GINGER E FRED
Regia: Federico Fellini
Lettura del film di: Olinto Brugnoli
Edav N: 136 - 1986
Titolo del film: GINGER E FRED
Cast: regia: Federico Fellini - sogg.: Federico Fellini, Tonino Guerra - scenegg.: Federico Fellini, Tonino Guerra, Tullio Pinelli - fotogr.: Tonino Delli Colli, Ennio Guarnieri - scenogr.: Dante Ferretti- cost.: Danilo Donati - commento musicale: Nicola Piovani - montaggio: Nino Baragli, Ugo De Rossi, Ruggero Mastroianni- interpr. princ.: Giulietta Masina (Ginger), Marcello Mastroianni (Fred), Franco Fabrizi (presentatore), Frederick Von Ledenburg (ammiraglio), Martin Blau (aiuto regista), Frederick Von Thun (sequestrato), Henri Lartigue (frate volante), Toto Mignone (Toto) - colore - durata: 126' (m. 3519) - prodotto da: Alberto Grimaldi - coproduz.: P.E.A., Roma; Revcom Films, Paris; Stella Film, Munchen - orig.: ITALIA, 1985 - distrib.: Istituto Luce/ltalnoleggio Cinematografico
Sceneggiatura: Federico Fellini, Tonino Guerra, Tullio Pinelli
Nazione: ITALIA
Anno: 1985
Una impietosa e magnifica messa a nudo della televisione come moloch di cui il pubblico e vuole essere schiavo, resa tangibile dal contrasto col valore umano e professionale di due guitti di 30 anni fa.
L'enorme melanconia che destano i due vecchi ballerini con i volti di Giulietta e di Marcello — che qui il trucco ha appesantito nell'età, quasi a farci sentire sulla pelle quel cambio di tempi, perché tutti li ricordiamo nel fulgore della loro giovinezza (da LUCI DEL VARIETÀ per la Masina e da LA DOLCE VITA per Mastroianni) — e emblematica d'una decadenza sociale che Fellini aveva già avvertito ne LA DOLCE VITA e che con la tv e precipitata. Tuttavia, qui — purtroppo — non ci sono le aperture verso una speranza trascendente che li c'erano.
La vicenda. Amelia Bonetti e Pippo Botticella avevano costituito negli anni Quaranta un sodalizio artistico di grande successo. Abili ballerini di tip tap, avevano calcato le scene dei principali teatri di rivista italiani con il nome d'arte di «Ginger e Fred», in omaggio ai grandi ballerini americani Ginger Rogers e Fred Astaire. Ora, dopo tanti anni, vengono scritturati da un potente «network», il Centro Spaziale Televisivo (C.S.T.), che li vuole esibire, assieme a tanti altri personaggi, riproponendo il loro numero piú famoso in un megashow di Natale dal significativo titolo: «Ed ecco a Voi......».
Amelia è la prima ad arrivare a Roma da Santa Margherita Ligure, dove abita e gestisce una piccola azienda con alcuni dipendenti. È rimasta vedova ed è nonna di «due splendidi nipotini» che non vedono l'ora di applaudirla alla televisione. Sono trent'anni che non vede Pippo. Era stata legata a lui
per quindici anni da un rapporto non solo artistico e professionale, bensí anche affettivo e amoroso. Appena giunta nella capitale viene assorbita nella grande macchina organizzativa di cui dispone il C.S.T. e ha modo di rendersi conto, venendo a contatto con tutta una serie di personaggi strani e strampalati, che il «loro» numero è inserito in un contesto di esibizioni quasi da baraccone e serve, in particolare, a introdurre la figura di un vecchio ammiraglio che durante la guerra ha compiuto qualche atto di eroismo.
Amelia finalmente ritrova Pippo. È un po' invecchiato, ma ha conservato intatti il suo sarcasmo e la sua voglia di scherzare. Annota in un taccuino degli aforismi un po' volgari; non perde occasione per prendere in giro qualcuno; fa il cinico (pensa solo ai soldi) e spara a zero contro la società e la televisione.
