RACCONTARE STORIE
di ADELIO COLA
Edav N: 349 - 2007
Possiamo distinguere gli autori di storie in due grandi gruppi in riferimento agli strumenti da loro usati per raccontarle: quelli che si sono serviti delle parole, orali e/o scritte/stampate, e quelli che hanno usato immagini, ad esempio fotografie. Altri sanno raccontarle semplicemente con i gesti e la mimica facciale come i mimi. Grande ammirazione hanno sempre suscitato architetti, scultori, pittori e musicisti che sono riusciti a raggiungere il loro scopo creando opere d’arte, che in modo nuovo raccontano anch’esse storie interessanti e spesso affascinanti.
Nel nostro caso le parole derivano il loro significato dalla CONVENZIONE: chi parla e scrive intende esprimere per loro mezzo il proprio contenuto intellettuale e sentimentale.
Conviene ricordare, per di piú, che ogni termine ha diverse possibilità di contenuti di riferimento, cioè di accezioni, per cui il ventaglio dell’uso e dei significati relativi si allarga a dismisura.
Le parole poi non si usano separatamente l’una dall’altra, quasi fossero tutte sempre in libertà indipendenti l’una dall’altra all’interno d’una frase compiuta. Le frasi a loro volta costituiscono un insieme all’interno d’un testo e contesto. Analizzando e alla fine sintetizzando i significati di parole-frasi-testi nel contesto possiamo raccogliere il vero contenuto dei pensieri e sentimenti espressi dall’autore d’una storia con gli strumenti del linguaggio verbale.
L’operazione, con una parola convenzionale etimologicamente bene scelta, si chiama LETTURA, che con il suo vero significato indica raccolta. Con la lettura cioè si raccoglie e si conosce il contenuto interiore di pensieri e sentimenti dell’autore della storia da lui raccontata.
Abbastanza frequentemente dopo la lettura ben fatta della storia si è in grado di sintetizzarne il succo con una breve frase, che possiamo definire la morale della storia, la quale a sua volta corrisponde a quella che possiamo chiamare l’IDEA CENTRALE che ha spinto l’autore a raccontarla e che di solito va al di là del contenuto materiale della storia stessa.
Alcune storie sono state inventate e raccontate per dimostrare la verità di certe asserzioni popolari: ad esempio quella di Biancaneve, risvegliata dal sonno misterioso dall’intervento del Principe Azzurro. Altre per convincere i lettori su certe verità fondate su valori umani fondamentali: la storia, ad esempio, di Pinocchio, che arriva ad essere un ragazzino per bene dopo aver accettato docilmente i suggerimenti di personaggi che ne sanno piú di lui, inesperto della vita.
Altre storie, raccontate senza scopo didattico esplicito, diventano esemplari nel loro modo caratteristico di riferirsi a problemi concreti. È il caso di nenie e ninne nanne raccontate e cantarellate da mamme affettuose, che inducono i bambini al sonno e che contengono anche qualche indiretto insegnamento che al momento i destinatari non sono in grado di percepire ed apprezzare.
Le riflessioni finora esposte ci servono per introdurci nel campo della comunicazione cinematografica. Anch’essa, come qualunque altra comunicazione, si serve d’un linguaggio particolare. Per la verità il suo si può definire linguaggio totale (o quasi!): oggi il cinema adotta il linguaggio verbale, quello musicale, mimico, gestuale e soprattutto contornuale, cioè delle immagini tecniche, create dagli autori del cinema sfruttando le possibilità di sofisticati strumenti e di costosissime attrezzature che oggi la tecnica mette a loro disposizione.
Se quello della parole si chiamava convenzionale, quello del cinema dev’essere detto contornale perché le immagini cinematografiche, (inizialmente e fondamentalmente fotografiche), riproducono i contorni delle persone e delle cose reali che esse documentano: i contorni sono le caratteristiche qualità concrete visive e acustiche delle cose e delle persone presentate sullo schermo per mezzo dei contorni del prodotto cinematografico.
Le immagini non sono la rappresentazione autentica e vera, oggettiva in una parola, delle persone e delle cose presentate sullo schermo e tanto meno corrispondono alle qualità esterne ed interiori dei personaggi interpretati dagli artisti sotto la guida del regista del film. Circa un avvenimento e la sua storia eventuale che osserva sullo schermo, lo spettatore non viene a conoscere quello che realmente è avvenuto, ma solamente la visione personale di quell’avvenimento secondo la personale interpretazione dell’autore del film. Succede come nella lettura del giornale: non vengo a conoscere come le cose si sono svolte sulla strada, nel Parlamento, nell’aula scolastica, in famiglia dove le cose sono avvenute, ma la visione particolare del cronista e del direttore del giornale che le riferiscono.
È evidente!, commenta qualcuno. È però meno evidente, ma altrettanto vero, in riferimento ad un film, in particolare al cosiddetto documentario!
Riprendiamo in considerazione l’esempio riportato con il linguaggio convenzionale.
