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DERSU UZALA - IL PICCOLO UOMO DELLE GRANDI PIANURE



Regia: Akira Kurosawa
Lettura del film di: Nazareno Taddei
Titolo del film: DERSU UZALA - IL PICCOLO UOMO DELLE GRANDI PIANURE
Titolo originale: DERSU UZALA
Cast: regia: Akira Kurosawa - sogg.: Vladimir Arseniev - scenegg.: Akira Kurosawa, Yurik Naguibine - fotogr.: Fedor Dobronravov, Youri Gantmann, Asakazu Nakai - mus.: Isaac Schwartz - scenogr.: Youri Rakcha - mont.: Akira Kurosawa, Viera Steanova - interpr.: Maksim Munzuk (Dersu Uzala), Juri Solomin (Capitano Vladimir Arseniev), Svetlana Danielchenko (Sig.Ra Arseniev), Dmitri Chokmorov (Jan Bao), Vladimir Kremena (Turtwigin), Aleksandr Pyatkov (Olenin), Sovetbek Dzhumadylov, Mikhail Bychkov, Nikolai Volkov - Colore - durata: 128' - produz.: Yoichi Matsue e NikolaiSizov per MosFilm e Kurosawa Film Studio 42 (Tokyo) - origine: URSS, GIAPPONE 1975 - distribuz: Antoniana Film, General Video, san Paolo Audiovisivi, De Agostini.
Sceneggiatura: Akira Kurosawa, Yurik Naguibine
Nazione: URSS, GIAPPONE
Anno: 1975
Presentato: Festival di Mosca 1975
Premi: PREMIO OSCAR 1976 COME MIGLIOR FILM STRANIERO; GRAN PREMIO AL FESTIVAL DI MOSCA 1975; PREMIO DAVID 1977 PER MIGLIORE FILM STRANIERO E DAVID SPECIALE.

(Tratto da TUTTOKUROSAWA, a cura di Nazareno Taddei sj, Edizioni Edav, 2001)

Scoraggiato, dopo l’insuccesso; di DODES’KA-DEN, malato, psichicamente depresso e assillato dal disastro ecologico cui il suo Paese sembra inesorabilmente avviato, Kurosawa, in un momento di com­pleta sfiducia nei confronti dell’umanità e dell’esistenza, tenta il suicidio. L’intervento del ministero della cultura sovietico, che stanzia la somma necessaria alla produzione di un altro film, è determinante nello sbloccare la situazione. Nasce cosí, in coproduzione con l’Unione Sovietica, DERSU UZALA, premiato all’ultimo Festival di Mosca e insignito dell’O­scar 1976 «per il miglior film straniero». È nota la vibrata protesta che il regista giapponese ha elevato nei confronti della distribuzione italiana, rea di aver gravemente manomesso l’edizione originale del film per fini esclusivamente commerciali. «I miei film sono una parte di me stesso e chi ha commesso questo oltraggio è come se avesse maltrattato la mia persona», ha dichiarato Kurosawa. Per fortuna la sua fermezza nel denunciare il fatto e la solidarietà che tale denuncia ha riscontrato negli ambienti culturali hanno fatto sí che il film riacquistasse la sua veste ed il suo metraggio originari. 

La vicenda. Siamo nel 1902. Il capitano dell’esercito zarista Vladimir Arsenjev ha ricevuto l’incarico di compiere rilevamenti topografici nel distretto dell’Ussuri, al confine con la Cina. Una sera, durante un bivacco, compare agli occhi del reparto, guidato dal capitano, uno strano essere. È Dersu Uzala, un cacciatore della tribú dei «gold» che vive nella foresta come nel suo elemento naturale. Non ha casa; non ha famiglia (distrutta molto tempo prima dalla peste); ha cacciato tutto il giorno, colpendo un cervo, che però è riuscito a sfuggirgli. Il capitano, vista la sua familiarità con la taiga siberiana, gli propone di fare loro da guida. Dersu si riserva di pensarci; ma, il giorno dopo, senza dire una parola, prende la testa del reparto. Ben presto si rivela una guida d’eccezione. La sua conoscenza dell’ambiente naturale, la sua perspicacia nel decifrarne anche i piú piccoli — e apparentemente insignificanti — segni, la sua sensibilità di uomo primitivo che gli consente di parlare alle cose e di comunicare con gli animali e infine la sua profonda umanità, con­tribuiscono, da un lato, alla buona riuscita della spedizione scientifica e dall’altro allo sbocciare di un’amicizia semplice e bella tra il piccolo cacciatore di zbellini e l’uf­fi­ciale dell’esercito za­rista. «Ne ero af­fascinato. — di­rà il capitano — Era perspicace e ge­nerosissimo; ca­­­pace di pen­sare a qualcuno che non­ co­no­sceva e che forse non a­vrebbe mai in­contrato».

