RAN
Regia: Akira Kurosawa
Lettura del film di: Olinto Brugnoli
Edav N: 139 - 1986
Titolo del film: RAN
Titolo originale: RAN
Cast: regia: Akira Kurosawa - scenegg.: Akira Kurosawa, Hideo Oguni, Masato Ide - fotogr.: Takao Saito, Masaharu Ueda - suono: Fumio Yanoguchi, Shotaro Yoshida - scenogr.: Yoshiro Muraki, Shinoby Muraki - cost.: Emi Wada - mus.: Mitsuru Takemitsu - mont.: Akira Kurosawa - interpr. princ.: Tatsuya Nakadai (Hideotora Ichimonji), Akira Terao (Taro Takatora Ichimonji), Jinpachi Nezu (Jiro Masatora Ichimonji), Dainsuke Ryu (Saburo Naotora Ichimonji), Mieko Harada (Kaede no Kata), Yoshiko Miyazaki (Sue no Kata), Takeshi Nomura (Tsurumaru), Peter (Kyoami), Hisashi Igawa (Tetsu-shuri) - colore - durata: 163' (m. 4890) - prodotto da: Serge Silberman per la Greenwich F.ilm Production e S.A. (Parigi) e Herald Ace Inc. e Nippon Herald Films Inc. (Tokyo) - orig.: GIAPPONE, 1985 - distrib.: Medusa
Sceneggiatura: Akira Kurosawa, Hideo Oguni, Masato Ide
Nazione: GIAPPONE
Anno: 1985
Premi: OSCAR 1986 MIGLIORI COSTUMI (Emi Wada)
«Ho sempre avuto una grande passione per la storia, in particolare per il secolo XVI, il nostro Rinascimento. Sul piano politico come su quello culturale e stata l'epoca piú ricca e vitale della storia del Giappone. La gente viveva in maniera molto piu libera di oggi e aveva un altissimo senso estetico; lo si vede anche negli abiti, nelle armature, raffinatissimi. RAN è il mio quarto film ambientato in quel grande secolo, dopo I SETTE SAMURAI, IL CASTELLO DELLA RAGNATELA e KAGEMUSHA. L'idea del mio ultimo film mi venne una decina di anni fa mentre leggevo un libro di storia. Nel secolo XVI ci fu un signore chiamato Motomari Mori. Meno noto dei suoi coetanei Shingen Takeda e Nobugana Oda (protagonisti del mio penultimo film, KAGEMUSHA), perché il suo feudo era lontano dalla capitale e perché riuscí a riunificarlo solo quando era già avanti negli anni, Mori fu però un politico e un generale di prim'ordine.
Altrettanto leggendari sono diventati i suoi figli: quando sentendosi troppo vecchio, Mori decise a sorpresa di dividere il feudo tra i suoi tre figli (in Giappone tutti conoscono la storia delle tre frecce), questi si rivelarono in tutto e per tutto degni del padre; grazie alla loro intesa il feudo poté prosperare e ingrandire. Mentre riflettevo su questa storia cosí edificante mi domandai: cosa sarebbe accaduto se i figli di Mori si fossero comportati come le figlie di Re Lear?... A un certo punto — non saprei spiegare come: le cose non avvengono quasi mai in maniera logica — alla storia di Mori si e mescolata quella di Lear. Rifacemmo piú volte la sceneggiatura finché non fummo soddisfatti; alla fine io e i miei collaboratori abituali non sapevamo piú cosa appartenesse a Shakespeare e cosa invece fosse frutto della nostra immaginazione».
(Da un'intervista a Kurosawa da parte di Aldo Tassone, pubblicata su «Epoca» del 21 marzo 1986).
La vicenda è ambientata nell'arcipelago giapponese del XVI secolo. Il grande Principe Hidetora, capo indiscusso e patriarca della casata degli Hikimonji, giunto all'età di settant'anni e resosi conto di non possedere piú l'energia e la possanza fisica di un tempo, decide di lasciare il potere nelle mani dei suoi tre figli. Taro, il primogenito, avrà il comando della casata e il primo castello; Jiro, il secondogenito, comanderà il secondo castello; Saburo, il piú giovane, il terzo. Hidetora si ritirerà, con le sue concubine e con una guardia del corpo composta da una trentina di abilissimi guerrieri, nei bastioni del primo castello; conserverà il titolo e le insegne come spetta al patriarca e sarà ospite, a turno, dei tre figli che, secondo le sue intenzioni, dovranno andare d'amore e d'accordo e rimanere sempre uniti per far fronte agli eventuali nemici.