Mentre i due fanno la trafila per arrivare al momento della messa in onda — muovendosi tra una fauna umana stravagante e bislacca — Amelia viene a sapere da Toto, un loro vecchio compagno di spettacolo, che Pippo è stato in manicomio quando lei l'ha lasciato e s'è interrotto il loro rapporto d'amore e artistico. Per Amelia questa è una rivelazione di grande importanza che la porta a vedere il compagno con occhi nuovi e a cercare da lui qualche confessione, qualche confidenza; ma invano. In un momento di scoraggiamento Amelia pensa di non farcela piú e decide di ritirarsi, di rinunciare all'esibizione; ma l'intervento e i complimenti del presidente del C.S.T. le danno nuova carica ed entusiasmo.
È quasi l'ora della prova. Amelia e Pippo assistono con grande tensione ai numeri che precedono il loro. Arriva finalmente il momento tanto atteso. Ma quando stanno per iniziare il ballo, un improvviso black-out blocca la trasmissione. Questo momento di buio e di silenzio diventa per i due occasione di confidenza e di riflessione: Pippo e Amelia ritrovano per alcuni minuti, quasi per incanto, I'intesa di tanti anni prima, avvertono la loro estraneità nei confronti di questo mondo e di questa società e decidono di svignarsela. Ma la luce ritorna. Lo spettacolo riprende e i nostri due «artisti», con grande dignità e umanità, seppur con notevole fatica, portano a compimento la loro esibizione tra gli applausi del pubblico. «Ce l'abbiamo fatta», esclama con entusiasmo Amelia, e i due, emozionati, ricevono i complimenti da parte di numerosi «colleghi».
Ora tutto è finito. È il momento degli addii. Solo alla stazione, al momento della partenza, Amelia viene a sapere che Pippo da due anni è stato abbandonato dalla moglie e che ha deciso di fermarsi a Roma, con Toto, con la speranza di fare un po' di soldi. Amelia gli anticipa del denaro, lo invita a scriverle o ad andarla a trovare. Ma probabilmente questo è il loro incontro definitivo. Un ultimo «bacetto» un abbraccio affettuoso e tenero, un saluto alla «Ginger e Fred», e poi ognuno per la sua strada. Amelia, esitante, sale sul treno in partenza. Pippo viene assorbito dalle ombre e dai rumori di una stazione anonima e paurosa, mentre si parla di tv.
La struttura del racconto è lineare, nel senso che segue lo sviluppo cronologico della vicenda cosí come è stata descritta, e crea tre grossi filoni narrativi che s'innestano l'uno nell'altro come tre cerchi concentrici. Il primo, quello di Amelia e Pippo, si contrappone in modo stridente agli altri due, quello della televisione e quello della società, che sono invece tra di loro in uno stretto rapporto di continuità e di influsso reciproco.
1) Amelia e Pippo: lo spettacolo come vita.
Amelia e Pippo, in arte Ginger e Fred, a differenza di tanti altri che si esibiscono con loro nello spettacolo televisivo natalizio, sono stati dei veri artisti in passato. Ne sono prova le diverse fotografie che li rappresentano all'apice del loro successo e la fama che li ha circondati al punto da renderne tuttora vivo il ricordo. Ma questi due artisti d'altri tempi sono stati e sono tuttora due persone ricche di vita, di esperienza e di umanità. La loro carriera artistica è stata originata dalla loro bravura, dalla loro abilità; li ha uniti per un periodo abbastanza lungo della loro vita facendo nascere un sentimento autentico e profondo che, nonostante tutte le vicissitudini e le prove dell'esistenza e del tempo, è ancora fresco e vivo nel loro animo. Artisti d'altri tempi, si diceva, ma anche persone d'altri tempi, con tutto un bagaglio esistenziale, culturale e spirituale che, non solo sembra trovare riscontro nel mondo d'oggi, bensí che pare venirne svilito e soffocato. Una breve analisi dei due protagonisti può servire a evidenziarne lo spessore psicologico e umano.
Amelia. Dei due è quella che nel film possiede maggior peso e sviluppo narrativo e che viene connotata con maggior ricchezza di sfumature psicologiche. Arriva a Roma piena di speranze. Non solo e non tanto per apparire in televisione e accontentare cosí i nipotini, ma, come confesserà in seguito, per la «gran voglia» di rivedere Pippo. Dimostra una grande sensibilità e bontà d'animo; è gentile con tutti, garbata e condiscendente. Nonostante una certa ingenuità di fondo e una sostanziale apertura nei confronti degli altri è però pronta a rifiutare le «avanches» di qualche conquistatore da strapazzo e a prendere le distanze da certe persone dal comportamento ambiguo o riprovevole. È contenta e orgogliosa di essere nonna, si rivolge con affetto al marito morto di cui conserva la fotografia, telefona a casa per dare e ricevere notizie. Cerca insistentemente Pippo, tradendo l'emozione di una ragazzina al suo primo appuntamento. Le sue principali preoccupazioni sembrano essere quelle di avere un aspetto presentabile (si guarda frequentemente allo specchio) e di aver l'opportunità di fare delle prove prima di andare in onda.
