IL CASO MORO
Regia: Giuseppe Ferrara
Lettura del film di: Nazareno Taddei
Edav N: 145 - 1987
Titolo del film: IL CASO MORO
Cast: regia: Giuseppe Ferrara - scenegg.: Robert Katz, Armenia Balducci, Giuseppe Ferrara - tratto dal libro «I giorni dell'ira» di Robert Katz - mus.: Pino Donaggio - fotogr.: Camillo Bazzoni - scenogr.: Francesco Frigeri - cost.: Laura Ferrara - mont.: Roberto Perpignani - interpr. princ.: Gian Maria Volonté (Moro), Mattia Sbragia, Bruno Zanin, Consuelo Ferrara, Enrica Maria Modugno, Maurizio Donadoni, Stefano Abati, Danilo Mattei, Massimo Tedde, Francesco Capitano (i brigatisti), Margarita Lozano, Sergio Rubini, Daniela De Silva, Emanuela Taschini, Ginella Vacca (la famiglia), Daniele Dublino, Piero Vida, Bruno Corazzari, Gabriele Villa, Francesco Carnelutti, Paolo M. Scalondro, Dante Biagioni (i politici) - colore - durata: 105' (m. 3131) - produz.: Mauro Berardi per la Yarno Cinematografica - origine: ITALIA, 1986 - distribuz.: Columbia Pictures Italia.
Sceneggiatura: Robert Katz, Armenia Balducci, Giuseppe Ferrara
Nazione: ITALIA
Anno: 1986
La vicenda è tratta da un libro (documento o romanzo?) che ricostruisce il caso Moro (16 marzo-9 maggio 1978), dal sequestro in Via Fani, a Roma, fino al compimento dell'assassinio nell'utilitaria rossa portata poi in Via Caetani.
Moro si appresta a uscire di casa, salutando il nipotino. Quella mattina si vota la fiducia a un nuovo governo, nell'indirizzo del quale egli ha avuto gran parte. Il commando di brigatisti è in attesa in Via Fani. Provocando ad arte un incidente, assalgono la macchina del presidente e quella della scorta ammazzandone tutti i membri e freddando un agente che sta per reagire. Prendono Moro, lo caricano in un'altra macchina e lo narcotizzano. Sul posto arrivano subito le forze dell'ordine. Uno (che non si capisce chi è) prende una borsa rimasta nella macchina del presidente e la fa scomparire. Arriva anche la moglie che guarda attentamente all'interno della macchina dov'era il marito (in seguito farà rilevare — inutilmente — che la borsa non può essere stata portata via col marito, ragionando sulla posizione delle gocce di sangue rappreso) e chiude gli occhi all'agente che giace per terra.
Moro viene portato nella sua «prigione del popolo», un bugigattolo di meno di due metri di larghezza e tre o quattro di lunghezza, ricavato con una finta parete da una camera in un appartamento di Via Montalcini, 8 e il cui ingresso è coperto dalla testiera di un letto mobile.
Nella prigione, Moro sembra ferito a una spalla. Picchia con uno sgabello nel soffitto sperando di farsi sentire dall'inquilina di sopra il cui figlio gioca a pallacanestro, la quale però prende quei colpi come una protesta contro il rumore provocato dal figlio con la palla e scende a scusarsi. Cosí di fatto avverte i carcerieri del tentativo di Moro, dal quale questi ottengono ovviamente che non ci proverà un'altra volta.
Ci sono alcuni dialoghi col prigioniero; ci sono alcune consegne di lettere scritte da lui e quasi da lui proposte nei colloqui con i carcerieri. Sembra quasi, infatti, che Moro studi con loro la tattica migliore da seguire per ottenere i risultati che i carcerieri si propongono col sequestro. In questo contesto, Moro riesce perfino a farsi portare lí un sacerdote amico.
