandesi ti viene da pensare: non vorrei finire nelle mani di quella gente».); su circa 800 documenti conservati presso l’Istituto Statale per la documentazione della guerra; sul rapporto di un testimone oculare, il Pastore Van der Vaart Smit, dal titolo Stato dei campi di lavoro, in cui si raccontano le vergognose condizioni in cui hanno vissuto i prigionieri e il terrore dei campi di lavoro; sul saggio di Hans van Straten, dal titolo Lavoro da assassini, pubblicato in Olanda negli anni ’60, dove si trova un esplicito riferimento alla vicenda dell’avvocato De Boer, una donna che, dopo aver collaborato col comando tedesco all’Aja e con la resistenza olandese per cercare di evitare spargimenti ulteriori di sangue, fu uccisa per mano di ignoti subito dopo la fine della guerra, lasciando un «libro nero», mai ritrovato, contenente con ogni probabilità i nomi dei piú insospettabili traditori e collaboratori; sul libro di Chris Van der Heyden, pubblicato nel 2001, dal titolo Passato grigio, in cui la storia viene ripresentata con una nuova chiave di lettura. «Nelle interpretazioni tradizionali i Paesi Bassi e i suoi partigiani vengono ritenuti degli eroi indiscussi, contrapposti ai nazisti cattivi. Van der Heyden assume un punto di vista postmoderno, aperto a piú interpretazioni. È sbagliato dividere i protagonisti della storia in eroi e malvagi. Eroismo e crudeltà sono spesso le due facce della stessa medaglia. Non di rado, personaggi ritenuti dei veri e propri eroi sono poi caduti dal proprio piedistallo.».

Ecco allora un film che forse disturberà coloro che continuano a rappresentarsi il mondo come un luogo perfettamente divisibile fra male da una parte e bene dall’altra; un film che, ponendo l’accento sulle contraddizione dei sistemi, la resistenza (olandese) da una parte, il nazismo dall’altra, finisce con il non far fare «bella figura» né alla prima né, ovviamente, al secondo.

Aggiunge il regista: «Il film è volutamente provocatorio. Nessuno ha mai detto prima dei trattamenti riservati ai nostri prigionieri nel 1945.»(brochure, cit.).

Per dire tutto ciò che vuole dire, Verhoeven (ivi) afferma di avere «aggiunto alla storia molto realismo (...). Questo film è un’opera spettacolare per mostrare la realtà di quei giorni.».

Ammesso che le parole riportate nella brochure in lingua italiana corrispondano fedelmente a quelle pronunciate dal regista in altra lingua; ammesso che le parole da lui scelte e poi tradotte siano a loro volta traduzione corretta del suo pensiero, quindi segno veicolante la sua idea, non pare accettabile l’analogia fra realismo che viene aggiunto alla storia e la spettacolarità (ritenuta essenziale?) per mostrare quella realtà (storica).

Prima di tutto non è affatto vero che la marca dominante del film sia di natura «realistica», e ciò proprio per l’accentuazione spettacolare, la quale ne fa un’opera che forza gli aspetti degli eventi oltre la barriera del naturalismo fino a esasperarli (recitazione, movimenti di macchina, dettagli crudi e dilatanti la percezione del reale, ritmo del montaggio che – è bene ricordarlo – attiene alla «rappresentazione», e in particolare ai «modi semiologici» e non alla «cosa rappresentata»; e la sistematica scelta di togliere alle scene piú importanti la corrispondente scena di contesto, vale a dire il continuo fingere da parte dell’autore d’essere all’oscuro dei risvolti nodali della storia che pure sta narrando: il che sullo schermo, per fare un esempio fra i molti possibili, si traduce nel filmare la scena in cui la protagonista, ignara del tranello – «assieme» allo spettatore e quindi «assieme anche» al regista – colloca una microspia nell’ufficio del tenente nazista, ma non nel filmare l’azione precedente in cui i nazisti, in combutta col personaggio traditore della resistenza, architettano proprio la trappola della microspia. In breve: solo verso il finale lo spettatore viene messo al corrente, tra l’altro, del combattente che tradisce (ritardo che è tipico della tecnica del thriller), mentre la vicenda si sarebbe egualmente sviluppata anche con la stessa rivelazione anticipata agli inizi, cosa, cioè tradimento, che nella realtà storica – se è avvenuto, come sembra proprio che sia avvenuto, essendo il film «un thriller ispirato a eventi reali della resistenza olandese» – è esattamente accaduto dal principio.

Ciò si sta dicendo in termini non critici rispetto agli esiti espressivi del film, ma critici rispetto alla teorizzazione del regista sul proprio «fare autoriale» (il dichiarare d’aver «aggiunto alla storia molto realismo». E anche: «Questo film è un’opera spettacolare per [il grassetto è nostro] mostrare la realtà di quei giorni.»).

Secondariamente la spettacolarità, che non va demonizzata né sempre aprioristicamente contestata, è di fatto qui solo una scelta espressiva. Non essendoci un assoluto bisogno della spettacolarità perché la realtà possa essere mostrata, è evidente che, nel momento in cui ha scelto di servirsi dell’elemento «spettacolarità», il regista ha espresso un suo modo di immaginare, vedere, rappresentare «la realtà di quei giorni».

Questioni di poco conto, se si conosce la logica della finzione; che sempre è sottesa ad un’opera di linguaggio, modificante e alterante per sua natura la realtà.

Questioni di grande rilevanza se, come ancora spesso accade, si confonde il piano della realtà con quello della espressione della conoscenza della stessa.

Questioni metodologiche, che incidono, e non poco, sulla recezione di un film e sul suo gradimento da parte del pubblico.

 


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