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KAGEMUSHA, L'OMBRA DEL GUERRIERO



Regia: Akira Kurosawa
Lettura del film di: Nazareno Taddei
Titolo del film: KAGEMUSHA, L'OMBRA DEL GUERRIERO
Titolo originale: KAGEMUSHA
Cast: regia: Akira Kurosawa - sogg. e scenegg.: Akira Kurosawa, Masato Ide - fotogr.: Takao Saito, Masaharu Ueda - mus.: Shinichiro Ikebe - scenogr.: Yoshiro Muraki - mont.: Akira Kurosawa, Tome Minami - cost.: Seiichiro Hagakusawa - interpr.: Tatsuya Nakadai (Shingen Takeda/Kagemusha), Tsutomo Yamazaki (Nobukado Takeda), Kenichi Hagiwara (Katsuyori Takeda), Hideji Otaki (Masakage Yamagata), Daisuke Ryu (Nobunaga Oda), Masayuki Yui (Ieyasu Tokugawa), Hideo Murota (Nobufusa Baba), Takayuki Shiho (Masatoyo Naito), Koji Shimizu (Kasusuke Atobe), Noburo Shimizu (Masatane Hara) Sen Yamamoto (Nobushige Oyamada)- Colore - durata: 160' - produz.: Toho e Kurosawa Production CO. LTD. in ass. con 20TH Century Fox - origine: GIAPPONE, 1980 - distribuz: 20TH Century Fox - Balmas - DVD 20TH Century Fox Home Entertainment(2002) .
Sceneggiatura: Akira Kurosawa, Masato Ide
Nazione: GIAPPONE
Anno: 1980
Presentato: 33. Festival di Cannes 1980 - In Concorso
Premi: PALMA D'ORO (EX AEQUO) AL FESTIVAL DI CANNES 1980; DAVID DI DONATELLO 1981 PER MIGLIORE REGISTA STRANIERO (Akira Kurosawa)E MIGLIOR PRODUTTORE STRANIERO (Francis F. Coppola).

 

(Tratto da TUTTOKUROSAWA a cura di Nazareno Taddei sj, Edizioni Edav, 2001)

Con grande accuratezza storica, Kurosawa prende in considerazione il periodo dei Takeda che va dal 1573 (assedio al castello di Noda e morte di Shingen) al 1575 (disfatta e fine dei Takeda). Il periodo dei Takeda, impersonato da Shingen, «la montagna», è tra i piú travagliati e turbolenti della storia del Giappone: il potere centrale è dissolto e il Paese è diviso in 360 feudi, ciascuno dei quali cerca di sopravvivere combattendosi a vicenda. Takeda Harunobu (1521 - 1573) è uno dei principali signori e condottieri di questo periodo. Dopo una serie di campagne militari che lo portano ad ampliare enormemente i propri territori, si rasa la testa come un monaco e assume il nome di Shingen. Stretta alleanza con i bonzi guerrieri dei templi del monte Hiei, si scontra varie volte e duramente con due dei piú grandi generali e uomini politici della storia giapponese: Nobunaga e il suo alleato Ieyasu. Durante l’assedio al castello di Noda, ultimo baluardo sulla strada di Kyoto, la capitale, il principe Shingen viene ucciso. Come egli stesso aveva ordinato, la sua morte viene tenuta segreta e al suo posto viene messo un «kagemusha» (= sosia, guerriero-ombra), che lo sostituisce per quasi tre anni, cioè fino a quando il cavallo del principe si rifiuta di lasciarsi cavalcare, permettendo cosí di scoprirne la vera identità. Kagemusha, pur con due buste di denaro per riconoscenza, viene cacciato in malo modo. Ne prende il posto il figlio di Shingen, incapace e temerario, ma desideroso di eguagliare le imprese del genitore. Questi sferra uno sconsiderato attacco contro i piú potenti signori del tempo, nonostante l’ordine misterioso del padre di non oltrepassare certi confini. È la fine della dinastia dei Takeda. Le pur valorose truppe di samurai impiegate nella terribile battaglia nulla possono contro gli archibugi che Nobunaga ha acquistato dai portoghesi e che per la prima volta nella storia del Giappone vengono usati sistematicamente

•••

Il film prende in considerazione, con estrema accuratezza storica, il periodo che s’è detto; tuttavia il suo sviluppo si impernia sul personaggio di Ka­gemusha, il malvivente condannato a morte, ma che, a causa della sua so­mi­glian­za fisica col principe Shingen, viene incaricato di sostituirlo, essendo necessario che non si sappia della sua scomparsa. Egli, secondo il film, non solo assume le incom­benze esteriori e d’apparenza, sempre agli ordini di chi gli ha dato quell’incarico, bensí si im­me­desima talmente in quel compito, da assumere anche il modo di pensare e di agire dello scomparso Shingen. Al punto che quando è cacciato, egli segue da lontano l’esercito che il figlio di Shingen lancia in un’azione pazzesca; e quando ormai gli archibugi in mano del nemico rendono vana anche ogni piú eroica resistenza, egli, unico sopravissuto, si lancia contro l’avversario ed è colpito a morte. Si getta cosí nel lago, dove il principe Shingen è stato sepolto, e muore cercando di raggiungerne lo stendardo.