All'esterno, si vedono alcune reazioni della famiglia, del partito e dello Stato. C'è l'accenno alla beffa di via Gradoli e del lago della Duchessa, a interventi internazionali e ovviamente alla P2, all'appello di Paolo VI alle BR, l'annuncio della condanna a morte. Un po' tutto quello che s'è saputo dai mezzi d'informazione anche durante il processo.
Poi la decisione del Comitato brigatista: eseguire la condanna a morte. E la si vede eseguire. Poi la telefonata per via Caetani, durante una riunione dei dirigenti della DC; il ritrovamento.
Una scritta finale avverte che gli assassini sono stati tutti arrestati e condannati, ma che rimangono ancora parecchi punti oscuri nella tragica vicenda.
Il racconto si svolge linearmente, come fosse ricostruzione sicura di fatti precisi, tra cui addirittura i colloqui tra Moro e i suoi carcerieri o i comportamenti o gli incontri dei brigatisti e quello che si sono detti; e ci si chiede subito come hanno fatto, quelli del film, a sapere certe cose e certi dettagli. Ricostruzione o invenzione, sia pur legata a una certa nota realtà? Tanto per citare un esempio: dall'autopsia sul corpo di Moro, risulterebbe che nell'agguato non era stato ferito e che nell'ammazzarlo gli sia stato sparato da una certa distanza, con due armi, ma che nessuna pallottola l'abbia ucciso sul colpo, provocandogli cosí la morte per versamenti di sangue interni con un'agonia di circa 15 minuti. Nel film, invece, sembra sia stato ferito nell'assalto e che almeno la pistola a canna lunga con silenziatore gli abbia sparato entrando sotto la coperta e quindi da distanza ravvicinatissima. Quale la verità? Gliel'hanno detta gli assassini? Potrebbe anche darsi. Ma niente lo fa pensare.
Nella modestissima brochure pubblicata dalla Casa distributrice, il regista Ferrara dice: «Perché si possono scrivere libri su una vicenda, senza limiti di tempo [qualcuno dice che otto anni sono troppo pochi per farci un film e un grande regista sostiene che di anni ne devono passare almeno venti], e un film no? Forse che la differenza tra la parola scritta e l'immagine è tale da relegare quest'ultima esclusivamente nella sfera dell'immaginario e del privato?».
La questione non è «libro sí, film no», anche se non si può ignorare che si tratta di due linguaggi completamente diversi, per cui, p.e., nel libro metti un nome e la persona è inequivocabilmente indicata, e realmente, mentre nel film metti un attore che, se non gli dai il nome, potrebbe sí e no farsi riconoscere per il personaggio che impersona e che comunque non è mai lui ma la sua finzione scenica; nel libro scrivi «una strada» o «una cabina telefonica» o «un ufficiale delle forze dell'ordine» e possono essere una o uno qualunque, mentre nel film può essere solo quella strada o quella cabina, perché la devi far vedere concretamente, cosí come quell'ufficiale nel film dev'essere o della polizia o dei carabinieri o comunque definito, perché, se p.e. fai vedere un signore in borghese, devi fare un certo discorso per far capire che è un ufficiale delle forze dell'ordine; nel libro puoi scrivere «l'hanno ammazzato a colpi di pistola», nel film invece devi far vedere come lo hanno ammzzato con quei colpi di pistola.
La questione piuttosto, tanto per il libro quanto per il film, è: su quali documenti l'autore basa le sue affermazioni o scritte o visive o audiovisive?
È vero, come continua Ferrara (l.c.), che «sul caso Moro (...) si può sapere moltissimo, se si vuole: basti pensare alle decine di volumi prodotti dalla commissione inquirente, dalle istruttorie, dai processi, per non dire dalle testimonianze di chi, direttamente o meno, vi ha preso parte». Già! mah... «se si vuole». Il film si rifà al libro e quindi, probabilmente, non ha «voluto»; quindi la palla ricade sull'autore del libro che è stato anche co-sceneggiatore del film. Ma anche lui, queste ricerche, le ha fatte sul serio o s'è limitato alle notizie di cronaca e per il resto ha supposto o inventato? Ma poiché stiamo vedendo il film e non leggendo il libro, anche supposto che il libro sia informatissimo sui dettagli che nessuno sa se non quelli che li hanno vissuti, quanto fedelmente il film traduce il libro? È comunque da notare che, nel cast, i nomi di tutti gli attori, escluso Volonté, siano compresi tutti in quattro elenchi: «i brigatisti», «la famiglia», «i politici» (che spesso però vengono chiamati anche per nome), «gli altri». Sfizio o dichiarazione di non voler precisare?