Hidetora manifesta queste sue intenzioni al termine di una battuta al cinghiale e alla presenza, oltre che dei figli e del suo seguito, di due feudatari che, desiderosi di rafforzare i legami d'amicizia con Hidetora, offrono entrambi una loro figlia in isposa a Saburo, I'unico dei tre fratelli che ancora non è sposato. I due feudatari sono il signore Fujimaki e il signore Aiabe.
Di fronte alle decisioni di Hidetora, i due fralelli maggiori si schermiscono, ma finiranno per accettarle; Saburo invece, con tono franco e deciso, accusa il padre di pazzia senile.e si oppone al suo progetto fino al punto di essere cacciato dalla sua presenza e bandito dal territorio degli Hikimonji. Troverà protezione ed aiuto da parte di Fujimaki che può finalmente diventare suo suocero.
Da questo momento gli eventi precipitano. La principessa Kaede, moglie di Taro, che ha avuto la sua famiglia d'origine distrutta dal vecchio Hidetora, mette in atto il suo piano di vendetta e aizza il marito contro il genitore. Anche Jiro, spinto dal fratello e sotto l'influsso di alcuni consiglieri che tramano perché il loro principe possa diventare il capo della casata, si rivolta contro il padre. Questi, rifugiatosi nel terzo castello, viene tradito dai perfidi Icoma e Ogura e consegnato praticamente nelle mani dei figli, le cui truppe distruggono completamente la sua guardia del corpo. Hidetora impazzisce e può salvarsi solo grazie all'aiuto del fedele giullare Kyoami e dell'integerrimo guerriero Tango che lo assistono nel suo folle girovagare senza meta.
Nel frattempo il fedelissimo consigliere di Jiro, Kurogane, approfittando della battaglia presso il terzo castello, uccide Taro per spianare al suo signore la strada del potere assoluto. Jiro si fa però sedurre dalla cognata Kaede e su insistenza di questa, pur con riluttanza, ordina di far tagliare la testa alla moglie Sue, la quale pure aveva avuto la famiglia annientata dal vecchio tiranno, ma che aveva reagito rivolgendosi intensamente al culto del Budda. Kurogane però si rifiuta di eseguire il terribile ordine e, con uno stratagemma, fa fuggire Sue con il giovane fratello Tsurumaru, al quale Hidetora aveva a suo tempo fatto cavare gli occhi e nel quale si era casualmente imbattuto nel suo girovagare.
Finalmente rientra in scena Saburo, fatto intervenire dal guerriero Tango per salvare il vecchio padre, spalleggiato dalle truppe di Fujimaki e successivamente da Aiabe. Jiro sembra aver perduto la testa; ormai vuole il potere a tutti i costi e ordina ai suoi di uccidere il fratello Saburo. Nella battaglia che segue, gli uomini di Saburo ottengono la vittoria; ma questi, che nel frattempo ha ritrovato il padre e si è riappacificato con lui, viene ucciso in un'imboscata. Hidetora s'accascia morente sul corpo del giovane figlio ritrovato. Kaede, che nel frattempo è riuscita a far decapitare la povera Sue, viene a sua volta uccisa da Kurogane. Jiro viene travolto dalle truppe alleate di Saburo.
Alla fine assistiamo al corteo funebre di Saburo e Hidetora e rivediamo il povero cieco Tsurumaru che, ormai completamente solo, barcolla paurosamente sulla torre del suo ex castello distrutto da Hidetora.
Il racconto segue linearmente lo sviluppo cronologico della vicenda, che viene però incorniciata da un prologo e da un epilogo con chiara funzione emblematizzante e con forti connotazioni simboliche.
All'interno del grosso corpo centrale narrativo, il racconto crea e sviluppa tre grossi filoni in funzione tematica: quello della vicenda vera e propria, quello che si riferisce alla religione e quello relativo alla natura.
