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La salvezza di una società comincia dall'educazione delle giovani generazioni


di LUIGI ZAFFAGNINI
Edav N: 349 - 2007

Benedetto XVI fin dal 24 gennaio ha inviato questo accorato messaggio a quanti si occupano di comunicazione di massa. Riferendosi ad alcuni tra i tanti documenti che la Chiesa ha proposto in merito, il Papa ha tenuto come filo conduttore gli atti del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali e ha dato ormai per acquisita la importanza del capitolo 37 della enciclica Redemptoris Missio. Egli ha centrato il suo discorso sulla responsabilità nei confronti delle giovani menti, alla luce del passo del Vangelo di Luca (17,2), che mette direttamente in bocca a un Gesú, festosamente contornato dai bambini, le parole di terribile condanna per chi li scandalizza: «per lui è meglio che gli sia messa al collo una pietra da mulino». 

La preoccupazione educativa

Benedetto XVI si fa, dunque ancora una volta, fermo difensore e sostenitore di una etica del positivo e di una estetica dell’armonia e del bello nei programmi della comunicazione di massa, destinati ai minori e in quelli con cui i genitori e gli educatori si trovano a doversi confrontare nel processo di formazione dei ragazzi.

Questo non è un moralistico appello, bensí un doveroso atto della Chiesa Cattolica per contribuire ad additare l’obiettivo di una educazione alla verità e al bene, a salvaguardia di tutta la società civile, anche se gran parte di essa pretenderebbe, in modo sconsiderato e in nome dell’individualismo, del relativismo morale e della tolleranza, di accogliere comunque tutti i comportamenti senza censure o condanne. Infatti, gran parte delle persone preferirebbe evitare la responsabilità e la fatica di educare, salvo poi a lamentarsi e a stracciarsi le vesti quando accadono fatti di impensabile e gratuita violenza che coinvolgono giovani e meno giovani. 

Il problema è quello del futuro di una società

Nessuno può negare che il grande problema, legato al futuro di una società, passa attraverso la capacità delle nuove generazioni di possedere una etica fondata sui valori forti e imprescindibili e su un robusto senso dei doveri nei confronti del tessuto sociale che le circonda. Ma in nessuna civiltà è mai avvenuta una auto-educazione degli individui, se non in quelle ipotizzate nelle teorie utopistiche e nelle fantasie sul «buon selvaggio» degli illuministi. Sempre, la cultura e le tradizioni hanno rappresentato per le nuove generazioni un aspetto da condividere o da rifiutare, ma in ogni caso con cui confrontarsi. Non si tratta, tuttavia, di conflitto generazionale, ma di una reale esigenza di salvare una continuità di valori educativi, a prescindere dal fatto che essi facciano parte di quelle famose radici cristiane verso cui si manifesta tanta insofferenza. Dimenticarle vuol dire rinunciare a un patrimonio in cui il progresso della scienza e la bellezza dell’arte, come specchio di una spiritualità umana sono divenuti diffusamente fruibili da molti. Tutto questo fino a che la elaborazione culturale e la mentalità che da essa promana hanno avuto un saldo e costante riferimento alla realtà e ai bisogni materiali e spirituali della persona umana. Ma, quando nella elaborazione culturale ha finito col prevalere la prepotenza della ideologia, i valori non sono piú scaturiti da una ricerca, secondo legge naturale, della giusta soluzione dei problemi umani, ma da una astratta affermazione di principi ai quali piegare la realtà sociale per farla corrispondere ad essi, anche quando essi erano niente piú che illusoria propaganda. È nata cosí la grande manipolazione di massa, che ha mobilitato i milioni di persone, in nome di un furore astrattamente ideologico, verso traguardi che, il piú delle volte, si sono rivelati storicamente la tomba dei piú deboli e proprio di coloro che piú vi avevano creduto.  

Il ruolo dei mezzi di comunicazione sociale

In questa operazione di grande pedagogia delle masse, il ruolo determinante è stato svolto dalle tecnologie della comunicazione: stampa, cinema, televisione, ecc.. Dopo la tragica stagione dei regimi totalitari, proprio in occidente e massimamente in Italia, si è verificata per decenni la ondata di un processo di formazione della mentalità, giovanile e non, fondata irresponsabilmente sul vuoto morale e sulla negazione di tutto quanto è parso un freno alla libertà soggettivistica e un limite al diritto di imporre agli altri il proprio egocentrismo. Volàno propulsore e amplificatore di questo nuovo assetto generazionale post-sessantottesco, che concilia il massimo del consumismo con il massimo della ideologizzazione massificata, sono stati la macchina massmediale e tanti degli uomini che ne fanno parte, piú spesso per difendere il variopinto establishment di potere, che non per testimoniare e difendere la verità e la giustizia.