Voglio dire che, sotto il profilo tematico, soprattutto per quanto riguarda certi dettagli — la cui importanza non può sfuggire a nessuno ai fini della «verità» del film — il film stesso, dal momento che isi presenta come documentario, non offre alcun elemento per rendere credibili i fatti che narra, siano esis mutuati o meno dal libro.
Da notizie di stampa, sappiamo che la sig.ra Eleonora, vedova di Aldo Moro, «non ha autorizzato il film oggi in circolazione, ma ha risposto agli sceneggiatori annotando con scrittura minuta i tanti particolari che le sembravano errati. Dettagli spesso sul modo di vestire, sul tono di voce o sul carattere di suo marito» (Enrico Deaglio in «Epoca», 12 dicembre 1986). Ma perché non lo ha autorizzato? Che il direttore generale della RAI, Biagio Agnes della DC, non abbia permesso a Gian Maria Volonté di andare a «Domenica In» a propagandare il film, si può anche capire, vista la figuretta della DC, a torto o a ragione, ci fa; ma a ben pensarci si capisce anche la non-autorizzazione della sig.ra Moro, per analoghe anche se opposte ragioni.
Il film però afferma, cioè narra i fatti in maniera da attribuire loro un significato, in maniera cioè da dare precise interpretazioni; non foss'altro che di dubbio o d'interrogativo, qualche rara volta ma quasi sempre di chiara definizione. È chiara, p.e., l'idea che Moro, subito dopo il rapimento, sia stato portato e sia rimasto sempre nel covo di Via Montalcini, 8 (circa il che, invece, ci sono elementi che farebbero dubitare). È chiara l'affermazione che le lettere di Moro sono state scritte di suo pugno e spontaneamente, anzi quasi volute scrivere da lui a conclusione di certi discorsi con i carcerieri, quasi per aiutarli a realizzarne gli scopi (condizione della sua liberazione). È chiara, ancora, l'insinuazione che tra le forze politiche e quindi dell'ordine ci fosse chi non aveva alcun interesse a trovare veramente dove Moro era nascosto e quindi a salvarlo, come pure che alle spalle di questa posizione ci fosse anche la CIA o qualcosa del genere attraverso la P2. È chiara la convinzione che, senza il criterio della fermezza perseguito dai politici — e condiviso perfino da uno Zaccagnini pieno di dubbi e che non si fa trovare al telefono della sig.ra Eleonora quando le Br le affidano un categorico messaggio per lui —, Moro sarebbe stato liberato; e cosí via.
Nel film, insomma, c'è la chiara intenzione di ricostruire il caso (affidandosi al libro), ma c'è anche una chiara interpretazione di esso, o quanto meno della sua sostanza, pur buttando lí qualche elemento che serve a insinuare, ma che sembra o viene lasciato secondario, mentre nella struttura di una ricostruzione dovrebbe assumere ben altro peso.
L'idea centrale del film, pertanto, non disgiunta dalla sua intenzione, potrebbe leggersi in questo modo: «Il film intende ricostruire la vicenda del sequestro e dell'assassinio di Moro, basandosi sugli elementi offerti dal libro I giorni dell'ira di Robert Katz, offrendo un'interpretazione secondo cui i colpevoli dell'assassinio, piú che i brigatisti, sarebbero i sostenitori del “fronte della fermezza”, pur in un certo bailamme di dettagli che lasciano senza risposta alcuni interrogativi, limitandosi a generiche insinuazioni».