Nel breve testo del primo capitolo de «I promessi sposi», sono stati arbitrariamente sottolineati alcuni termini caratteristici attraverso i quali Alessandro Manzoni ha voluto esprimere la sua personale visione del personaggio descritto, don Abbondio.
Se il lettore trascura di lèggere quelle parole, egli non comprenderà il carattere e le debolezze del personaggio del romanzo, che fin dalle prime righe del primo capitolo viene indirettamente presentato come abitudinario, tranquillo fin che tutto va bene e nulla gli si frappone (inciampo) davanti ai piedi. In quanto poi alla sua superficiale lettura dell’ufizio… guardando a terra, non soltanto con gli occhi!, e girando oziosamente gli occhi all’intorno, il lettore è subito avvertito che non si troverà in seguito davanti ad un eroe. Importanti per lo scopo da raggiungere sono anche i verbi specifici: «buttando… scappando».
Trascurate di leggere quelle parole e don Abbondio non sarà poi il personaggio di Manzoni. Sarà un altro, che forse corrisponderà meglio alle attese, pre-attese e quindi pretese, d’un lettore ma quella non sarà lettura oggettiva della descrizione creata dal romanziere.
Nella lettura del cinema si esige la medesima attenzione nella raccolta dei cosiddetti contorni audio visivi delle immagini. Il pericolo maggiore consiste nell’identificazione, che lo spettatore potrebbe fare, tra le medesime immagini e le persone e le cose da esse rappresentate. Sono i contorni che consentono al regista del film di offrire sullo schermo la sua personale visione e interpretazione della storia che vuole raccontare con quei personaggi e circostanze da lui scelti e diretti per esprimere il suo pensiero e la sua interpretazione di quell’avvenimento che egli racconta sullo schermo.
Chi va al cinema per comprendere l’IDEA CENTRALE del suo autore e non soltanto per passare un po’ di tempo distensivo o per uscire dalla sala di proiezione bene informato su quello ch’è successo nel caso di cronaca o di storia antica o recente documentata (!) dal film, deve partire dalla raccolta diligente, (anche se non, come dice qualcuno, maniaca), dei contorni delle immagini del film.
Per la verità, quando ci si riferisce ai contorni, conviene distinguere i cosiddetti contorini uno dai cosiddetti contorni due. Con i primi ci si riferisce in maniera convenzionale a QUELLO che lo schermo presenta e che si riferisce ad una storia inventata oppure ad un avvenimento antico o recente; con i secondi al MODO con il quale il regista lo racconta illustrandone la sua personale visione per mezzo di particolari modalità nel fare agire e parlare gli interpreti dei personaggi.
Per andare al pratico, ogni spettatore intervistato su quello che ha capíto dalla visione del film, può dare risposta simile a quella di altri, se fa riferimento esclusivamente ai contorni uno del medesimo narrandone il riassunto. Se però gli si chiede di raccontare la storia, non soltanto la vicenda, alla quale ha assistito, la sua storia potrà essere molto diversa da quelle di altri nell’uso delle parole e dello stile letterario personale ma non nella sostanza.
Non è sufficiente ricordare che il personaggio tale o tal altro hanno detto durante il film la tal frase o compiuto la tal azione: qui siamo a livello di ‘contorni uno’. Il pensiero loro, e indirettamente quello del regista, è nel MODO con cui hanno pronunciato quella frase e compiuta quell’azione: con stizza, con rabbia, con bontà, per vendetta…
La domanda, piuttosto, è quest’altra: come fa l’autore del film ad esprimere i contorni due di immagini corrispondenti a quello che il romanziere ha espresso, ad esempio, con le parole sottolineate? Il regista non ha a disposizione aggettivi qualificativi (bel bello, stradicciole, stradetta…), avverbi (tranquillamente, oziosamente…), verbi specifici (buttando, scappando): potrebbe usare quei termini con voce in campo o fuori campo, ma nel caso, se facesse sempre cosí, userebbe mezzi letterari convenzionali e non cinematografici. Egli deve trovare il modo di fare le immagini in MODO TALE che esse dicano, talvolta per felice intuizione e tal altra con difficoltà, quello che le parole del vocabolario convenzionale dicono per convenzione.
Qui non intendiamo illustrare le tecniche e le macchine che aiutano l’autore del film ad esprimere quello che egli vuole dire.
Chiediamoci, ad esempio, come si potrebbe esprimere senza parole quell’eloquente avverbio ‘anche’ adottato da Manzoni e sottolineato alla fine del brano sopra riportato. Ci rendiamo conto della difficoltà del regista che lo volesse brevemente ‘dire’ con l’immagine corrispondente… se ci fosse!
Altra considerazione a prima vista semplicistica. Per alleggerire e facilitare la lettura del suo lungo romanzo, Manzoni lo ha diviso in trentotto capitoli.