Quanto di questo atteggiamento, non sufficientemente ponderato nella sua pericolosità, ha rappresentato una vera e propria colpa, che dovrebbe spingere non pochi a ben considerare le parole del vangelo di Luca?  

Le conseguenze distruttive

La funzione distruttrice del tessuto dei valori di una intera società, in nome di una pretesa libertà, si basa solo sull’effetto spettacolare e sulla dissacrazione di tutto ciò che semplicemente è stato un patrimonio di generazioni. Insieme con la disgregazione dei rapporti familiari e umani, la spinta distruttrice propone, in modo accattivante, l’invito a sostituire la religione tradizionale con una nuova fede nell’esoterico e nel trasgressivo. Cosí, infine, si ottiene il risultato di una società aggressiva, ma psicologicamente fragile, impaurita dalla morte, ma disposta a rimuoverne il senso dietro il consumismo e l’eutanasia, insensibile all’aborto e alla sofferenza dei bambini sballottati tra genitori divorziati, ma votata alla tenerezza ossessiva verso gli animali e a una angoscia tutta ideologica per le paventate catastrofi ambientali. 

La responsabilità pedagogica

Si tratta, in fin dei conti, di un autolesionismo da parte di tutta una comunità sociale da cui non possono chiamarsi fuori né la famiglia, né la scuola, né la chiesa, né tanto meno gli uomini della comunicazione sociale e della classe politica. La responsabilità, infatti, non può attribuirsi solo all’educando, ma anche all’educatore, che ha mancato al suo compito o che ha delegato ad altri il suo ruolo o che ha suggerito pseudo-valori o che non ha trovato il modo giusto per farsi comprendere. Spesso, anche se tutto questo non è stato per via di una scelta deliberata, ma piuttosto per un condizionamento subito e inconsapevole o ingenuamente vissuto, vi è comunque stata una grave colpa di omissione da parte dei tanti, genitori, insegnanti, religiosi, che hanno trascurato di prepararsi seriamente in questo settore e si sono rifiutati di comprendere che altri, e non loro, attraverso i massmedia, imponevano alla società dei giovani e degli adulti un senso della vita, una interpretazione dell’uomo e delle sue relazioni, che nulla avevano a che vedere con quanto poteva rappresentare l’armonia dello spirito e della comunità familiare, ecclesiale, sociale.

A troppi, animati solo da una preoccupazione di salvare le apparenze esteriori del vivere senza conflittualità con gli altri, è sfuggito che i valori, anche quelli evangelici, vanno inculturati nella precisa civiltà in cui ci si trova a vivere.

È inutile fuggire nell’Arcadia di una pedagogia deamicisiana, quando tutto, proprio tutto in questa società, dal linguaggio alla moda, dal mondo dei videogiochi ai divertimenti in discoteca, con annesso consumo di droga, dai film alla morale di comportamento tra i sessi, invita e seduce a una costante e facile irresponsabilità, al riparo dell’unico valore che oggi viene ritenuto degno di essere veramente conseguito: la ricchezza e il potere da esercitare sugli altri con la violenza o con l’astuzia.

In questo tipo di mondo, allora, occorre una militanza educativa che genitori, insegnanti e religiosi, non possono sperare di evitare, invocando di essere surrogati gli uni con gli altri. I genitori, con le piú svariate motivazioni, scaricano sulla scuola tutto il peso della educazione comportamentale dei figli, in aggiunta alla pretesa che essa che li istruisca tutti in funzione di brillanti risultati. Gli insegnanti sostengono che il tempo che i ragazzi trascorrono con loro è infinitamente piú breve di quello che trascorrono altrove. I religiosi, a loro volta, ritengono che il compito loro sia quello strettamente catechistico e quello di una offerta di spazi dedicati all’assistenza ludica dei giovani. E la strada e la televisione, frequentate senza controllo, hanno buon gioco nella formazione delle giovani personalità.

Si tratta allora di affermare non piú una pedagogia del permissivismo a tutti i costi, che produce individui fragili e scompensati dal punto di vista etico, per nulla garanzia di sapersi prendere in carico il futuro del paese, bensí di attuare equilibratamente una pedagogia del «controllo a distanza» con l’esempio della fedeltà a valori forti e a comportamenti anche di sacrificio e di etica del dovere. Si tratta di non incombere sui giovani con proibizioni immotivate, ma di sapere dire di no con fermezza, anche se ciò costa fatica ed energia e comporta una logica di emendamento degli errori, attraverso divieti e privazioni proporzionate alla persona e al caso. 