1. La storia di Hidetora e della sua casata (mi se,mbra infatti che protagonista del film non sia solo il vecchio patriarca, ma un po' tutta la sua famiglia) è storia di lotte, di intrighi, di tradimenti, di atrocità, di vendette. Il tutto per il potere (come fine da raggiungere) e a causa del potere (come male che genera altro male). Il grande Principe Hidetora ha trascorso cinquant'anni della sua vita a combattere contro altri feudatari per ottenere il dominio di un grande territorio. Ha ucciso e sterminato con la forza e con l'inganno e ora, a settant'anni, sogna una vecchiaia serena e pacifica al riparo dei suoi devotissimi figli.
Nonostante il sogno promonitore (lui, solo, in una landa selvaggia, senza che nessuno gli risponda e lo aiuti), Hidetora annuncia ufficialmente e con fermezza le sue decisioni, in un clima di forte tensione drammatica.
Egli s'adira con il giovane Saburo, che irrispettosamente lo contrasta, senza rendersi conto che la rude franchezza del figlio è segno di amore e di saggezza.
Saburo ha capito meglio di tutti quello che inevitabilmente finità per accadere e, senza mezzi termini, apostrofa il padre: «Cosa credete che sia questo mondo?... Avete vissuto senza misericordia e senza pietà... siete un pazzo a pensare che tutto vada secondo i vostri desideri... finiremo per batterci tra noi».
I due figli maggiori, piú ambiguamente, accettano con docilità le decisioni paterne ma, appena toccano il potere, si sentono subito diversi. «Il potere contamina tutto e tutti», ha dichiarato Kurosawa. Ed ecco sorgere i primi intrighi e le prime lotte.
Seguendo i consigli rispettivamente di Kaede e di Kurogane, Taro e Jiro si coalizzano contro il padre cercando di ucciderlo per impossessarsi delle insegne, simbolo, appunto, del potere. Jiro, poi, prosegue nella sua folle corsa verso il dominio incontrastato senza fermarsi di fronte a nulla, perché, come gli ricorda Kurogane, la strada che ha scelto non ammette tentennamenti ma deve essere percorsa fino in fondo. La «logica» del potere vuole che vengano tolti di mezzo tutti gli ostacoli, senza indecisioni né remore.
Si potrebbe dire, quindi, il potere come tentazione, come contaminazione, che porta a prevaricare e a compiere ogni genere di efferatezze: il potere come male.
Ma Jiro, alla fine, diventa vittima del diabolico piano di Kaede che lo spinge ad un attacco sconsiderato contro Saburo, nonostante i prudenti consigli di Kurogane. Fin dall'inizio Kaede tesse abilmente la sua trama, facendo ricorso a tutte le armi, da quella della seduzione a quella del pugnale, per ottenere ciò che sembra costituire lo scopo della sua vita: distruggere completamente la famiglia di Hidetora.
Kaede non agisce per il potere, ma per vendetta. La sua famiglia è stata sterminata da Hidetora; sua madre si è suicidata nella stessa stanza dove lei ora si trova. Kaede, quindi, a differenza di Lady Machbeth («genio del male che agisce per ambizione»), è una «donna umiliata e offesa, una figlia che vendica la distruzione della sua famiglia». Il male, dunque, produce altro male, in una spirale di violenza e di crudeltà che sembra non aver fine.
Lo stesso Hidetora paga ora per i misfatti commessi durante la sua vita. Ora che è vecchio e privo del potere, i fantasmi delle sue vittime vengono a tormentarlo e a farlo impazzire. Dice lo stesso Kurosawa: «A mio avviso Hidetora è meno tragico di Re Lear proprio perché non è una vittima innocente del destino, ma ha delle gravi colpe da espiare. Le sue disavventure hanno in qualche modo una giustificazione etica. Anche nel buddismo esiste il senso di colpa e il concetto di espiazione. Il male che hai fatto si rivolta contro di te e ritorna, dice un testo orientale». Non è un caso, quindi, che Hidetora vada a rifugiarsi proprio nella capanna di Tsurumaru (al quale aveva cavato gli occhi); che girovaghi senza rendersene conto tra le rovine del castello che era stato della famiglia della sua vittima; che proprio qui incontri Sue e Tsurumaru provando un grandissimo rimorso («Sono all'inferno»); che muoia nelle vicinanze di questo castello che fa da sfondo anche al suo corteo funebre.