I film lunghi parecchie ore sono pochi. Tutti però sono stati divisi dai rispettivi autori in, (non possiamo definirli capitoli!, come fa il computer quando legge un film dal DVD), ma in parti. Queste a loro volta sono, di solito, due o tre. Nel breve giro d’orologio d’un paio d’ore della durata del film non ci si può aspettare che dette parti siano in numero alto. Anche se il film presentasse, come succede talvolta, una diecina di brevi episodi, sarebbe possibile allo spettatore dividerlo in due o tre parti, perché cosí è stato diviso dal regista anche senza numerare esplicitamente le parti stesse. La diecina di episodi, ad esempio, è divisibile in due parti delle quali la prima presenta personaggi che si vendicano, la seconda altri che perdonano; la prima amici che si cercano, la seconda persone che si separano; la prima incontri con risvolti positivi, la seconda negativi. È raro il caso di film d’autore nel quale sembra che non ci sia né capo né coda ma soltanto confusione di elementi male amalgamati tra di loro e per conseguenza difficilmente distinguibili in parti.
Se partiamo volendo scoprire le due-tre parti del film che raccontano la storia illustrata dal regista, spesso le individuiamo con una certa difficoltà iniziale ma con il tempo l’esercizio diventerà sempre meno difficile. Le possiamo chiamare strutturali dal momento che esse si riferiscono alla struttura del film e cioè al modo narrativo della storia raccontata.
Se invece ci riferiamo al MODO con cui è raccontata e che, come sappiamo, esprime la particolare visione personale dell’autore del film circa la sua storia cinematografica, allora le parti, (che possono corrispondere o no alle parti strutturali narrative), le chiamiamo per convenzione semiologiche, tali cioè da comunicare, ad esempio, lo stato d’animo, (che il romanziere esprimerebbe con parole convenzionali), del personaggio al centro della storia. Allora possiamo distinguere didatticamente due strutture: quella strutturale narrativa e l’altra semiologia, che rispondono a due domande:
COM’È CAPITATO quello che è capitato nel film? (deviva dalla lettura dei contorni due).
È evidente che nelle realtà dell’unico film al quale ci si riferisce, esse coincidono con le medesime immagini rispettivamente considerate sotto il profilo del CHE COSA e del COME.
Ho accennato al personaggio al centro della storia. È un modo metaforico di riferirsi al PROTAGONISTA. Tutti i personaggi che agiscono nel film, (anche le comparse che forse non dicono e non fanno niente ma soltanto assistono a quello che fanno e dicono altri, sia pur reagendo anch’esse a ciò che succede nel film), fanno parte della struttura del film stesso. Tra i personaggi principali, restringendo la riflessione soltanto su di loro, ce ne sempre uno, (ma possono essere piú d’uno), piú importante degli altri che dicono e agiscono in funzione di lui e cioè per farlo reagire sullo schermo in modo che lo spettatore conosca il suo stato d’animo come conseguenza di quello che gli succede attorno o lo riguarda personalmente. Se avvertiamo lo stato d’animo del protagonista all’inizio del film (faccio l’esempio con un film a progressione lineare, ma ci si può riferire anche ad uno con ritorni indietro che illustrano lo stato d’animo iniziale) e poi alla mutazione della sua carica interiore alla fine, dopo che è successo quello che il film ha raccontato, noi avvertiamo che in lui s’è verificata un cambiamento di stato d’animo come conseguenza della sua evoluzione psicologica.
Anche altri personaggi possono ave subíto tale evoluzione psicologica in forza di quanto è stato raccontato dal film, ma la piú importante (si può definire in modo convenzionale quella strutturalmente di peso maggiore), è la sua.
Il regista non l’ha mai definito tale in modo esplicito ma le sue immagini sono state fatte da lui in modo tale che lo spettatore conclude legittimamente cosí.
È importante individuare il protagonista del film, perché l’IDEA CENTRALE del regista è per cosí dire adombrata da tutto il film e da tutti i suoi personaggi ma particolarmente dal protagonista. (Abbastanza frequentemente egli apre e chiude il film ma questa non è regola determinante).
Il protagonista durante il film agisce, parla e soprattutto reagisce per comunicare allo spettatore la sua «evoluzione psicologica».
Ricordare dopo la visione del film tutte le parti minori che lo compongono, esige eccessivo sforzo di memoria, che non è necessario né richiesto per afferrare l’Idea Centrale del film visto: con l’esercizio, simile a quello che fin dalle prime classi scolastiche frequentate ci hanno abituati a saper distinguere e cogliere dalla lettura di brevi racconti e di lunghi romanzi, si arriva ad accorgerci della distinzione delle due-tre parti principali e strutturali d’un film breve o lungo, dalle quali partire per raggiungere lo scopo di comunicare con il suo autore.