La tecnica e le tecnologie non bastano

Quali che siano, comunque, i canali diffusivi e l’aspetto esteriore (televisione digitale, interattiva, stampa elettronica, telefonia multifunzionale, computer e web integrati ecc.) che la comunicazione sociale assumerà nel futuro grazie alle sofisticate tecnologie, è venuto il momento dell’ultima scadenza. È divenuto imprescindibile, per chi sente la responsabilità di un ruolo sociale, mettere in atto una formazione diffusa in materia di corretto utilizzo della comunicazione sociale, sia sul versante della lettura dei prodotti, per fronteggiare ciò che altri mettono in onda o in commercio, sia sul fronte della preparazione professionale alla comunicazione (ndr. educazione A l’immagine e CON l’immagine v. schema p. 29). Coloro che, per ruolo naturale (i genitori), istituzionale (gli insegnanti) o per vocazione (i religiosi, i catechisti e gli animatori), si trovano nella condizione di dover educare, dovendo competere quotidianamente con i contenuti, i modi e i modelli della comunicazione di massa, sono i naturali destinatari di questa formazione, anche se spesso non vi danno importanza o credono che basti il buon senso o pensano di conoscere già tutto, perché hanno una infarinatura di tecnica e di psicologia.

L’obiettivo, infatti, non è quello di formare solo dei tecnici che sappiano usare gli strumenti al meglio delle loro potenzialità, ma quello di responsabilizzare e rendere coscienti di quale sistema di pensiero si deve imparare, per fronteggiare da protagonisti e non da succubi la comunicazione di massa. È venuto infatti il tempo che i tecnici puri, i cosiddetti esperti, che ultimamente hanno costituito una casta in virtú della capacità di maneggiare strumenti soprattutto informatici, facciano un passo indietro e accettino anch’essi di apprendere quello che è piú importante per rendere educativamente efficace il lavoro della comunicazione sociale: la metodologia e la abitudine ad argomentare secondo un corretto procedere del pensiero.  

La metodologia

È a questo che faceva riferimento Giovanni Paolo II nella «Redemptoris Missio»; è a questo che fa riferimento Benedetto XVI nel suo messaggio. Per potere sconfiggere un imbarbarimento della società, proprio nel momento in cui essa sembra essere piú progredita dal punto di vista della scienza e della tecnica, occorre uno strumento concettuale ordinatore della complessità e chiarificatore della essenza dei problemi, rispetto a tutto ciò che è secondario e sviante nella attuale immensa babele dei discorsi e delle immagini. Questo strumento, che non si piega alla ricerca della convenienza e del consenso, è dato solo dal rigore del discernimento e dalla capacità di sforzarsi nel ragionare in modo non frettoloso e superficiale. È uno strumento indagatore e orientato a cogliere il significato dei fenomeni e degli avvenimenti, anche se essi sono presentati attraverso la lente deformante dei mezzi di comunicazione di massa. Evitando la facile emozionalità e rifuggendo dallo schierarsi in modo manicheo per simpatia o antipatia verso persone e fatti, ci si può abituare, attraverso un cammino di vero e proprio esercizio spirituale, a capire prima di giudicare, a dubitare senza sospettare indebitamente, a costruire il senso dell’essere «nel mondo» senza essere «del mondo».

Tutto questo, pur non negando la tecnica, ha a che fare con la faticosa ricerca dei riferimenti che danno sicurezza alla conoscenza e che aiutano a distinguere a quale livello debbano essere collocati gli eventi umani e sociali. Tutto questo cerca di giungere a delle formulazioni comunicative incontrovertibili, che non possono essere messe in discussione o falsificate, se non a prezzo di negare totalmente lo svolgimento della realtà dei fatti.

A questo strumento ordinatore possiamo dare il nome di metodologia, cioè di scienza dei principi inoppugnabili, ma possiamo anche dare il nome di «spada della fede» (Matteo 10,34) che, in certi momenti della storia, richiede di essere impugnata per distinguere chi vuole davvero seguire la parola di Cristo e testimoniarla da chi trova solo conveniente servirsi di essa per tranquillizzare la propria coscienza.

