BAARIA - LA PORTA DEL VENTO
Regia: Giuseppe Tornatore
Lettura del film di: Franco Sestini
Edav N: 373 - 2009
Titolo del film: BAARIA - LA PORTA DEL VENTO
Titolo originale: BAARIA - LA PORTA DEL VENTO
Cast: regia, sogg. e scenegg: Giuseppe Tornatore – fotogr.: Enrico Lucidi – mus.: Ennio Morricone – mont.: Massimo Quaglia – scenogr.: Maurizio Sabatini – cost.: Luigi Bonanno – interpr.: Francesco Scianna (Peppino), Margareth Madè (Mannina), Raoul Bova (Giornalista), Lina Sastri (Tana), Vincenzo Salemme (Capocomico), Paolo Briguglia (Maestro di catechismo), Michele Russo (Turiddu), Monica Bellucci, Enrico Lo Verso (Minicu), Ángela Molina (Sarina anziana), Laura Chiatti (Studentessa), Nicole Grimaudo (Sarina), Beppe Fiorello (Venditore dollari), Aldo Baio, Salvo Ficarra (Nino), Valentino Picone (Luigi), Spiro Scimone, Gaetano Aronica, Alfio Sorbello, Luigi Lo Cascio, Gabriele Lavia, Leo Gullotta (Liborio), Nino Frassica (Giacomo Bartolotta), Giorgio Faletti – durata: 150’ – colore – produz.: Marina Berlusconi, Tarak Ben Ammar per Medusa Film, Quinta Communications– origine: ITALIA, FRANCIA, 2009 – distrib.: Medusa (25-09-2009)
Sceneggiatura: Giuseppe Tornatore
Nazione: ITALIA
Anno: 2009
Presentato: 66. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia - 2009 - Concorso
È la storia di Giuseppe Torrenuova, detto Peppino, ma è – al tempo stesso – la storia di 40 anni di storia in Sicilia e, più precisamente, a Bagheria, città natale del regista ed il cui nome in lingua fenicia fornisce il titolo al film.
Peppino è figlio di Cicco – pastore di capre all’epoca dell’avvento del fascismo – che nel suo durissimo lavoro trova il tempo per dedicarsi alla lettura, innamorato com’è dei poemi cavallereschi e dei grandi romanzi popolari.
Peppino lo incontriamo nella prima sequenza quando la maestra lo punisce mettendolo in castigo dietro la lavagna perché non ha fatto i compiti; la scusa addotta dal ragazzo – «la capra mi ha mangiato il libro» – non viene creduta dall’insegnante ma è vera; lo troviamo poi alla partenza per la guerra, dove l’amico fraterno, Nino, lo saluta alla Stazione e gli augura buona fortuna; nel dopoguerra, oltre al fatale incontro con la donna della sua vita (Mannina), Giuseppe scopre le ingiustizie del suo Paese e cerca il modo di combatterle: nasce così la passione per la politica e, segnatamente, per il Partito Comunista Italiano, diventando così per tutto il Paese «Peppino il Comunista».
Il problema con Mannina lo risolverà il padre, Cicco, che interviene dopo una «fuitina mal riuscita» e si porta i due colombi a casa propria per farli poi sposare con una cerimonia dai toni estremamente sobri ed austeri: gli sposi non possiedono neppure le fedi e così si utilizzano quelle delle rispettive madri.
Peppino alterna il proprio lavoro (porta a domicilio delle donne del Paese la propria mucca e munge il latte sulla porta di casa) all’attività politica, per la quale comincia a lavorare strenuamente, cercando di colmare tutte le proprie lacune, anche quelle di carattere culturale. Per cercare di mantenere dignitosamente la famiglia (siamo negli anni ’60) si reca a lavorare come muratore a Parigi, ma la lontananza da moglie e figli è troppo forte, così Peppino accetta di tornare a lavorare per il Partito – con scarsa retribuzione – fino a quando non gli viene proposto di candidarsi alla carica di Consigliere Comunale.