L'incontro con il partner non è dei piú romantici: Pippo è il rumoroso signore della stanza accanto, che le impedisce di dormire con il suo russare, che le si presenta insonnolito e scarmigliato, che stenta a riconoscerla. Ma l'indomani, seppur con delicatezza, Amelia cerca di sapere qualcosa della sua vita, di colmare il vuoto di quei trent'anni di separazione. Lo rimprovera, anche, e lo redarguisce per certe sue affermazioni, ma quando viene a sapere da Toto delle sue disavventure dopo che si erano lasciati, si commuove e s'intenerisce di fronte a quelI'uomo che vuol fare il duro. Amelia ha anche un momento di scoraggiamento prima dello spettacolo: si sente fuori posto, avverte il disagio di una situazione quasi grottesca e vuole ritirarsi. Ma basta poco per rincuorarla e convincerla a «non abbandonare il suo posto». La sua sensibilità si manifesta anche nel suo atteggiamento di paura di fronte a quelle «voci di trapassati», che vengono esibite da una strana coppia di madre e figlio, e nella sua attenzione e curiosità di fronte al «fraticello dei miracoli». Poi, il grande momento. Amelia rivive con gioia e commozione il clima di un tempo anche se, durante il black-out, comprende che tutto ciò non può che essere l'illusione di un momento, un frammento di tempo che ritorna per poi svanire per sempre. E felice e commossa per gli applausi che riceve. Infine si accomiata da Pippo con tanta tenerezza ed affetto, ma anche con tanta nostalgia e con la lucida consapevolezza che ormai non c'è piú niente da fare.
Pippo. Solo durante lo sviluppo narrativo del film veniamo a sapere della sua situazione familiare e delle dure prove che ha dovuto subire nella sua vita. Forse proprio perché cosí provato Pippo ha assunto una maschera, un atteggiamento di difesa che si avvale delle armi dello scherzo e dell'ironia. Fa il gradasso, prende in giro tutti con allusioni talvolta volgari, è evasivo nelle risposte, si compiace dei suoi aforismi da quattro soldi. È preoccupato per i crampi che ogni tanto l'assalgono e soprattutto per la situazione economica in cui si trova (continua a parlare dei soldi che dovrebbero dargli e alla fine accetta un «prestito» da Amelia). Ma dietro questa scorza di cinismo e di indifferenza traspaiono sentimenti e pensieri ben piú profondi. Il discorso sulle «voci» lo fa meditare sulla morte che forse non è tanto lontana: «Mi pare di sentire che presto me ne devo andare... È come se le cose mi guardassero in maniera strana, come se mi volessero salutare: “Addio, Pippo”». La presenza di un criminale ammanettato diventa occasione per scagliarsi con violenza contro la società che sfrutta le persone: «Ci dobbiamo ribellare, ai soprusi di questa società... Io avvampo». Racconta un sacco di frottole (e per questo viene rimproverato da Amelia) ma lo fa con fantasia e originalità (si veda ad esempio la sua spiegazione delI'origine del tip tap, come «alfabeto morse degli schiavi»). Pur continuando a scherzare, dimostra un certo pudore e una certa delicatezza, avvertendo il disagio di spogliarsi di fronte ad Amelia. La sua rabbia e il suo rancore ogni tanto esplodono anche contro la televisione e i suoi sistemi; contro quei «pecoroni» di Italiani che guardano sempre e solo la televisione, che sono diventati «teledipendenti». Continua a bere e a fumare prima dello spettacolo, manifestando una grande tensione nervosa che lo porta ad assumere un'espressione impietrita e quasi allucinata. Ma anche per lui il black-out costituisce il momento della verità. Il buio esterno porta a veder chiaro dentro: «Ma che cosa siamo venuti a fare qui?... Siamo stati proprio due matti... Andiamocene via». Di fronte alla reazione di Amelia, che lo chiama «buffone», Pippo cambia registro, diventa piú tenero, comprensivo, per un momento getta via la maschera. I due si parlano con semplicità ed affetto, come allora. Pippo ammette di essere stato in manicomio, di aver sofferto di «sindrome d'abbandono, di solitudine», di aver provato anche lui una gran voglia di rivedere la partner. Ma nelle sue parole c'è anche tanto sconsolato realismo: «Siamo dei fantasmi che vengono dal buio e nel buio se ne vanno». Alla fine, al momento del commiato, lo vediamo veramente commosso, con gli occhi lucidi. Poi sembra svanire tra le oscure presenze di una squallida stazione, senza lasciare traccia di sé.