Un’impostazione cosí tematica, risulta dal modo concreto di realizzare la vicenda dei Takeda nel film, che l’autore divide in un prologo, tre capitoli e un epilogo.

Il prologo avviene tutto prima dei titoli, con una scena che sembra un palcoscenico di teatro: completa assenza di movimenti di macchina; uso di un colore particolarmente intenso (prevale un blu luminoso contro un forte marrone noce); personaggi quasi immobili. Al centro, il principe Shingen; alla sua destra, il fratello Nobukado (già usato varie volte come sosia del principe); alla sua sinistra, il nuovo sosia (Kagemusha) perfettamente identico a Shingen. Nasce una piccola schermaglia. Kagemusha rimprovera al principe di non essere migliore di lui per il modo con cui esercita il potere; Shingen ne apprezza la franchezza e con altrettanto franchezza ribatte: «Il mio dominio è costruito sui cadaveri, ma se non ci fossi io la strage sarebbe collettiva, senza regola». Il principe Shingen fa la grazia a Kagemusha (lett. il guerriero ombra), che gli può servire da sosia. È già un’indicazione tematica: quel malvivente ha il senso della giustizia e della lealtà, incurante del proprio interesse personale.

Dopo i titoli di testa con una didascalia circa la situazione storica, cominciano le tre parti.

«AN­NO PRIMO DEL “REGNO GIU­STO”— 1573». Aprono il racconto la corsa cinematograficamente mirabolante d‘un messaggero che annuncia l’assalto al castello, il fascino d’un flauto not­turno dei difensori conquide gli attaccanti. Frattanto Shingen è morto. Il fratello fa da sosia; ma occorre un sosia vero. Gli avversari cercano di sapere se Shingen è veramente morto, ma ne esaltano il grande valore, sebbene nemico. Frattanto, Kagemusha che non sa della morte di Shingen, infilatosi nel castello per rubare, ne scopre in una giara il cadavere. Scoperto, gli propongono di fare il sosia, ma egli tentenna, sentendosene indegno, ma lo colpisce la frase di uno del Con­siglio: «Per sosti­tuire Shingen ci vorrebbe uno di­sposto a dare la vita per lui»; ma quando si viene a sapere che le spie avversarie hanno vi­stoche la giara con Shingen è sta­ta buttata nel la­go, Ka­gemusha in­vo­ca: «Usa­te­mi, vi pre­go!».

È la matura­zio­ne d’una pre­sa di coscien­za: egli sente di dover par­tecipare.

Viene sottoposto a una serie di prove per verificare la sua capacità di vero sosia (il ni­potino di Shin­gen, che in un pri­mo mo­men­to stava per sco­prir­lo, gli in­ser­vienti, i sol­dati, le concubine). Questi momenti, ben sottolineati nel film, dimostrano ch’egli è molto abile nel sapersi districare anche nei frangenti piú imprevisti e pericolosi.

In una riunione, che rispecchia gli usi del governo del­l’epoca, dove si deve decidere circa un’azione di guerra, Ka­ge­mu­sha, tra lo stupore generale, ordina: «Non muoversi! Una montagna non si muove!». Nel sottolineare che qualcuno dei suoi consiglieri lo rimprovera, inascoltato, per aver preso da solo una decisione cosí importante, c’è ovviamente l’intenzione del regista di sottolineare anche la pre­sa di coscienza di Kagemu­sha ulteriormente maturata nell’immedesimarsi nel prin­cipe Shingen; ma la notte egli sognerà che la gia­ra si rom­pe e Shingen re­divivo lo in­se­gue: una sorta di prevalere della ragione (in­con­scia) sulla spontaneità dei sentimenti.

«ANNO SE­CONDO DEL “REGNO GIU­STO”—1574 maggio». Katsuyori, figlio del grande Shingen, contravviene agli ordini dello stato maggiore del clan e assedia il castello di Takatenjin, con la benedizione del vescovo cattolico, ma sotto il tiro degli archibugi. Il Consiglio decide di andare in suo aiuto e ordina a Kagemusha di non muoversi, come già Shingen, ma egli medita sulla strage che gli archibugi hanno fatto e pro­te­sta contro que­st’ordine.

Grandi scene di battaglia. Il nemico è in ri­tirata. Kage­mu­sha è impres­sio­nato dagli uomi­ni che gli hanno fatto scudo e so­no morti; ma ha l’ordine di stare seduto. Quan­do però qualcuno dà l’ordine di ritirata, egli gri­da: «Non muo­versi!».