Il reparto ritor­na in sede e Der­su non accetta di seguire il capitano in città. Dopo qualche anno, il capitano guida una nuova spedizione scientifica e il suo desiderio è di reincotrare Dersu.

Un giorno il suo grande desiderio si avvera. Dersu e il capitano si incontrano, si abbracciano fraternamente, si raccontano le reciproche esperienze; e Dersu riprende il suo posto a capo della spedizione. Ricominciano le avventure comuni. Prima i «hongusi», i «cattivi cinesi», che rubano le donne e gli animali e uccidono gli uomini che incontrano; poi la traversata di un fiume impetuoso durante la quale, ancora una volta, Dersu ha l’occasione di salvare la vita al capitano.

Un giorno incontrano una tigre. Dersu le parla, cerca di farla allontanare, ma, di fronte a un suo attacco, è costretto a spararle. La tigre fugge, ma Dersu è convinto di averla ferita a morte. Da que­sto momento non è piú lui; diventa nervoso ed irritabile; è con­vinto che, a cau­sa dell’uccisione dell’animale, un’altra tigre ver­­rà per ucci­derlo. Un altro brutto giorno, Dersu s’accorge, terrorizzato, di non riuscire piú a colpire il bersaglio, perché non ci vede piú bene: come potrà sopravvivere nella taiga in quelle condizioni, soprattutto sapendo che, da un momento all’altro, arriverà la tigre?

Pieno di ter­ro­re, ricorda la pro­posta del ca­pi­tano e lo sup­plica di an­dare a vi­vere in città con lui, nel­la sua ca­sa. Ma la vita di città si rivela ben presto per lui im­possibile. Le re­gole sociali per cui non si può sparare, non si può costruire una capanna, non si possono tagliare gli alberi del giardino pubblico, lo fanno sentire prigioniero, in gabbia. «Com’è possibile agli uomini vivere in scatola?» «lo siedo qui come un’oca», dirà malinconicamente.

Finalmente, la grande decisione: qui non può piú vivere; deve tornare as­so­lu­ta­men­­te nel suo ambien­te, nel­la taiga. Il ca­pitano lo com­prende e, nel­l’­ac­­­comiatarsi da lui, gli regala un fucile nuovo, col quale potrà cavarsela brillantemente nonostante tutto. Ma dopo poco tempo, il capitano riceve un telegramma che lo convoca per l’identificazione di uno sconosciuto, trovato morto, addosso al quale è stato trovato un suo biglietto da visita. È lui, Dersu Uzala, vigliaccamente ucciso da qualcuno che voleva rubargli la moderna arma. Il capitano non può che piangerlo; e anche dopo, a distanza di anni, andrà a cercare la sua tomba (le cui tracce son quasi scomparse a causa dell’avanzare delle costruzioni e dei mezzi meccanici) e, su di essa, evocherà la sua straordinaria figura. 

Il racconto cinematografico narra la storia di Dersu (tratta dai diari del capitano Arseniev, realmente esistito) partendo dal 1910, cioè due anni dopo la morte del cacciatore siberiano. Il capitano sta cercando la tomba di Dersu, di cui non esiste piú traccia, presso un grande lago ghiacciato ai confini con la Cina. Nessuno sa dargli indicazioni al riguardo; gli alberi sotto ai quali era stato sepolto sono stati tagliati per far posto alla città che avanza, cancellando le tracce di ciò che era. A malapena riesce ad individuare il posto.

Inizia cosí, in un lungo flash-back che dura circa due ore, la rievocazione della storia e della figura del «piccolo uomo delle grandi pia­nure» (per usare l’espressione usata dalla distribuzione italiana in aggiunta al titolo originale). La voce fuori campo del capitano che racconta serve da raccordo tra i vari nuclei nar­rativi ed è efficace commento ai punti salienti della narrazione. Dersu e il capitano si spingono in avanti, al punto di non ritrovare piú la via del ritorno. Il sole sta calando e una bufera di neve sta per abbattersi sulla landa deserta. Sarebbe la fine per entrambi se ancora una volta Dersu, con una meravigliosa invenzione, non riuscisse ad improvvisare un rifugio in cui passare la notte. È la salvezza. Ma Dersu non vuole ringraziamenti: «Insieme si va, insieme si lavora, non serve grazie».

Dopo numerose vicissitudini, viene finalmente il momento del commiato. Il capitano invita Dersu ad andare a vivere con lui, in città, ma il piccolo «gold» non può accettare: la sua vita è troppo intimamente legata alla taiga, per potersene distaccare. Si saluteranno, con grande commozione di entrambi, e con in cuore la segreta speranza di potersi re­in­contrare. Passano cinque anni. Il capitano Arsenjev riceve nuovamente l’incarico di perlustrare la zona del fiume Ussuri, ecc..