Nel film la televisione è una presenza invadente, ossessiva, martellante. La troviamo dappertutto: in stazione, sul pulmino, in albergo, nelle camere da letto, nella sala da pranzo, sul torpedone, ecc. Essa domina e condiziona pesantemente la vita e il comportamento delle persone che ne diventano succubi, giustificando in tal modo le sarcastiche accuse che Pippo rivolge con rabbia e scherno agli Italiani: «Pe-co-ro-ni» «teledipendenti». Basti pensare al comportamento del personale dell'hotel Manager, quando arriva Amelia con altri ospiti, per rendersi conto del disinteresse e del menefreghismo che esiste nei confronti dei clienti, a causa di un cronico e quasi inconscio attaccamento al piccolo schermo (soprattutto in occasioni di trasmissioni di massa, come quelle che riprendono avvenimenti sportivi).
La televisione è anche un'imponente macchina organizzativa che può disporre di enormi mezzi finanziari e di apparecchiature le piú moderne e sofisticate. Ma è un'organizzazione fredda, anonima, impersonale, meccanica. Vien subito da pensare all'accoglienza glaciale, da automa, che viene fatta ad Amelia da parte dell'accompagnatrice che va a prelevarla alla stazione; ai modi sbrigativi e inurbani di gran parte degli addetti ai lavori; all'atteggiamento altero e distaccato del vice regista che a malapena dà retta ad Amelia, tutta intenta a tentar di spiegargli il suo «numero». Anche le apparecchiature e gli strumenti vengono insistentemente rappresentati nella loro «mostruosità», nella loro gigantesca e disumana imponenza. Si pensi alle enormi antenne, ai riflettori che arrivano a violare la «privacy» perfino nelle camere da letto, alle costruzioni avveniristiche, ma fredde e incombenti .
Ma la televisione è soprattutto una struttura di potere, non solo nel senso che per farvi carriera è necessario avere certe conoscenze (la presentatrice che ha subito «sfondato» perché amica del direttore generale), ma soprattutto in forza delle trasmissioni e dei programmi che vengono continuamente emessi.
Già all'inizio, alcune immagini dissacratorie nei confronti di Dante Alighieri danno il polso di un certo tipo di «cultura» massmediale, caratterizzata da superficialità, dabbenaggine e luoghi comuni. In seguito bastano poche immagini, quelle provocate da Amelia che aziona il telecomando per permettere di individuare alcuni tra i piú diffusi e tipici «generi» televisivi, basati quasi esclusivamente sul richiamo sessuale, sulla violenza, sugli inflazionati quiz; il tutto condito da una congerie di messaggi pubblicitari che fanno violenza agli stessi programmi, oltre che, ovviamente, agli spettatori, inserendosi nei momenti piú impensati e inopportuni con il solo diritto del piú forte.
Da notare che quasi tutti (se non tutti) i messaggi pubblicitari si riferiscono a cose di tipo culinario (la pizza, I'olio, il sugo, la mortadella, la porchetta, la polenta con le salsicce, ecc.), quasi a sottolineare un certo atteggiamento gaudente e materialistico e, nel contempo, istintivo e primordiale.