La lettura strutturale ci aiuterà a comprendere l’idea centrale espressa dall’autore del film. Si tratta di percentuale: il cento per cento non lo raggiungeremo mai. Del resto, quand’è che due persone arrivano a comunicare tra di loro al cento per cento? Resta quasi sempre qualche cosa in penombra se non proprio in ombra, pur comunicando con parole-gesti-mimica-regali-affettuosità convenzionali! Non possiamo pretendere di arrivare a comunicare con il regista d’un film al cento per cento, dal momento che il nostro interlocutore s’è espresso con linguaggio contornale, che è molto piú difficile da leggere (a causa della connaturalità della cosa rappresentata con la sua rappresentazione!) di quello convenzionale, a comunicare con il quale siamo stati abituati in modo naturale fin dalla prima infanzia.
Applichiamo la teoria della prima parte alla lettura strutturale d’un breve film. Preferisco riferirmi ad un film classico, che probabilmente tutti conoscono ed hanno visto.È strutturato in modo classico, chiaro e facilmente leggibile.
L’esercizio proposto potrebbe applicarsi a film recenti, lunghi e che presentano qualche difficoltà di lettura. La metodologia della lettura strutturale da adottare sarebbe la medesima; la metodica probabilmente dovrebbe essere adattata al film e cioè alla sua struttura, che, come tutti possono costatare dall’esperienza personale di spettatori, esige maggiore impegno dal momento che da qualche anno i registi scelgono strade di comunicazione talvolta complesse e non sempre immediatamente ripercorribili dal lettore per mezzo della lettura. Sembra che talora un regista faccia il possibile per non dire chiaramente ciò che vuol dire: non si sa se la scelta sia suggerita da necessità di essere in riga o in sintonia con i tempi, e quindi aggiornati nel modo di dirigere il film, o venga adottata per altre ragioni.
«Ma a cosa può servire l’esercizio proposto, visto che oggi i film si presentano in modo totalmente differente?»
La risposta corrisponde a quella d’un insegnante che consiglia lo studente a svolgere esercizi che «con la pratica della sua futura professione sembrano non avere alcuna importanza, almeno attuale!».
Gli esercizi scolastici aiutano a farsi la mentalità circa un dato argomento, ad addestrarsi a risolvere casi analoghi che nella vita si incontreranno, a comportarsi quasi spontaneamente in modo professionale, dopo lunga pratica teorico-pratica con l’aiuto ed il controllo dell’insegnante, di fronte ad analoghi problemi reali futuri. Si comincia con esercizi di facile soluzione, se ne apprende il metodo di accostamento, si imparano le regole di soluzione e con la perseveranza negli esercizi, se l’argomento interessa e soprattutto se l’allievo è animato da passione per lo stesso, l’esercitante diventa un poco alla volta esperto. Non sarà mai terminato il tempo di imparare e praticare meglio come si fa. Importante è cominciare bene; l’esperienza perfezionerà la pratica appresa.
Propongo la lettura strutturale de «IL MONELLO» (THE KID, USA 1921), film di Charlie Chaplin.
Durante la presentazione del film aggiungerò qualche nota ad integrazione della prima parte del presente studio dedicato alla teoria. Aggiungerò tra parentesi la significazione parziale di alcune inquadrature fatte in modo tale da suggerire il commento del regista di fronte alle vicende, ed infine alla storia, che egli racconta con quei caratteristici contorni due.
Il primo passa in rassegna i primi minuti di film ed è offerto a coloro che non intendono dedicarsi alla cosiddetta lettura particolareggiata di tutti gli episodi, che qui vengono chiamati nuclei narrativi; il secondo riguarda tutto il film.
La terminologia usata è quella desunta dalle opere di p. Nazareno Taddei s.j..
A. Iniziamo dalla raccolta ordinata dei Nuclei Narrativi principali, che corrispondono alle inquadrature tra loro complementari e che raccontano una situazione con le relative circostanze in modo completo in sé ma aperto allo sviluppo successivo.
1. Il titolo del film. La modalità di presentazione è quella che verrà conservata nei film a noi contemporanei: nome dell’interprete famoso di quello che di solito è il protagonista. Immediatamente segue il cast con l’elenco degli autori di sceneggiatura, musica, regia e degli interpreti principali. La didascalia mi ricorda che siamo nel tempo in cui il cinematografo non aveva ancora trovato il modo di aggiungere all’immagine il sonoro. Qui ci troviamo di fronte al compromesso: immagini con musica di sottofondo ma senza dialoghi sonori. Il commento musicale si adatterà alle situazioni tristi o allegre delle vicende e sarà possibile notare che ai personaggi principali corrispondono i relativi motivi conduttori.
2. Vedo una donna che esce da un «Ospedale di carità: la donna la cui colpa fu la maternità». La classica tecnica d’apertura e chiusura dell’inquadratura ad iride è stata imitata, tra gli altri, da F. Truffaut. Due personaggi, un’infermiera ed un secondino, accompagnano la donna che stringe al petto un neonato (è dunque la mamma) al cancello ferrato. Lei è malinconica; essi la guardano quasi con disprezzo lasciandola uscire senza salutarla e richiudendo il cancello che sembra quello d’un carcere. Seguono due brevi inquadrature: lei spaesata (in piano americano) che non sa dove andare e la statua di Gesú che porta la croce sul monte. L’accostamento nel montaggio delle due immagini assume il livello d’un certo confronto e paragone tra le due circostanze. (La reazione del regista di fronte a quanto raccontato in quel MODO è di umana e cristiana compassione).
