BARBAROSSA
Regia: Akira Kurosawa
Lettura del film di: Nazareno Taddei
Titolo del film: BARBAROSSA
Titolo originale: AKAHIGE
Cast: regia: Akira Kurosawa - sogg.: Shugoro Yamamoto (romanzo)- scenegg.: Akira Kurosawa, Masato Ide, Hideo Oguni, Ryouzu Kikushima - fotogr.: Asakazu Nakai, Takao Saito, Tomobiki Wakai - mus.: Masaru Sato - scenogr.: Yoshiro Muraki - cost.: Yoshiko Samejima - interpr.: Toshiro Mifune (Dr. Kyojo Niide - 'Akahige'), Yuzo Kayama (Dottor Noboru Yasumoto), Tsutomo Yamazaki (Sahachi), Reiko Dan (Osugi), Miyuki Kuwano (Onaka), Kyoko Kagawa (Pazza), Tatsuyoshi Ehara (Genzo Tsugawa) Terumi Niki (Otoyo), Akemi Negiski (Okuni) - B&N - durata: 185' - produz.: Ryuzo Kikushima e Tomoyuki Tanaka per la Kurosawa Film, Toho - origine: GIAPPONE, 1965 - distribuz: Regionale
Sceneggiatura: Akira Kurosawa, Masato Ide, Hideo Oguni, Ryouzu Kikushima
Nazione: GIAPPONE
Anno: 1965
(Tratto da TUTTOKUROSAWA a cura di Nazareno Taddei sj, Edizioni Edav 2001 e originariamente in «Letture», Luigi Bini sj, ottobre 1965)
Ventitreesimo film, AKAHIGE, è tratto dall’omonimo romanzo di Shugoro Yamamoto e diciassettesimo e ultimo film del connubio Kurosawa e Mifune, rimproverato d’aver puntato troppo sul monumentale del suo personaggio. Dopo questo film, trascorrono cinque anni prima che Kurosawa ne realizzi un altro, il successivo… (v. Edav n°49, Il Morandini)
«Il film vuol essere il ritratto di Kyiojo Niide, direttore di un ospedale nell’epoca feudale Edo, cioè ai primi dell’Ottocento. Una splendida barba rossiccia gli inquadra il volto e gli merita il soprannome di «Barbarossa». Giunge all’ospedale un giovane medico, ragazzo intelligente, appena uscito dall’Università di Osaka dove ha studiato persino «la medicina olandese»; aspirava a un incarico a corte e si era procurato anche le raccomandazioni del caso. Invece si vede destinato in questo ospedale brulicante di poveracci e agli ordini di un direttore autoritario da cui non si riceve se non lavoro e umiliazioni. Di fronte a Barbarossa, il giovane internista si pone in atteggiamento di difesa se non di ribellione. Avrà però modo di essere testimone di molte situazioni di miseria, malattia e infelicità, affrontate da Barbarossa con tale disinvolta, accorata e coraggiosa dedizione che il giovane alla fine capitolerà interamente. Rinuncerà all’offerta di una posizione a corte per rimanere definitivamente al fianco di Barbarossa.
Per questo film, Kurosawa è accusato di uno dei «peccati cinematografici» in questo momento (1965) piú ignominiosi: I’hollywoodismo. Quella del medico Barbarossa sarebbe una biografia edificante condotta secondo convenzione, sorretto da un’astuta alternanza di quelle fasi tragiche, sentimentali, umoristiche cosí adatte alle esigenze commerciali di un grande spettacolo avviato verso l’happy end di obbligo.
Il film si apre con una presentazione indiretta di Barbarossa. Un collega fa visitare i vari locali dell’ospedale al nuovo medico appena arrivato e nel frattempo gli parla con ammirazione e timore del Maestro. Quando varchiamo con i due medici la soglia dell’ufficio del direttore, quella di Barbarossa è già una presenza nel film.Fino a quel momento non l’avevamo visto. Ma l’accento di verità del dialogo e la sobria fedeltà visiva con cui persone e luoghi erano caratterizzati ci avevano immersi in un’attesa sempre piú suggestiva di un incontro con lui, il «dio di quel mondo». Eppoi Barbarossa lo vediamo in azione. È I’eroe di una policroma e lunga serie di gesti variamente umani.
Questo racconto, dal ritmo rotto e frazionato, cerca una possente sotterranea spinta di fusione in quell’approfondimento psicologico dei personaggi cui il flusso aneddotico sembra convogliarsi. Toshiro Mifune ci fornisce un’interpretazione semplicemente superba per potenza, misura e duttilità. Il suo Barbarossa campeggia nei vari episodi come imponente eroe romanzesco.
AKAHIGE non è perciò la riuscita e suadente biografia di Barbarossa che Kurosawa pensava probabilmente di stilare. Nella sua realtà effettiva rimane però un’opera di pregnante valore.
Anzitutto allinea per lo meno tre episodi che bastano da soli ad assicurargli straordinaria qualità. La visita di Barbarossa al pachidermico Shogun è una pagina vibrante di satira sociale taglientissima perché raffinata e umana. L’ottuso «pancione» accoccolato sul divano non pronuncia una sillaba. Ma quello sguardo rivolto al medico che implacabile elenca i cibi prelibati da cui il signore d’ora in poi si dovrà astenere è traboccante mestizia… Lo schiudersi di Otoyo, la dodicenne strappata dalle grinfie della tenutaria di una casa di tolleranza, alla fiducia negli altri e all’affettuosa amicizia verso il ladruncolo di sette anni è tratteggiato con una verità cosí intensa e tenera da superare i confini dell’autentica poesia. C’è poi il misterioso dramma d’amore che segretamente anima il vecchio malato a servire e a lavorare per i suoi compagni di sventura fino a morirne. Un capitolo in cui accenti di sublime tragicità si armonizzano ad appassionate intuizioni nel cuore di un uomo e di una donna coinvolti nelle arcane spire dell’amore.
Secondo una sua abitudine il regista ha girato la maggior parte delle scene usando contemporaneamente parecchie (fino a cinque) macchine da presa. Questo metodo originale favorisce la continuità dell’azione, la naturalezza dell’interpretazione e soprattutto apre al montaggio possibilità sorprendentemente svariate anche se rende piú arduo lo studio della composizione della singola inquadratura. L’immagine è costantemente splendida pur senza ammorbidirsi in preziosismi. Sembra la risultante di un conflitto tra luci e ombre. Questa intrinseca dialettica le imprime una complessa plasticità per cui oggetti, persone, atmosfere sembrano quasi balzare sullo schermo pure nelle loro dimensioni di volume e peso. Lo snodarsi degli avvenimenti incide il panorama sinceramente angosciato di una società. Un’umanità umile, infelice, abbietta o generosa che ci vive davanti in balia della sua miseria e di una sconsolata impotenza.
Un immancabile coup de ponce umoristico sdrammatizza ed umanizza la stessa odiosa presenza dei «cattivi»: ricordiamo, oltre alla figura dello Shogun obeso, il profilo della tirannica madame e della frasetta con cui Barbarossa commenta la sua prodezza di samurai che ha seminato il campo di mutilati spezzando gambe, mascelle e braccia: «Non è bene che un medico ricorra alla violenza».
Non per nulla Akira Kurosawa si dichiara discepolo di Dostoevskij. Queste pagine sono popolate di un’umanità umiliata, offesa, depravata, ma pur sempre cosciente di una sua dignità. (Nazareno Taddei sj e Luigi Bini sj)