Or­mai il «ka­­gemu­sha» «è per­­fetto», come «se lo spirito di Shingen si fosse depositato in lui.» Ma il figlio di Shingen co­mincia a sentirne il peso, opposto ai suoi piani am­biziosi e complotta. «L’ombra ha un valore finché c‘è il suo originale; ma quando l’originale è sparito, la sua ombra dove va a finire?». Kagemusha infatti è disarcionato dal cavallo di Shingen e le donne che lo curano avvertono ch’egli non ha le cicatrici che aveva Shingen.

Viene cacciato come un pezzente. Kurosawa insiste nel sottolineare questa fine… ingloriosa dell’uomo che ha salvato tante situazioni della casa Takeda: introduce anzitutto la disperazione del bam­bino che ormai s’era tanto affezio­nato al nonno; poi fa avvenire la scena sot­to una pioggia tor­ren­ziale, sottolinea il voltafaccia degli uo­mini che l’avevano fi­no ad allora osse­qui­a­­to e simili, ma sot­tolinea anche che le due buste di rico­noscenza gliele de­vono mettere in tasca, perché per lui, dedito a quella missione, è qualcosa di incomprensibile.

«ANNO TERZO DEL “REGNO GIU­STO” — 1575 apri­le». Katsuyori ha fi­nalmente il potere nelle sue mani. Kagemusha osserva disperato. Il nuovo prin­cipe or­dina lo scon­si­derato attacco, nonostante il segno premonitore, rappresentato dal­l’ar­co­baleno che si alza dal lago dov’è sepolto il genitore e che sembra sbarrargli la strada. Ma Katsuyori dà l’ordine di avanzare, nonostante il parere degli anziani.

«ANNO TERZO: 21 maggio 1575» (epilogo). È la strage sotto il tiro degli archibugi: «La montagna s’è mossa». Sarà la fine dei Takeda. Il Kage­mu­sha afferra u­na lancia e si scaglia contro il nemico. Colpito a morte si trascina verso il lago do­ve giace Shin­gen. Gli appare sott’acqua il ves­sillo di Shingen e gli si tende con le braccia; ma ambedue scompaiono senza con­giungersi: l’om­bra non si con­giunge con l’«o­riginale». 

Da notare, in questa parte, la sequenza che ri­prende il cam­po di battaglia do­po la strage: con l’uso del rallen­tatore, senza ru­mori, con il solo suono di una tromba fuori campo, la cinepresa si sofferma sui morti, sui feriti che barcollano, sui cavalli che agonizzano: sono immagini apocalittiche che invitano a meditare sugli effetti della guerra e di un potere pazzo e delirante. 

All’interno di questo materiale narrativo, cosí suddiviso, prende particolarmente risalto la lenta ma progressiva identificazione che avviene tra il Kagemusha ed il principe Shingen. Si tratta di un’identificazione quasi mistica, che stupisce gli stessi dignitari del clan («... sembra che lo spirito di Shingen sia in lui...») e che porterà un malvivente a morire come un eroe. Il rapporto ombra‑originale, infatti, come s’è accennato, è par­ti­colarmente sviluppato; fino al punto di rendere ineluttabile la morte del Kagemusha e il suo ricongiungimento con l’originale solo nella morte, perché fisicamente non si raggiungono.

Piú che per la ricostruzione dei singoli fatti storici (alcuni passaggi del racconto a noi sfuggono, forse perché culturalmente lontani, forse anche per quel po’ di tagli che ci sono nell’edizione internazionale); il film ci si impone per lo splendore delle sue immagini in movimento, cosí ritmate dallo scalpitio dei cavalli, dal crepitio degli archibugi e dai silenzi; per quei movimenti di massa, per quegli ingressi scal­pitanti di cavalieri, per quegli incontri all’interno dei palazzi, apparentemente cosí lontani dai rumori di guerra, per quei fremiti di guerra, per quell’incalzare di cavalieri e di truppe, per quelle continue mirabili composizioni coloristiche e figurative, per quelle bandiere che garriscono nell’aria colpite dal vento o dai movimenti, per quello sbucare progressivo delle masse dopo l’apparire improvviso dei condottieri, per quelle nebbie, per quei fulmini. È un film possente come struttura e come linguaggio oltre che come poesia, attraverso la sua imponente bellezza.

Ma non è solo spettacolarità, pur di altissimo livello artistico e culturale. Cos’è l’uomo? sembra chiedersi Kurosawa, grande e meschino, eroico e piccino nelle sue ambizioni, nelle sue bramosie di potere; e cos’è la storia intessuta di e da questi uomini? Il film è la meditazione, di un uomo di settant’anni, sull’uomo inquadrato nella storia del suo Giappone, ma pressato dalla realtà contemporanea, visto sotto il profilo dei valori veri e profondi: la lealtà verso gli impegni superiori, che ci arrivano da una tradizione e dalla storia imperniate su di essi; il rispetto per essi e per chi ne è portatore. Il tutto nel saliscendi del destino, dove emerge ciò che appare, non ciò che è.