3. Altre due inquadrature: una brevissima di lei che si siede sola su una panchina pubblica, un’altra dell’«uomo» che dopo aver ripensato a lei, la brucia per dimenticarla definitivamente ma con esplicito rimpianto. (I contorni due dicono chiaramente che l’uomo è il padre del bambino).
4. La madre desolata abbandona, dopo averlo affettuosamente baciato, il figliolettosul seggiolino posteriore d’un’automobile di lusso ferma di fronte ad un ricco palazzo. Prima di decidere cosa fare del piccolo, lo raccomanda al Cielo; azione ripetuta dopo la decisione presa sperando che qualcuno se ne prenda cura. (Il regista dice tutto con brevissime inquadrature del viso della donna e del bimbo che guarda in macchina verso la mamma). Ella s’allontana velocemente in preda al rimorso e ritorna alla panchina pubblica.
5. Due ambigui individui si sentono inseguiti (da chi? perché), salgono sulla vettura ferma e partono a tutta velocità. Si fermano, scendono dalla macchina, fumano, sentono qualcuno lamentarsi e piangere, estraggono la pistola, scoprono il bimbo, (colpiti da compassione) lo depositano ai bordi della strada e ripartono in macchina. (I contorni due ci informano che sono due ladri violenti, quello che sembra essere il capo è inizialmente addirittura tentato di sopprimere il bimbo!). La breve vicenda dei due ladri è preceduta dalla visione della donna seduta sulla panchina pubblica in preda al rimpianto e al rimorso; è seguita da lei che fugge allontanandosi in senso opposto al verso dalla quale era venuta. (Madre e figlio involontariamente si allontanano l’una dall’altro).
Riferendo le prime inquadrature che raccontano la vicenda della donna ho voluto offrire un esempio della teoria esposta nella prima parte del presente studio. È evidente che non è possibile comportarsi cosí in riferimento ad ogni film. Anzitutto la maggior parte non meritano tale fatica, in secondo luogo, come sopra ho accennato, ad un certo punto, ed è questo ad esempio, è già possibile raccogliere e sintetizzare quanto già visto con brevi frasi, corrispondenti nel caso ai primi cinque minuti di film.
Finora il regista ha raccontato la storia d’una donna, madre abbandonata dal padre (non si può concludere «marito» dai contorni due immagini) del bambino da lei partorito in un istituto di carità, che lei a sua volta abbandona con angoscia e rimorso non sapendo come mantenerlo e sperando che qualcuno se ne prenda cura. Per un caso fortuito madre e figlio si allontanano l’una dall’altro.
Le inquadrature seguenti si riferiscono al personaggio del Vagabondo, interpretato dal regista, come quasi sempre succede nei film di Chaplin.
Le sue connotazioni psicologiche sono evidenziate dai contorni due caratteristici di molte inperpretazioni di Chaplin: serenità e allegria nell’affrontare la vita e le sue difficoltà con spirito d’iniziativa, nel caso nostro con esiti alterni positivi e negativi ma che trovano la conclusione nell’happy end nel quale trionfa il grande senso umanitario che anima le scelte del Vagabondo, premiato in fine per la sua generosità disinteressata dimostrata verso un povero trovatello.
Quest’ultimo, il KID del titolo del film, viene educato dal Vagabondo in modo pratico e piuttosto disinibito circa valori morali quali il rispetto della proprietà altrui e quella pubblica, il perdono del colpevole senza volere ad ogni costo prevalere ricambiando il male con il male. Sogna un mondo perfetto, nel quale regnano felicità e pace in tutti e nel quale inserire il suo protetto. Ma quello è soltanto un sogno! La buona sorte condurrà la madre, ora affermata diva di spettacolo, a ritrovare il figlio ragazzino salvato dal Vagabondo.
Dopo aver fatto riferimento a particolari contorni due delle prime inquadrature del film, che li rendono significativi in quanto caricati dal regista di valore semiologico, possiamo stabilire un paragone tra il linguaggio convenzionale e quello contornuale. Ai verbi specifici, avverbi e aggettivi qualificativi che sono gli strumenti principali del letterato per caricare di valenza semiologica il suo lavoro, quali sono i mezzi tecnici a disposizione del regista d’un film per ottenere il medesimo scopo? L’elenco è molto lungo e potrebbe terminare con la descrizione degli ultimi ritrovati della tecnica per produrre spettacolari effetti speciali con trucchi sofisticati ed immagini virtuali computerizzate.