Ma sotto il profilo tematico, ci sono troppi elementi (nel film e anche fuori del film, dal momento che si tratta di una ricostruzione storica) che permettono di mettere il dubbio su queste interpretazioni. Nessun accenno, p.e., alla politica dell'equidistanza da USA e URSS che Moro stava perseguendo e stava riuscendo a ottenere, distaccando il PCI da Mosca facendo perno su Berlinguer, politica che non poteva certo piacere né a Washington né a Mosca; nessun accenno, sempre p.e., a quel colonnello dei carabinieri inquirente sollevato dall'incarico subito dopo aver presentato un rapporto in base al quale Moro, da Via Fani, sarebbe stato nascosto in un'ambasciata d'oltrecortina della zona; nessuno sviluppo del brevissimo accenno a mandanti internazionali; ecc.: solo qualche generico accenno che getta il dubbio non si sa su chi, come il particolare della borsa, la condotta delle forze di polizia sia a via Gradoli sia a via Montalcini, 8; e avanti di questo passo. I dettagli poi (p.e. il comportamento d'un certo alto responsabile dell'ordine pubblico) che generano interrogativi vengono lasciati perdere. Manca il coraggio di dire tutto oppure è pura e semplice insinuazione senza base?
E allora, purtroppo, s'attenua di molto — forse troppo — il valore di ricostruzione e quindi di interpretazione. La cosa piú vera resta l'affermazione finale — ma è una didascalia! — che il caso Moro lascia aperti parecchi inquietanti interrogativi. Un po' poco per un film che voglia essere documento: il suo apporto alla verità o a una qualsiasi causa sociale o politica resta assai limitato.
È da notare certo che il film non si appoggia alle notizie di cronaca o a quelle eventualmente frutto di diretta ricerca, bensí a un libro. Ma è proprio da qui che nasce un grosso elemento di perplessità: il film ha forse paura di affrontare una riocostruzione propria di quei tragici eventi o si sgrava di ogni responsabilità dicendo che desume tutto dal libro, oppure si appoggia al libro per evitarsi la fatica di andare esso alla ricerca dei fatti? In poche parole, il film dà l'impressione o di non essere sufficientemente informato o di non avere sufficiente coraggio per dire tutto quello che sa e, quel ch'è peggio, senza avere il coraggio di confessarlo apertamente.
Sotto il profilo cinematografico, il film è ben diretto e gli eventi sono narrati in modo da parere attendibili come ricostruzione, almeno nei singoli episodi e in certo contesto (p.e. le tecniche brigatistiche, i comportamenti politici): è da altra fonte, infatti, come detto sopra, che nasce la perplessità circa la sua attendibilità di documento. Rilevante comunque la recitazione di Gian Maria Volonté, che dà del personaggio di Moro una figura attendibile, per quanto forse un po' troppo remissiva e spenta. Efficace la musica.
Sotto il profilo morale, è proprio la suddetta solo apparente attendibilità del film che, a mio avviso, ne sollecita anche un giudizio piuttosto negativo. In una storia cosí importante — drammatica per tutto il popolo italiano (e forse non solo per esso) e tragica per chi l'ha sofferta in prima persona — non si possono dare interpretazioni cosí limitate per certi aspetti e cosí sicumeriche per certi altri. È vero che, soprattutto in una storia tanto recente, per buona parte ancora misteriosa e dove grandissima parte dei protagonisti sono ancora vivi e potenti, non si può pretendere che uno sappia tutto oppure che, per amore di verità, si offra al martirio: che diamine! a quale scopo poi, se l'intento è ideologico-cassettaro? Tuttavia, a mio avviso, comunque, si poteva pretendere che la cosa certamente certa venisse presentata vome cosa certa, il dubbio come dubbio e il sospetto come sospetto. Quindi, tutt'laltra impostazione. (Nazareno Taddei sj)