Vince alle elezioni e per la famiglia Torrenuova – allietata da quattro figli – comincia un periodo di relativa prosperità, ma hanno inizio anche i primi screzi con i figli che risentono della confusione d’idee che è presente in sede nazionale: prime contestazioni, scissione dei socialisti dal Partito e allontanamento di un suo carissimo amico.
Il Peppino di una volta, chiamato «il comunista che mangia i bambini», diventa per i contestatori del momento, «un riformista», parola il cui significato neppure lui saprà spiegare al figlio.
La partenza, nella parte finale del film, sarà del figlio Michele e ci mostra un Peppino pieno di tosse, ma pieno ancora di un enorme entusiasmo per la vita; a questo punto l’autore «ritira fuori» il bambino Peppino che era stato messo in punizione dalla maestra e che si era addormentato, sognando – questo sembra essere l’assunto della sequenza – quello che avverrà nel futuro: ed è così che l’arco tematico si chiude con il bambino che appare all’inizio ed alla fine e che testimonia di questo perdurare dei vari «Peppino» che si susseguono nella storia di Baarìa, quasi una costante della vitalità della gente del posto.
Il film ruota attorno ai tre personaggi chiave, Peppino, la moglie e il padre Cicco con i nipoti, tra i quali primeggia Michele; le vicende di questi personaggi vengono montate a incastro, ma il film non da motivo di particolari difficoltà di comprensione; la vera difficoltà è l’uso del dialetto siciliano che, per la sua incomprensibilità, viene accompagnato dai sottotitoli in italiano, circostanza che non darà molti buoni frutti economici nelle sale cinematografiche nostrali (mi auguro di sbagliare!).
Con questo modo di strutturare la narrazione, l’autore ci conduce – con una storia che oltre alla serietà ed alla malinconia, presenta anche svariate sequenze divertenti – in un viaggio di circa 40 anni in un Paese che ha passato le varie fase della storia e da tutte ha recepito la speranza che qualcosa potesse cambiare, ma questo cambiamento non si è mai verificato (l’ultimo assessore all’urbanistica di una Bagheria diventata una piccola cittadina è un “ladro” come tutti gli altri che lo hanno preceduto; l’unica diversità: è cieco).
E quindi, oltre a narrare la storia di Peppino, di Mannina, di Cicco e di Michele, la vera protagonista del film è Bagheria, o meglio Baarìa, con i suoi personaggi che si ripetono generazione dopo generazione, con i suoi amori contrastati, con la povertà irrisolvibile del Sud, con le amicizie , ma anche con l’inganno e con il tradimento.
Per fare questo Tornatore ha chiamato a raccolta uno stuolo di attori italiani molto bravi – sembra che siano addirittura 200 – disegnando in questo contesto corale, per ciascuno di loro un ruolo piccolo ma fondamentale; mi viene in mente – a titolo esemplificativo – il bravissimo Luigi Maria Burruano, impiegato come farmacista che consegna all’amico di Peppino, Nino, un amaro medicinale al posto di un veleno che il giovane gli ha chiesto «per morire perché si è stufato»; il dialogo tra i due e la successiva convinta attesa della morte da parte di Nino sono tra i pezzi migliori del film.
Ma il film è tutto ben fatto e intriso di buoni sentimenti, dall’amicizia al vero amore, dalla volontà di aiutare chi soffre al desiderio di giustizia, dall’amore per la famiglia al desiderio di risolvere i problemi sociali; certo che al termine dell’opera non possiamo affermare che Tornatore si pronunci in forma ottimistica sul futuro del suo Paese, che viene visto invece come un qualcosa destinato a restare immutato nel tempo: cambiano gli attori delle varie epoche, cambiano le situazioni politiche, ma la sostanza delle cose sembra restare immutata. Un unico neo al bel film di Tornatore (oltre al fatto dei sottotitoli in italiano): forse in sede di montaggio definitivo si sarebbe potuto tagliare una ventina di minuti di narrazione senza che l’opera nel suo complesso ne risentisse, ma probabilmente l’amore di Tornatore per le cose rappresentate è tale che gli ha impedito l’uso delle forbici. (Franco Sestini)