Quelli fondamentali sono i seguenti (cosí sintetizzati in una lezione dal prof. Olinto Brugnoli):
QUADRO: è la porzione di realtà ripresa dall’immagine sulla quale l’autore vuole concentrare l’attenzione del recettore;
PROFONDITÀ DI CAMPO: si riferisce alla distribuzione delle COSE rappresentate sui vari «piani di profondità» e al rapporto che esse vengono ad assumere tra di loro in base a tale distribuzione;
PIANO: indica i vari modi con i quali la FIGURA UMANA può venire tagliata dall’immagine;
ANGOLAZIONE: punto di vista proprio della macchina da presa per quanto riguarda l’angolo che l’asse dell’obiettivo fa con il terreno sul quale si trova (cfr. beccheggio della barca);
INCLINAZIONE: punto di vista della macchina da presa per quanto riguarda l’angolo che il lato inferiore del quadro fa con la linea dell’orizzonte (efr. rollío della barca);
ILLUMINAZIONE: modo di illuminare le cose rappresentate e di riprenderle in rapporto alla luce che possiedono e alla posizione delle fonti luminose;
FIGURAZIONE: modo di disporre le cose rappresentate e di riprenderle in funzione compositiva, in modo cioè che il gioco delle linee o delle masse, i giochi di luce o di colore creino figure (piú o meno geometriche in funzione espressiva o estetica).
Qui non si vuole esporre il contenuto della grammatica cinematografica ma solamente esemplificare alcuni elementi di risposta alla domanda sopra presentata.
Non affrontiamo l’argomento della valutazione critica del film.
La capacità di rendere espressive le immagini nella loro presentazione (inquadratura, scena, sequenza) distingue tra i registi gli artisti dagli artigiani. I critici cinematografici, dopo aver fatta la lettura strutturale d’un film passano alla relativa valutazione critica (cinematografica, tematica, artistica, morale) consegnando agli spettatori il frutto del loro lavoro di esperti.
B. Ritorniamo al «Monello» al fine di sintetizzare le immagini del film in modo da evidenziarne le parti strutturali secondarie (le infrastrutture), che poi andranno a confluire e costituire le due-tre parti strutturali del film stesso, come è stato anticipato nella «Teoria», per aver infine la possibilità di formulare con un’unica frase l’IDEA CENTRALE espressa dal regista con il suo lavoro.
L’ esempio raccoglie i nuclei narrativi traducendo i contorni due dei medesimi con termini concettuali in corsivo. Facciamo attenzione soprattutto ai contorni due del volto dei singoli personaggi!
I brevi episodi o nuclei narrativi possono essere intitolati in due modi: con un termine astratto che riferisce l’azione con il sentimento che la provoca, oppure con il nome del personaggio seguíto dal verbo indicante l’azione.
LA PRIMA PARTE STRUTTURALE DEL FILM (dall’inizio all’accettazione del Vagabondo di tenere il bimbo abbandonato nella sua casa) comprende:
- presentazione della madre: prevalenza semiologica del volto della donna in primo piano e del bambino abbandonato;
- entrata in scena del Vagabondo: il modo di comportarsi denota il suo animo sensibile e altruista ed insieme scaltro e illuminato nello sfruttamento delle circostanze. La caratteristica comicità di «Charlot» nulla toglie alla ricca umanità del Vagabondo; la scoperta del bimbo abbandonato e la cura sollecita e affettuosa lo rendono simpatico e interessante;
- il Vagabondo cerca in ogni modo lecito di disfarsi del piccolino. Suo primo incontro con il vigile (la legge). Scoperta, tra gli stracci del bimbo, del foglio della madre che prega chi lo ritrova di trattare amorevolmente l’orfanello. Decisione suggerita dall’amorevole compassione di tenerlo e allevarlo nella sua catapecchia.
- comici tentativi di improvvisarsi baby sitter;
- in parallelo: disperazione della madre tornata di fronte al palazzo dal quale è partita la vettura dei ladri con a bordo il figlio. Scarso interessamento della ricca padrona, impressionata piú dalla sparizione della macchina che dalla condizione della donna;
- nuove affettuose sollecitudini paterne del Vagabondo;
- didascalia: cinque anni dopo. L’ellissi temporale non interrompe l’ educazione familiare e al lavoro del Monello da parte del Vagabondo. Poiché il tema continua, conviene considerare quanto segue come elemento integrante della seconda parte del film;
- perplessità del vigile del quartiere di fronte al bimbo sconosciuto;
- il Monello ha imparato bene il modo di sopravvivere nella miseria: è altrettanto furbo e scaltro che il «padre»;
- norme di buona educazione e pulizia della persona prima di recarsi al lavoro;
- lavoro dei due: il Monello rompe scaltramente con intelligenti sassate i vetri delle abitazioni, suo padre li sostituisce e percepisce il pagamento del lavoro;
- un lavoro finito male per errata interpretazione del vigile che pensa d’essere tradito dal vetraio che fa il galante con sua moglie; nuovo inseguimento senza conclusione;
- rifugio in casa dei due operai vetrai. Frugale abbondante pasto quotidiano.