È una sorta di nemesi che, avvalendosi dell'errore di Hidetora di lasciare il potere nelle mani dei figli, gli fa espiare le sue antiche colpe.
2. All'interno di questa grande raltà di male che sembra avvolgere senza scampo tutta l'umanità, c'è una piccola oasi costituita da quelle persone che non rispondono al male ricevuto con altro male, bensí, in forza di una convinzione religiosa profonda, cercando di capire e di perdonare.
È il caso di Sue e di Tsurumaru. Appena giunto al secondo castello, Hidetora, prima ancora di andare dal figlio Jiro, va a trovare la nuora Sue. La trova in preghiera, vicino ad una cappella dedicata a Budda e di fronte ad una natura bellissima e rasserenante. Il vecchio prova rimorso nei confronti della giovane donna cui ha distrutto la famiglia: «Provo tanta pena e tanta amarezza che mi addolora... Sono sato io a bruciare il tuo castello con la tua famiglia... Dovresti odiarmi». Ma ne riceve solo parole di conforto e di devozione.
Anche Tsurumaru, che ha tentato di seguire gli insegnamenti religiosi della sorella, pur affermando di non essere riuscito un solo giorno a dimenticare le atrocità subite, si dimostra desolato di non poter offrire nella sua stamberga un'ospitalità adeguata al rango di Hidetora, e in compenso suona per lui il flauto, la sola gioia che gli è rimasta, per offrirgli «I'ospitalità del cuore».
Ma queste persone buone e pie non possono che essere travolte e annientate dall'ondata di cattiveria che caratterizza l'umanità. Sue verrà fatta decapitare da Kaede; Tsurumaru resterà solo a brancolare nel buio della sua cecità, provocata dalla cattiveria umana.
In questo filone, che si riferisce in qualche modo a una visione religiosa della vita come alternativa al dilagare del male nel mondo, rientra anche l'epilogo tragico e sconsolato con tutta la sua valenza universalizzante. «Quel cieco rappresenta in un certo senso l'umanità di oggi che corre alla sua perdizione», ha dichiarato Kurosawa. Sono sufficienti poche inquadrature per esprimere efficacemente la tragedia di Tsurumaru e dell'umanità ch'egli emblematizza: un'umanità desiderosa e anelante nei confronti del bene, ma attanagliata e costretta da un male dilagante. Tre inquadrature con tre diverse profondità di campo avvicinano la figura di Tsurumaru: barcollando sulle rovine del suo castello, egli finisce per perdere l'immagine protettrice del Budda che Sue gli aveva affidato. Altre due inquadrature lo allontanano, universalizzandone la figura. Una dissolvenza in chiusura ne sancisce perentoriamente la sconfitta: a causa della malvagità e del male, I'uomo, anche quello buono e giusto, è votato ad una sconfitta senza speranza e viene privato anche della consolazione e della protezione che possono nascere da un atteggiamento religioso o dalla presenza, per quanto simbolica, della divinità nella sua vita.
Il tipo di religiosità che emerge in questo filone, il quale attraversa il percorso narrativo della vicenda, è piuttosto complesso e non sempre del tutto penetrabile da parte di una mentalità occidentale: si va da una concezione deterministica di ciò che avviene (Sue afferma: «Tutto è stato predeterminato nelle nostre vite precedenti... tutto è scritto nel cuore di Budda...»), all'idea che gli dèi abbiano abbandonato l'umanità al suo destino (Hidetora: «Budda non ha piú compassione per noi»), a una visione di impotenza e di sofferenza da parte della divinità di fronte alla cattiveria umana. Comunque, non ha senso prendersela con gli dèi, come fa Kyoami nel finale del film. «Non serve prendersela con il cielo, nemmeno gli dèi possono fare qualcosa contro la stupidità umana».
