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I «Centochiodi» di Panorama: confusione tra apparenza e sostanza


di LUIGI ZAFFAGNINI
Edav N: 352 - 2007
Stagione di un felice interesse dei massmedia per la chiesa e il cattolicesimo? A stare al numero delle occasioni in cui si trattano questi argomenti sui libri, sulla stampa, nei dibattiti alla TV e, non da ultimo, nei film, verrebbe voglia di dire sÍ. Ma basta guardare con occhio limpido e non preconcetto al modo in cui se ne tratta per ricredersi e per avvertire che, se non proprio di offensiva e di attacco a tutto campo alla chiesa e alla religione cattolica, siamo almeno di fronte a una attenzione non certamente benevola nei confronti della «linea ratzingeriana» cosÍ ferma, cosÍ chiara, cosÍ dolcemente autorevole da costituire l’ultimo ancoraggio di serietà, anche culturale, per credenti e non.

Tralasciando le accuse immotivate di ingerenza nella vita sociale e le occasioni di bassa polemica e di infimo spessore culturale di cui anche ultimamente la chiesa è stata fatta segno sui massmedia, ci pare che il caso sollevato dalla rivista Panorama sul numero 12 di aprile 2007, a proposito del film di Olmi CENTOCHIODI sia emblematico per capire un certo orientamento.   

Si tratta di verificare se la rivista, prendendo le mosse dal film, si occupi di esso o di qualche cosa che è diverso dal film, cioè della figura di Cristo e del modo di intenderla, senza fare la necessaria lettura attenta dei testi, scritti o in immagini che ne trattano.

Ne consegue quindi che questo è piú un esercizio «culturale» o di «gossip» a sfondo pseudo-religioso che non un vero e proprio saggio scientifico e tematico. Siamo di fronte a un livello che colloca l’argomento sul piano del costume consumistico del fenomeno religioso, cosÍ come si potrebbe parlare del fenomeno vacanze al mare anziché in montagna. Prova ne sia il fatto che già la copertina chiede espressamente se piace o meno «Questo Gesú» e aggiunge però che l’argomento Cristo «spopola, ma con tendenze revisioniste». Si dà cioè un giudizio ben preciso insieme con la constatazione quantitativa del fenomeno. Inoltre si accredita che il film di Olmi faccia combaciare la figura del protagonista con quella di Cristo (Primo Piano dell’attore Raz Degan con tutti i tratti - barba, capelli, sguardo - tipici dell’iconografia classica del Cristo). Siamo cioè al livello piú basso del «mi piace, non mi piace» che poco serve a cogliere la natura essenziale dei fenomeni, ma molto è utile a ingenerare sempre piú confusione tra i livelli di apparenza esteriore e quelli di sostanza di un fatto.

Se si passa, infatti, all’interno all’articolo «Gesú, il caso» ci si accorge che del film interessa soprattutto il fatto eclatante della inchiodatura e del monsignore che rifiuta di rispondere alla domanda della sofferenza del mondo. Non c’è in questo articolo, come in nessuno degli altri, quello di Fofi e quello di Sofri, alcuno sforzo di penetrazione semiologica del racconto e di spiegazione della funzione del linguaggio cinematografico. Ciò che ne deriva è ancora una volta poco chiaro, per non dire poco onesto, perché non si mantiene mai il livello di argomentazione coerente con il presupposto della rappresentazione-interpretazione della figura di Cristo, ma si «sfora» parlando di come debba essere la religione cristiana, di cosa debba essere la chiesa cattolica, di come si debbano confrontare la figura di Papa Giovanni con quella di Papa Ratzinger, di come la chiesa post-conciliare sia ben piú «umana» della chiesa di oggi invadente e arrogante, quasi unico potere forte rimasto nella società, cui per forza di cose bisogna dare addosso (ma questo non viene esplicitato). Insomma, cavalcando una non-lettura di CENTOCHIODI di Olmi, si spiana ancora una volta la strada alla emotività su argomenti che andrebbero affrontati con ragionevolezza e competenza, pena il costante, progressivo degrado secolaristico della religione, presentata oggi sempre piú come una istanza social-psicologica di supporto all’individuo, oppresso dalle istituzioni a lui lontane come la politica e la chiesa. Insomma un cripto-protestantesimo, che dà i suoi frutti nel montare di quel parossismo egocentrico che muove la violenza quotidiana.

Ecco allora che si può concedere a Olmi che la sapienza dei libri, rappresentata dai segni e dai linguaggi che li compongono, non va cambiata con la calda umanità che si incontra nella vita. Si può concedere che, giustamente, un sano realismo deve guidare ogni buon cristiano. Ma è almeno altrettanto vero che si deve concedere a chi si occupa di cinema di pensare che anche i film sono insieme di segni e non sono la realtà e, come tali, possono ben essere inchiodati come i libri. Ma, in questa paradossale iconoclastia, allora, cosa resterebbe di quella umanità che ci piace tanto incontrare? Ci basterebbe, per dare il senso di un universo in cui Dio non è elemento casuale, quel poco di contatto diretto con gli altri che realizziamo nel breve arco della nostra vita? Dobbiamo forse tornare al mito illuminista dell’uomo vicino allo stato di natura e che ripudia, come diceva anche il marxismo l’orpello e la sovrastruttura della cultura? Olmi sembra dire di sÍ. Noi indietro alla mitologia non torniamo, soprattutto perché cosÍ toglieremmo il senso alla crocifissione di Cristo come prezzo della nostra redenzione.

 


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