Il perno strutturale narrativo centrale di tutto il film è rappresentato dalla «definizione» del protagonista visto nel suo intimo rapporto con la natura. Egli appare in un contesto ambientale, legato a immagini misteriose ed arcane. È perfettamente inserito e a suo agio in tale ambiente. Fiducioso nei confronti degli uomini, ai quali si accompagna con la massima naturalezza e senza paura alcuna, egli suscita ilarità nei soldati per il suo aspetto rozzo e primitivo, ma anche rispetto e ammirazione da parte del capitano (e, piú tardi, da parte degli stessi soldati) per la sua dignità e levatura morale.

Dersu è un tipico rappresentante della mentalita primitiva e partecipazionistica, secondo la quale la personalità di un uomo si prolunga e si partecipa non solo alle membra del suo corpo fisico, bensí anche a qualunque cosa che sia in qualche modo in rapporto con lui. L’uomo primitivo si sente fuso in un tutt’uno con la famiglia e la tribú, con l’ambiente in cui vive, con tutti gli esseri della natura, considerata come «oggetto» di conoscenza o di analisi fredda e distaccata; al contrario, è lui stesso natura, forza ed elemento naturale; cosí come la natura, ai suoi occhi, assume sembianza umana. Ominizzazione della natura e natu­ra­liz­zazione dell’uomo — potremmo dire — in una simbiosi ed osmosi perfette. Dersu parla al tizzone ardente e lo «punisce» per aver borbottato troppo; per lui il sole è un «omo forte; se muore lui, tutti noi moriamo»; «òmini» sono pure la luna, I’acqua, il vento, il fuoco ed ancora la volpe, il tasso, il topo. La sua conoscenza della natura, pertanto, è una conoscenza sintetica, una «conoscenza-contatto», sensibile, partecipativa, esi­-

stenzia­le. Consiste in una simpatia vitale che penetra la realtà, cogliendone i piú segreti sussulti. Perciò egli è in grado di comunicare con gli uccelli e si rivolge alla tigre come a una persona umana; perciò egli sa leggere e interpretare i fenomeni della natura, vedendo nelle cose delle «cose-segno». Cosí, un uccello che canta significa che la pioggia sta per cessare; un tronco senza corteccia vuol dire che qualcuno l’ha presa per costruire il tetto di una capanna; I’orma di uno stivale rivela se l’uomo che l’ha lasciata è giovane o vecchio.

È tipico poi della mentalità primitiva e partecipazionistica non possedere un’esatta nozione del tempo (al capitano, che gli domanda quanti anni ha, Dersu risponde che ha «molto, molto vissuto») e confondere il sogno con la realtà o, quanto meno, vedere nel sogno un prolungamento della realtà stessa, un segno che dà precise indicazioni di comportamento. L’idea della «partecipazione» è in lui cosí viva da fargli credere inevitabile la vendetta da parte della tigre uccisa: I’ordine naturale è stato violato ed è necessario reintegrarlo attraverso la punizione di chi si è reso colpevole di lesa armonia.

Ne nasce una «morale» vicina al panteistico, fondata su un naturale sentimento religioso, che si manifesta in un innato rispetto per tutte le cose, animate o inanimate che siano. Perciò è male distruggere la bottiglia che nella taiga può essere preziosa, in quanto rara a trovarsi; cosí come è male sterminare gli animali come fanno i «hongusi» o gettare sul fuoco della carne che potrebbe servire a nutrire qualche animale di passaggio. Per contro, è bene tutto ciò che serve alla vita ed al man­te­nimento dell’ordine della natura, intesa come un tutto ar­mo­nico, di cui l’uomo — umilmente — si sente soltanto una par­te. Tale posizione «morale» nei confronti della natura non può che sfociare in un eguale atteggiamento nei confronti dell’uomo.

Ho già accennato alla fiduciosa apertura che Dersu dimostra di avere verso i suoi simili. Egli è anche profondamente ge­ne­roso; non solo nei confronti delle persone che conosce, ma anche di chi non ha mai incontrato. Si pensi in proposito alla sua preoccupazione di lasciare «riso, sale e fuoco» nella ca­panna, per salvare eventuali bisognosi. La profonda solidarietà umana di Dersu, accanto a un eccezionale spirito di abnegazione, ha modo di manifestarsi soprattutto in occasione dei due salvataggi che egli compie nei confronti del capitano. Ma egli è anche umile; non vuole essere ringraziato; ciò che ha fatto è una cosa normale e quasi dovuta. La sua sensibilità morale è veramente grande: egli si sente «cattivo omo» ogni qualvolta pensa di non aver corrisposto alla generosità degli altri e di essersi quindi comportato con ingratitudine.