LA SECONDA PARTE STRUTTURALE DEL FILM intreccia la STORIA DEI DUE VETRAI CON QUELLA DELLA MADRE DEL MONELLO, «ora una grande stella», osannata dai critici dello spettacolo:
- la «Stella» riceve omaggi floreali e la visita gratulatoria del suo impresario, disperatamente geloso che uno sconosciuto abbia offerto un mazzo enorme di fiori molto maggiore del suo;
- la «Stella» distribuisce volentieri sulla strada la carità («per alcuni un dovere, per altri una gioia») ai ragazzi poveri;
- inquadratura con sofferta compassione verso un bimbo in fasce presentatole dalla madre povera: ripensa con grande nostalgia al suo abbandonato anni prima. S’introduce nella medesima inquadratura il Monello che esce sulla strada dopo il pasto. I due si guardano, lui felice, lei nostalgica che gli offre un regalino. Lei s’allontana sospirando, lui la saluta con gesti d’addio;
- il Monello fa il cuoco e sollecita il «papà» ad osservare l’orario dei pasti. Comica rassegnazione del Vagabondo ai comandi del figlio al quale ricorda le regole di galateo a tavola;
- lunga scena di litigio tra il Monello ed un compagno che gli ruba il giocattolo ricevuto dalla Stella. Intervento del manesco fratello e del Vagabondo, che difendono i loro protetti;
- istigazione del Vagabondo a combattere finché il Monello vince, consiglio di darsela a gambe quando le cose si mettono male;
- baruffa violenta tra i due adulti; il Vagabondo sta perdendo. Intervento della Stella per riportare tutti alla pace;
- secondo raund del mach e ritirata strategica del Vagabondo con il Monello dopo aver eliminato a modo suo l’avversario che si ritira sconfitto.
- Stella consegna il Monello, «che sta Male», a suo ‘padre’, che lo accoglie in braccio con grande affetto, e lo consiglia di chiamare il dottore con la promessa che lei ritornerà;
- «il dottore di campagna» visita il malato equivocando comicamente sul malato tra padre e figlio. Diversitàdi trattamento del dottore e del Vagabondo verso il malatino: indifferenza, preoccupazione;
- il dottore viene a sapere che il Vagabondo non è il padre del malato quando gli è mostrato il foglio della madre che l’aveva abbandonato. «Il bambimo ha bisogno di affetto e delle giusta attenzione! Mi occuperò della questione!», sentenzia il dottore, bisogna ricoverarlo in un orfanotrofio attrezzato;
- il Vagabondo non vuole abbandonare il Monello al quale è legato da forte affetto.
- arriva la vettura per portare all’orfanotrofio il trovatello (vedi la burocratica beneficenza pubblica!);
- opposizione del Vagabondo alla decisione di privarlo del suo Monello;
- stratagemmi del Vagabondo, privato del Monello con violenza. Atteggiamento disperato del Monello (inquadratura di straordinaria efficacia espressiva), che vuole rimanere con il padre: sua implorazione d’aiuto al cielo (come aveva fatto sua madre prima di abbandonarlo). (Il Cielo darà ascolto alle lacrime d’una madre e d’un figlio innocente?);
- fuga e inseguimento sui tetti del Vagabondo e del vigile;
- riuscita liberazione del Monello dagli uomini dell’ordine prima di arrivare alla destinazione per merito del Vagabondo;
- l’effusione della carica sentimentale tra i due è al massimo grado;
- il dottore mostra alla Stella il famoso foglio da lei scritto tanto tempo prima. Rinasce in lei la speranza di ritrovare suo figlio;
- i due fuggitivi passano la notte in un dormitorio pubblico. Il custode scopre il loro segreto e, sperando di guadagnare il premio promesso a chi ritroverà il bambino scomparso, sottrae il bambino addormentato dal letto dove riposa e lo consegna all’autorità. (Il bene va fatto soltanto se c’è interesse personale! Sono frequenti nei film di Chaplin le critiche contro avarizia e vizi sociali …);
- il Vagabondo disperato va alla ricerca del bambino scomparso;
- la Stella si presenta alle autorità. Il bambino la osserva senza conoscerla e altrettanto lei verso di lui;
- affettuoso abbraccio di lei con il figlio ritrovato;
- il Vagabondo s’addormenta sfinito e deluso sul gradino della sua casa, che trova sbarrata, e sogna tenendo in mano la berretta del Monello: villaggio sepolto dai fiori, abitanti angelici (tutti forniti di ali, anche gli animali di compagnia!), danze e feste ininterrotte…Ma un mondo cosí presenta pericoli e tentazioni, quella, ad esempio, insinuatagli dai demonietti del sesso che anche in quel mondo fanno il loro mestiere. Il Vagabondo è invitato dall’angelo Monello ad entrare nel gioco, al quale partecipano anche il vigile e gli avversari della vita reale volando allegramente qua e là come farfalle in quel paradiso terrestre;
- la gelosia alberga anche nel regno dei sogni e scatena una lotta furibonda nella quale resta vittima l’angelo Vagabondo, soccorso dall’angeletto Monello, che tenta di farlo rinvenire dallo svenimento che l’ha colpito;
- il vigile strattona il Vagabondo nel dormiveglia e lo riporta alla realtà, costringendolo con malagrazia ad allontanarsi con lui;
- lo carica su una vettura di lusso, lo fa accomodare accanto a sé sul seggiolino posteriore (destinato agli ospiti di riguardo ma anche alle persone arrestate!) e parte;
- lo fa scendere davanti ad una villa e l’accompagna con violenza, come fosse un malfattore (cos’ha fatto?), davanti alla solenne porta d’entrata;
- è accolto a braccia aperte dal Monello che esce dalla porta e gli si aggrappa al collo, e dalla Stella che lo invita graziosamente ad entrare in casa sua, riconoscente per aver salvato suo figlio. FINE
Con le prime inquadrature del film era iniziato il viaggio di allontanamento della madre dal figlio; con la terza parte quello della ricerca con il ritrovamento del figlio da parte della madre per merito del Vagabondo.