Tuttavia l'aspetto piú degenerato della televisione viene individuato nella sua capacità e volontà di trasformare tutto e tutti in spettacolo. Sempre alla ricerca di «storie che funzionino» e di particolari che commuovano, la televisione non si preoccupa tanto di avere delle persone di spettacolo, ma di trasformare in spettacolo le persone. Ne è tipico esempio la fantasmagorica galleria di personaggi che vengono convocati per le trasmissioni di Natale, vera fauna umana (ma anche animale) bramosa di offrire il proprio «volto» alle telecamere per avere un po' di notorietà (e di soldi). A partire dai sosia di personaggi celebri (Lucio Dalla, Clark Gable, Proust, Reagan, la regina Elisabetta, Woody Allen, Claudio Villa, ecc.) il cui unico merito sembra essere quello di assomigliare ad un'altra persona, ai vecchietti che suonano, al professore tedesco specialista in chirurgia plastica, all'industriale cui i rapitori hanno tagliato un dito, agli esuberanti culturisti, alla scimmietta ammaestrata, al pluridecorato che esibisce le sue medaglie, alla vacca superdotata, ai barboni presi dalla strada, al criminale ammanettato, alI'inventore delle mutandine commestibili, ecc. ecc..
Oltre a questi «personaggi» vanno ricordati particolarmente anche quelli che vediamo comparire durante lo spettacolo vero e proprio. In una sontuosa cornice fatta di retorica, di esteriorità, di lustrini, di ipocrisia e di artificiosità vengono presentati e dati in pasto al pubblico: un prete con tanto di fidanzata, un transessuale «consolatore» di giovani carcerati, il «fraticello dei miracoli», I'onorevole Tartina che digiuna da quarantacinque giorni per l'abolizione della caccia, i due sensitivi che registrano voci dell'al di là, i nani che ballano e cantano, un ammiraglio decrepito ma eroico. Oltre, naturalmente, a Ginger e Fred e a un personaggio che diventa un po' I'emblema dello spettatore medio, teledipendente cronico: una casalinga che per denaro si è sottoposta all'esperimento di rimanere per un mese senza televisione e che ora, piangente, maledice quel denaro e, con la forza della disperazione, canta: «Mai piú, mai piú senza televisione!». Qui l'ironia e il sarcasmo di Fellini raggiungono veramente l'apice e l'espressione piú felice.
Come si vede, quasi tutti i personaggi presentati, piú che gente di spettacolo sono gente che rappresenta incarna un problema piú o meno importante e drammatico della realtà contemporanea, di cui però la televisione rappresenta solo gli aspetti piú superficiali, consumistici, spettacolari. Insomma la televisione viene presentata come un gigante (dai piedi d'argilla, perché basta un black-out per metterla in crisi, ma pur sempre un gigante), come il dio della nostra epoca (il riferimento al silenzio che bisogna osservare, «come per andare in chiesa»), come un moloch che tutto prende, inghiotte, fagocita per trasformarla in spettacolo. Il sensazionalismo è la sua legge: mescola tutto in un intruglio dove non esiste piú distinzione, differenza, valore, ma solo spettacolo, consumo, sensazione, commozione per un pubblico beota e spersonalizzato.
3) Il contesto socio-culturale che emerge in quest'ultima opera di Fellini è tra i piú tristi e decadenti che si possano immaginare. Già al suo arrivo in stazione a Roma, Amelia viene quasi inghiottita da una folla anonima, frenetica e caotica. È una società di massa cosmopolita (si vedano i numerosi negri e stranieri che cercano di sbarcare il lunario vendendo di tutto); è il viavai di un'umanità brulicante che non si sa dove è diretta e dove vada a parare. I grandi cartelloni pubblicitari (che richiamano e continuano la pubblicità televisiva) piuttosto brutti e volgari e l'enorme zampone che troneggia nel bel mezzo della stazione esprimono inequivocabilmente il materialismo e il consumismo imperanti. L'insistente sottolineatura degli enormi cumuli di immondizie fumanti, della sporcizia e delle brutture di una Roma tutt'altro che da cartolina e precisa denuncia di una situazione di degrado che non è solo materiale ed esteriore, bensí anche di natura psicologica e spirituale. La scena notturna davanti all'hotel Manager, con quell'orda di motociclisti scatenati e paurosi (alcuni dei quali sollevano l'acqua di un'enorme pozzanghera), in un contesto di luci accecanti, di personaggi ambigui e volgari, in un crescendo di musiche stridenti e di rumori assordanti è forse quella che stigmatizza con maggiore efficacia quell'inferno, in cui una società alienata e abbrutita è inevitabilmente precipitata.