Da notare anzitutto che quella storia del suo Giappone è considerata da due uomini: un principe e un assassino; l’originale e il suo sosia. Il principe ha per stendardo le «Quattro Parole»: «rapido come il vento - silenzioso come la foresta - subdolo come il fuoco - fermo (immobile) come la montagna», che incutono rispetto e terrore nei suoi nemici. Il suo potere, proprio perché si regge su tali principi, riesce, nonostante tutto, a non prevaricare. Era un’epoca — ha detto l’autore in un’intervista — «di gente leale e modesta, di grandi ambizioni e di grandi sconfitte, di grandi eroi e di non meno grandi scellerati»; epoca, insomma, di valori umani, pure in lotta. In questo contesto, si può considerare anche la progressiva maturazione del Kagemusha verso la sua identificazione. Egli fa propri quei princípi, ma benché cacciato dall’incarico, cercherà di esservi fedele fino alla morte. Cercherà anche di ricongiungersi fisicamente con quello stendardo, ma il vero ricongiungimento col principe potrà essere solo nella morte, dove valori e disvalori si ristabiliscono. «Quegli antichi guerrieri — ha confidato il regista ad Aldo Tassone (opuscolo della 20th Century Fox) — aspiravano a fare della guerra e della morte qualcosa di affascinante, di splendido. Come rimanere insensibili a questa estetica della morte?»

Il Kagemusha rappresenta il prolungamento nella storia della dimensione di quel principe; Katsuyori, invece, che irride a quei supremi valori, rifiutando di tenerne conto sebbene avvertito, porta i suoi alla rovina e al massacro: il mondo, abbandonati i veri e ancestrali valori umani, va incontro all’autodistruzione; ma l’abbandonare quei valori si palleggia tra una sorta di destino e un progredire inevitabile delle culture (la tecnica? qualcosa, comunque, che non si imposta su una concezione d’arte e di bellezza). Da notare poi quell’insistenza sugli archibugi (tecnologia), mortali, ma che non vincono quando al di là c’è Kagemusha, portatore dei valori; vincono però quando c’è Katsuyori che quei valori infrange. In questo contesto, la distinzione tra principe e assassino che si ricongiungono solo nella morte, tra Giappone antico e Giappone attuale, tra lealtà e servilismo dei potenti nei confronti dei Kagemusha.

Una noticina marginale, ma d’un certo interesse per vari aspetti, non ultimo quello di associare (nel film) la religione cattolica con la guerra, ma con persone di dubbio equilibrio sociale. Quando il figlio di Shingen, Katsuyori parte per la guerra, non consultando lo stato maggiore e as­sedia Takatenjin, ha come labaro l’insegna vescovile e il vescovo cattolico lo benedice. Anche questa è una realtà storica: uno di quei feudatari s’era convertito alla religione dei missionari e ne chiedeva la benedizione prima di imprese importanti. 

•••

Tutti gli attori del film, esclusi i principali, vennero scelti tra 15.000 candidati e dopo una prima selezione. Kurosawa effettuò personalmente un migliaio di provini, col risultato che il 10 per cento erano attori non professionisti, ma scelti per il loro portamento, la loro spontaneità e le capacità fisiche; su 200 cavallerizzi, 20 erano donne, perché meno incoscienti e scavezzacollo. L’attore Shintaro Katsu, uno specialista di film di samurai, chiamato a impersonare tanto Shingen quanto Kagemusha, dopo un paio di settimane fu licenziato dal regista per insubordinazione e alcolismo. Al suo posto fu chiamato Tatsuya Nakadai. Dopo un mese di riprese, Kurosawa ormai settantenne si ammalò e dovette essere sostituito dal vecchio e fedele collaboratore Asaichi Nakai. Da notare che la musica — pare voluta dalla produzione — è occidentale, ma Kurosawa non fa pesare molto il disagio stilistico, anche perché non cade nell’insulso frastuono di molta musica da film occidentale, ma soprattutto per l’uso dei rumori e dei silenzi.

La Toho accettò di finanziare il film come co-produzione, forse perché sulla carta ricordava LA FORTEZZA NASCOSTA e IL TRONO DI SANGUE, con la speranza di rilanciare il cinema giapponese in crisi.

Il film presentato a Cannes 1980 conquistò la Palma d’Oro. Del film esistono oggi due versioni: quella nazionale di tre ore (quella presentata a Cannes) e quella internazionale di poco piú di due ore e mezzo. Il VHS riporta questa seconda.

 


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