Il film, che era cominciato con una porta-cancello carcerario che si apriva e rinchiudeva abbandonando sulla strada una donna peccatrice, si chiude sulla porta d’una villa che si apre e si richiude dopo aver accolto nella sua intimità un uomo buono e generoso. Anche in questo film, come in molti altri, quella che qui ho chiamata prima parte, in realtà costituisce l’introduzione-prologo alla storia del film con la presentazione dei personaggi principali. L’epilogo è la conclusione (in questo film è positiva) della seconda parte, per cui non conviene distinguerla come parte terza. Se dunque chiamiamo rispettivamente introduzione e conclusione del film il capo e la coda del medesimo, esso è strutturalmente distinguibile in DUE PARTI, comprese introduzione (altrimenti detto prologo) e conclusione (epilogo). In riferimento a quanto avviene sono parti narrative (denotate dai contorni uno) e costituiscono LA VICENDA; in quanto semiologiche (connotate dai contorni due!) raccontano LA STORIA del protagonista.
La formulazione dell’IDEA CENTRALE raccoglie soltanto i nuclei narrativi indispensabili alla comprensione della storia.
Ogni spettatore la esprime con il suo stile: le parole usate saranno dunque diverse le une dalle altre ma la sostanza sarà pressappoco la stessa. Si può arrivare alla scelta della formulazione definitiva dopo vari tentativi di sintesi della storia. Cito, tra i numerosi esempi possibili, due modi di dire con linguaggio verbale la struttura del film che ha raccontato la storia con linguaggio contornuale.
È LA STORIA D’UN POVERO E GENEROSO VAGABONDO, il quale, dopo aver trovato casualmente un neonato abbandonato dalla madre incapace di mantenerlo, dopo aver tentato inutilmente di disfarsene con mezzi leciti e di averlo poi tenuto in casa propria come un figlio educandolo con sacrificio ed affetto alla vita e al lavoro affrontato con espedienti suggeriti dal bisogno, eludendo la legge che vieta di tenere con sé un trovatello, dopo essersi rifiutato di lasciarlo in braccio alle organizzazioni sociali che lo trattano come un pacco postale, alla fine, dopo che la madre, diventata celebre e ricca, ha ritrovato cinque anni dopo il figlio abbandonato, ha la consolazione di vedersi insperabilmente riunito al suo Monello accettando quasi incredulo l’invito della madre del piccolo ad entrare a far parte della sua famiglia vivendo nella villa della madre del figlio ritrovato.
È LA STORIA D’UN VAGABONDO ANIMATO DA PROFONDA UMANITÁ, il quale, dopo aver raccolto amorevolmente e portato in casa sua un neonato abbandonato dalla madre sulla strada e dopo averlo assistito ed educato a modo suo alla vita con grandi sacrifici affrontati con sentimenti di affetto paterno, alla fine, quando la madre ritrova fortunosamente suo figlio dopo cinque anni, È RICOMPENSATO per la sua fattiva generosità dal ritrovamento del suo Monello e dalla madre del trovatello che lo invita ad entrare nella ricca sua villa.
Sono bene evidenziati dal regista gli stati d’animo dei tre personaggi principali: il risultato costituisce il pregio maggiore del breve film, diretto ed interpretato con consumata maestria.
Per la formazione della personalità dello spettatore esso contribuisce allo sviluppo della capacità d’apprezzamento estetico delle opere d’arte cinematografica e all’ammirazione dei valori umani fondamentali.
Non è di secondaria importanza la lode che merita il regista per aver raccontata una storia che agli altri meriti aggiunge quello d’un umorismo che, pur nella critica sociale rivolta ai disvalori senza arrivare alla polemica, scaturisce dalla straordinaria capacità mimico-comica personale dell’autore del film, (è del periodo del film muto) - espressa dai contorni due che connotano le immagini -, che diverte e fa ridere lo spettatore senza scadere mai nel cattivo gusto e tanto meno nella volgarità di molti prodotti a noi contemporanei.