La struttura cinematografica rivela il carattere di affinità e di continuità esistenti tra il secondo e il terzo filone. Il mondo della televisione è al tempo stesso espressione, causa ed effetto di un piú vasto contesto socio-culturale; tale contesto inquadra e universalizza con la sua disumanità la disumanizzazione sistematicamente in atto nell'effimero universo televisivo.
Sempre a livello di struttura è invece chiarissima la netta contrapposizione e lo stridente contrasto esistente tra il primo filone, quello di Amelia e Pippo, e gli altri due che, alla fine, riescono a prevalere. La profonda umanità (pur con tutti i limiti e i difetti) rappresentata da Amelia e Pippo — sembra dire il regista — è cosa d'altri tempi e non può sopravvivere in un mondo — quello contemporaneo — ormai radicalmente guastato, corrotto e disumanizzato dalla massificazione e dalla strumentalizzazione, dalla tecnocrazia e dal materialismo.
L'immagine finale è quanto mai significativa e precisa dal punto di vista strutturale: il primo filone è scomparso (Amelia è partita; Pippo sembra essere stato inghiottito dalla stazione); gli altri due filoni si congiungono e sembrano permanere ed imporsi con la loro allucinante negatività: lo zampone oscurato, i cartelloni pubblicitari, una persona infreddolita che saltella, un'altra seduta che guarda la televisione, il cui sonoro diventa sempre piú forte e assordante. Amelia e Pippo sono veramente «dei fantasmi che vengono dal buio e nel buio se ne vanno»: non c'è spazio per loro in questo mondo.
Si è osservato come la struttura del film sia unitaria ed efficace nell'esprimere l'idea centrale.
Ma essa è anche squisitamente cinematografica, in quanto nasce dal gioco e dalla giustapposizione dei tre filoni, all'interno dei quali è possibile far rientrare tutto il materiale narrativo.
La recitazione è validissima non solo da parte di Giulietta Masina e di Marcello Mastroianni, e non solo a livello di «cosa rappresentata», bensí soprattutto in quanto capacità immaginifica di dizione con una sua precisa e autonoma espressività. L'uso del sonoro non è in funzione meramente riproduttiva delle parole, della musica e dei rumori, ma è creazione di stati d'animo, di atmosfere magiche e irripetibili. Si pensi per esempio alla scena-chiave del black-out: può sembrare a prima vista — e considerata a un livello piuttosto basso della piramide strutturale — scarsamente cinematografica per il predominio delle parole sull'immagine. Essa invece è altamente espressiva proprio a livello semiologico per il netto contrasto che riesce a creare, sia visivamente, tra lo sfavillío delle luci dello spettacolo e il buio improvviso, sia sonoramente, tra il frastuono quasi stordente e quel magico silenzio in cui s'innestano le parole sussurrate, quasi provenienti da un'altra dimensione. Osservazione analoga vale per la scena in cui Amelia e Pippo, guidati da Toto, riescono ad appartarsi in un'ala dell'edificio, in fase di restauro, per cambiarsi d'abito e fare le prove. Anche qui l'immagine visiva e quella sonora esprimono chiaramente come solo staccandosi dal mondo fittizio e frastornante della televisione sia possibile far emergere la verità anteriore e la profonda umanità delle persone.
Tematicamente il film esprime con chiarezza e in modo convincente l'assunto tematico, riuscendo a creare un'efficacissima contrapposizione tra un mondo ricco di valori umani e un altro ormai completamente disumanizzato.
L'idea tematica che ne deriva è triste e sconsolata, malinconica e dolente e rivela un certo pessimismo di fondo, pur temperato da una grande ironia e da un pungente sarcasmo. Qui il discorso investe anche il campo morale. Non sembra esistere alcuna prospettiva o possibilità di riscatto per un mondo posto completamente sotto il segno negativo e per un'umanità alienata e smarrita. Il regista (il film non è esente da riferimenti autobiografici soprattutto per la rassomiglianza Pippo-Fellini) sembra essere sfiduciato e amareggiato. Piú che dire: «Cosí non va», sembra affermare: «Non c'è piú niente da fare».
Ma la profonda nostalgia (che traspare da ogni immagine) per un mondo autenticamente umano, unitamente alla lucida denuncia della mancanza di valori non possono che essere valutati positivamente.