3. Dúrante tutto l'arco del film le immagini della natura hanno un peso e una pregnanza non indifferenti. Non si tratta solo di uno sfondo ambientale, di una specie di commento alle varie azioni umane, bensí si ha l'impressione che la natura entri come elemento attivo nel condizionare e quasi determinare le azioni dell'uomo. Si pensi alle frequenti inquadrature del cielo, con le nuvole piú o meno intense, in tumultuoso movimento o foriere di rivolgimenti, diradanti su uno sfondo stranamente verde (quando Saburo ritrova finalmente il padre); oppure il peso che viene dato al sole, alla luna, alle nebbie e alla pioggia, che costituisce piú che un accompagnamento o una testimonianza delle scelleratezze umane; o ancora al grigiore agghiacciante che contrassegna la caduta irrimediabile di Hidetora verso l'inferno del rimorso; o infine all'erba frustata dal vento (di cui gli uomini sembrano far parte) o alla distensiva bellezza dei fiori che sottolineano la pace che deriva dalla pazzia («In questo pazzo mondo chi diventa folle è sano di mente», commenta Kyoami).
Questo filone della natura si trova in strettissima relazione con il prologo
del film, cui si è già accennato. In tale prologo i «come», narrativi e semiologici sono tali da andare ben oltre la significazione di «caccia al cinghiale». La prima immagine ci presenta quattro soldati a cavallo rivolti verso i quattro punti cardinali (chiaro elemento universalizzante); poi tutti i vari personaggi (soldati) vengono presentati come immersi in una natura immensa, dominante e imprevedibile, in un clima di spasmodica e paurosa attesa nei confronti di qualcosa che potrebbe accadere da un momento all'altro (il rumore dei tamburi come elemento di tensione e di incombenza). Ne scaturisce una visione dell'uomo come elemento della natura, non sempre padrone di sé e degli avvenimenti, ma spesso condizionato o determinato da «accadimenti» che sembrano essere piú forti di lui.
Il significato dell'antico ideogramma cinese che corrisponde vagamente al suo «Ran» è all'incirca «caos», «disordine», «sconvolgimento», «rivolta». Kurosawa se ne serve per sintetizzare il frutto della sua meditazione sulI'uomo e sulla realtà. Come si è visto, si tratta di una conclusione tragica, quasi disperata: I'uomo, non sempre libero (per l'incombere della natura e per una certa predestinazione), è impastato di male (la tentazione del potere) e non può che produrre male in un un circolo vizioso senza fine, vanificando cosí anche le piú autentiche aspirazioni verso un mondo migliore (gli dèi lontani e impotenti). «Il cielo è lontano, ma l'inferno è vicino», dice ad un certo momento il giullare Kyoami. Sembra essere la sconsolata conclusione cui giunge l'anziano regista Kurosawa in questa sua ventottesima opera cinematografica.
Sotto il profilo cinematografico ed estetico si avverte ad ogni momento la mano di un grande maestro che conosce alla perfezione le regole del linguaggio cinematografico e possiede straordinarie doti di ispirazione poetica. Il suo rigore stilistico e la sua potenza visionaria emergono da ogni inquadratura, da ogni particolare o dettaglio. Basterebbe pensare alle memorabili scene di battaglia al terzo castello per rendersi conto della potenza espressiva di questo autore: con procedimento asincronico il regista commenta le plastiche immagini visive di terrore e di morte con una musica, certamente non effettistica e spettacolare, ma dolentemente epica. Le scene di battaglia e di massa sono dirette in modo mirabile e magistrale; la recitazione, che allo spettatore occidentale può talvolta apparire un po' sopra le righe, appartiene alla miglior tradizione del teatro giapponese (soprattutto il «No») e alle opere piú classiche della cinematografia nipponica. L'uso del colore è altamente espressivo non solo delle situazioni bensí anche degli stati d'animo e degli atteggiamenti interiori e spirituali. La struttura, che nella seconda parte dell'opera acquista un andamento «in parallelo» (le vicende di Hidetora alternate a quelle dei suoi figli) è squisitamente cinematografica in quanto sfrutta le leggi della giustapposizione immaginifica in funzione espressiva.
Tematicamente e moralmente non si può che ammirare la vastità e la profondità della meditazione del regista sulla vita, dall'alto della sua intensa e lunga esperienza di uomo e di artista. Anche se è necessario avanzare qualche riserva, è sulla disperata conclusione, che risente inevitabilmente di una cultura e di una filosofia in cui gli elementi deterministici (e talvolta panteistici) fanno velo ad una serena visione della libertà e della possibilità di redenzione umane. (Olinto Brugnoli)