È dunque una sintesi e non una opposizione tra scienza e fede, tra ragionevolezza e accettazione del mistero, quella che Benedetto XVI chiede a quanti vogliono oggi vivere in una dimensione di carità consona a questo tipo di civiltà, dove anche la cultura è, quando fatta nel segno della verità e della giustizia, un grande dono di carità. E quale cultura può esistere migliore di quella che educa alla ascesi dal mondo visibile al mondo invisibile? E poiché tutto in questa civiltà dell’immagine prende forma di spettacolo e crea una mentalità originata dallo specifico linguaggio della immagine, come non tenerne conto? Quale dono piú gradito può esserci di quello di svelare i segreti di quel mondo complesso che è la comunicazione di massa? Quale opportunità piú grande può esserci di quella di apprendere a padroneggiare il modo di arrivare al cuore e alla mente dei propri interlocutori, attraverso quel modo di far afferrare i concetti, che oggi è, invece in massima parte, strumento nelle mani di chi lo usa per combattere la fede, la religione cristiana, la chiesa e la dignità della persona umana?

La subcultura e l’antidoto ad essa   

Di fronte alla subcultura creata da un uso distorto dei media per fini che purtroppo puntano sull’abbrutimento della condizione mentale di una stragrande quantità di persone, non c’è che battersi, con una buona preparazione in questo campo. Battersi per un mutamento di rotta nei contenuti, che escludano quanto di offensivo attualmente c’è per la dignità della persona. Battersi per un uso piú responsabile nel modo di rappresentare aspetti negativi della vita e del comportamento umano, quando anche tanti adulti sono sempre disposti a scambiare l’immagine per la realtà.

La spettacolarizzazione, infatti, unita alla dose sempre piú massiccia di ingredienti che narcotizzano la coscienza, diventa responsabile della superficialità con cui si guarda agli eventi che quotidianamente mettono a dura prova la stabilità e l’equilibrio dei principi di fede cristiani. E se questo accade per gli adulti, come possiamo pensare che non succeda per i giovani?

Non si tratta solo del «fare l’abitudine» alle cose, sminuendone la drammaticità e la gravità, come accade nell’orgia di violenza finta e reale, presentata per soddisfare morbose curiosità del pubblico, ma anche di banalizzare e svilire tutto ciò che ha un senso religioso e viceversa nel rendere gradevole e attraente tutto ciò che ne è l’esatto contrario. Quello che oggi viene definito «il gran circo mediatico», ha come primo vezzo quello di stritolare nelle sue spire qualunque argomento tratti, creando un indistinguibile mescolanza di ciò che potrebbe essere importante e utile con ciò che è del tutto insignificante o addirittura negativo dal punto di vista educativo. Orientarsi nella assoluta mancanza di rigore morale o anche solo culturale, che regna nella logica perversa del mondo della comunicazione di massa, dove solo ciò che appare o viene menzionato è importante, è diventata una impresa ardua. In questo contesto sono, perciò, necessari grande forza d’animo e professionalità, che non può essere improvvisata o ridotta alle sole conoscenze tecniche. È obbligatorio sapere portare a forma unitaria tutto ciò che apparentemente sembra non strutturato e disordinato, come la molteplicità di riferimenti al mondo reale spesso in contraddizione tra di loro, per estrarne il senso e distinguere ciò che buono da ciò che è cattivo. Ma questo non tutti, e soprattutto non i bambini e i giovani, possono farlo, preda come sono ancora degli aspetti emozionali e spettacolari. Quindi, come nei confronti del mondo reale occorrono una serietà e una volontà di educare, cosí, nei confronti del mondo virtuale, servono le capacità e l’autorevolezza di chi sa mantenere incontaminato il discorso morale, anche se tratta di argomenti difficili o scabrosi e sa guidare gli altri nella lettura e nell’apprendimento del modo di comunicare, con e senza le nuove tecnologie, fino a renderli autonomi e liberi di capire senza condizionamenti. Genitori, insegnanti, educatori, religiosi, catechisti e animatori possono, pertanto, apprendere oggi quello che in tanti anni Padre Taddei ha messo a punto come strumento utilissimo ed efficacissimo per non essere sopraffatti dalla paura del laicismo e dalla abitudine, cosí diffusa tra gli uomini, a mentire. Di questo strumento, nel suo piú che cinquantennale ministero, egli ha fatto dono a tanti e tanti allievi in tutto il mondo, che oggi sentono il dovere e l’impegno di mettersi a disposizione di quanti desiderino davvero raggiungere un sereno equilibrio e una retta coscienza.

 


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