E c'è da sperare che lo spettatore sappia volgere il pessimismo felliniano in stimolo per la riflessione e per la presa di coscienza, premesse indispensabili di un'opzione di riscatto e di affrancamento. (Olinto Brugnoli)
È la storia di Ginger e Fred — una coppia di vecchi guitti, veri artisti, un tempo uniti anche sentimentalmente, che 30 anni prima avevano entusiasmato il pubblico del varietà imitando Ginger Rogers e Fred Astaire e poi s'erano separati (con reciproca ma tacita e profonda sofferenza), riassorbendosi nella vita ciascuno la propria strada — i quali, avendo accettato — variamente solleticati — l'invito di una stazione televisiva a ripetere il loro vecchio numero (che, nell'intento degli organizzatori, durante un grandioso spettacolo natalizio, deve servire per ricreare l'atmosfera di quegli anni, preparando anche l'intervista di un ormai cadente ammiraglio), nel ritrovarsi dopo tutto quel tempo, sentono profondamente il disagio di un ambiente di spettacolo cosí cambiato e sostanzialmente vuoto, tanto da ritenere quasi pazza l'idea di aver accettato; e, mentre stanno per sgattaiolare via approfittando di un'interruzione di corrente proprio all'inizio del loro numero, obbligati ormai dalla luce improvvisamente ritornata, lo portano a termine con estremo impegno e notevole bravura nonostante l'età, e poi, pur avendo assaporato un briciolo della gratificazione che lo spettacolo di massa induce, dopo essersi salutati tristemente, con la promessa di rivedersi ben sapendo che ciò non avverrà, vengono re-inghiottiti dal flusso di una società sempre piú dominata dalla tv e dalla pubblicità abnorme che ne è il frutto.
I «come» narrativi: lo spettacolo attuale — praticamente il moloch televisione — è completamente diverso da quello d'un tempo, sia come tipo di organizzazione, sia come contenuti, ma soprattutto come tipo d'impegno personale (preparazione, costumi, trucco, ecc.); invade ogni settore dell'esistenza (il generale, il malavitoso, ecc.) facendone spettacolo; esaspera il fatto pubblicitario con influsso sul comportamento (p.e. gli affissi stradali e lo zampone della stazione, la ridda delle moto), dominando la vita quotidiana della società attuale.
I «come» semiologici: la tv è praticamente un carcere (il pulmetto che trasporta gli invitati) a incolonnamento totalitaristico (p.e. la marcia per l'ingresso agli studi), enorme complessità organizzativa (l'organizzazione dello spettacolo), vero moloch senz'anima (p.e. i vari momenti dell'accoglienza a Ginger); è una realtà divistica (p.e. l'entrata negli studi «come in chiesa», l'assistente regista) e pura apparenza e falsità esteriore (p.e. il set, il presentatore, la conduzione dello spettacolo). Di contro, Ginger e Fred sono guitti (successo di un tempo, non qualificato per cultura e per arte, presso un pubblico di varietà), ma ricchi — come semplici uomini — di valori veri, nonostante il tipo di professione: dall'impegno per il lavoro (la preoccupazione per la preparazione sia dell'abbigliamento e del trucco, sia dell'esercizio; Fred vuole portare in fondo la danza, nonostante il grandissimo sforzo) alla sincerità e profondità degli affetti.
Significazione immediata: Il reincontro di Ginger e Fred alla tv per un loro vecchio spettacolo, dove profondono come una volta tutto il loro impegno, oggi aggravato dall'età e da 30 anni di inattività, permette di intravedere quali differenze la televisione abbia apportato non solo nell'organizzazione esteriore dello spettacolo, bensí nella situazione umana e sociale, proprio a causa di come essa è concepita per uno sfruttamento del pubblico, in funzione di pubblicità.
Elementi universalizzanti: tutti i personaggi sono presi a livello di «persona umana inserita in una società»; lo spettacolo televisivo è preso come fatto esistenziale, cioè di vita contemporanea (l'inquadramento di tutti gli elementi narrativi nel contesto di ciò che oggi succede a tutti e tutti i giorni).
Idea centrale: la tv è un moloch, anche per colpa del pubblico che se ne è lasciato dormire, che, con la fantasmagoria grandiosa delle sue abbacinanti apparenze, ha svuotato l'individuo e la società contemporanea dei veri valori e perfino del loro gusto, determinandoli all'incondizionato servizio di chi la possiede.