E infine la sua splendida e squisita sensibilità umana fa di lui una creatura straodinaria, un uomo vero, che vive in religiosa armonia con ogni forma di vita. Si pensi ad uno dei momenti piú intensi e commoventi di tutto il film: I’incontro con il vecchio cinese. Anch’egli è un uomo eccezionale; ha saputo rimaner fedele per tutta la vita a una donna che l’ha abbandonato e sono quarant’anni che vive solo nella foresta. Dersu entra subito in sintonia con lui, lo comprende, lo rispetta e invita il capitano a non disturbare la sua meditazione e la sua immaginazione: la sua nobile figura incute riverenza e venerazione. 

Tutte queste doti umane che Dersu possiede in sovrab­bon­dan­za stanno alla radice del fascino che egli esercita sul capitano e della profonda amicizia che si sviluppa e si con­solida sempre piú tra questi due uomini, che appartengono a due civiltà, a due mondi cosí diversi e lontani tra loro. Il na­sce­re e il consolidarsi di tale amicizia, che non viene meno con la morte di Dersu, e che si trasforma in un dolente e sconsolato lamento da parte del capitano, rappresenta, a mio avviso, un secondo perno strutturale narrativo del film.

Il terzo perno, infine, è dato dalla morte di Dersu. Egli non è capace di adattarsi alla vita di città. La civiltà cui appartiene è inconciliabile con la civiltà che avanza, basata sul possesso e sulla violenza. In essa non c’è posto per Dersu Uzala, uomo «primitivo», ma vero. Anche se l’assassinio è avvenuto lontano dalla città, si comprende chiaramente che chi l’ha perpetrato non appartiene al mondo morale di Dersu, fondato sul rispetto della natura e degli uomini, ma piuttosto al mondo che di­strugge la natura e che, per avidità e cupidigia, non esita a cal­pestare la stessa vita umana. Mi sembrano significative, a questo proposito, le immagini iniziali che mostrano come i mezzi meccanici (simbolo di una civiltà che avanza violentando la natura) di fatto cancellino le tracce perfino della tomba di Dersu (emblema dell’altra civilta, quella piú umana, basata sul rispetto della natura). Nessuno sa dov’è sepolto Dersu. Nessuno sa nemmeno se sia mai esistito un uomo cosí. Solo il capitano, che ha avuto modo (vivendogli assieme) di coglierne la profonda umanità e l’inestimabile valore, lo «canta» e il film improvvisa sulla sua tomba un «lamento per la morte di Dersu». 

L’idea centrale potrebbe essere formulata press’a poco cosí: «Gli autentici, genuini valori umani, che nascono da un atteggiamento di rispetto e di partecipazione nei confronti della natura (atteggiamento ti­pico di una mentalità primitiva e partecipazionistica — e quindi intimamente religiosa —) vengono inevitabilmente annientati da una «civiltà» che, violentando la natura, ha perso quell’intimo vitale contatto con essa, diventando cosí disumana. Tutto ciò non può che essere motivo di rammarico e di profonda nostalgia da parte di coloro che sono venuti a contatto con quei valori e hanno avuto modo di apprezzarli e di coglierli in tutta la loro pregnanza».

Dal punto di vista cinematografico, il film è veramente pregevole. La fotografia, sempre bellissima, non cade mai nel calligrafismo o nel compiacimento estetizzante, ma è al ser­vizio di un’immagine che rappresenta efficacemente le me­raviglie di una natura incontaminata, con cui l’uomo si trova in intimo e sostanziale ricambio. Eccellente la recitazione, soprattutto del sorprendente Maksim Munzuk, attore e organizzatore di un gruppo teatrale della repubblica asiatica di Tuva. Maestoso il ritmo, che solo nella parte finale ha qualche caduta di tono, rivelando come Kurosawa si trovi molto piú a suo agio a riprendere la natura che non la vita di città. Il commento musicale è sempre perfettamente intonato, e anche la voce fuori campo non si sostituisce all’immagine, ma svolge un ruolo di raccordo e di commento.

Artisticamente, il film possiede grosse parti (soprattutto la prima) in cui si può parlare di vera e propria contemplabilità. Si pensi, al proposito, alla lunga sequenza della spedizione sul lago ghiacciato con la con­seguente bufera di neve, o all’episodio dell’incontro col cinese: sono brani cinematografici permeati di profonda poesia e senso estetico, che difficilmente si possono dimenticare.

Tematicamente, il film esprime bene l’idea centrale, anche se forse, proprio a causa del finale non del tutto convincente, non fa emergere con perfetta chiarezza il rapporto esistente tra l’uccisione di Dersu e la nuova civiltà che avanza distruggendo la natura.

Moralmente, non si può che considerare altamente positiva un’opera che esalta con schiettezza e con amore i valori che derivano da un naturale sentimento religioso nei confronti della natura. (Nazareno Taddei sj e Olinto Brugnoli)

 


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