LEBANON (LEVANON)
Regia: Samuel Maoz
Lettura del film di: Franco Sestini
Titolo del film: LEBANON
Titolo originale: LEBANON
Cast: regia, sogg. e scenegg.: Samuel Maoz fotogr.: Giora Bejach mus.: Nicolas Becker, Ron Klein mont.: Arik Lahav Leibovitz [Arik Leibovizt] scenogr.: Ariel Roshko cost.: Hila Bargiel interpr.: Yoav Donat (Shmulik), Itay Tiran (Asi), Oshri Cohen, Michael Moshnov (Yigal), Zohar Strauss (Gamil) durata: 92' colore produz.: Anat Bikel, Uri Sabag origine: ISRAELE, 2008
Sceneggiatura: Samuel Maoz
Nazione: ISRAELE/FRANCIA/GERMANIA
Anno: 2009
Presentato: 66. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia - 2009 - Concorso
Premi: Leone d'oro e Premio Padre Nazareno Taddei sj alla 66ma Mostra Internazionale D'Arte Cinematografica di Venezia
È la storia dell’equipaggio di un carro armato israeliano impiegato in operazioni belliche in Libano durante la crisi del 1982: a bordo abbiamo quattro carristi, ma soprattutto quattro ragazzi: Assi, l’ufficiale comandante, Shmulik, l’artigliere, Herzl, l’addetto al caricamento dei pezzi e Yigal, l’autista.
Sono quattro ragazzi giovanissimi che azionano una macchina poderosa ma che – come recita una scritta che appare varie volte (“l’uomo è d’acciaio, il carro armato è una massa di ferraglia”) sono soprattutto dei ragazzi su una macchina che può anche fermarsi; tutti e quattro non sono soldati di carriera ma sono stati richiamati in occasione della guerra del Libano del 1982; ognuno di loro sogna di tornare a casa quanto prima; non sono affatto bellicosi combattenti, ma timidi giovanotti che ancora invocano e cercano di tranquillizzare la mamma.
L’operazione che li vede impegnati è quella di “ripulire” una cittadina, rasa al suolo da un bombardamento aereo; quindi ci aspettiamo – ed infatti vengono trovate – macerie e cumuli di cemento, dietro ai quali potrebbe trovarsi (come in effetti si trova) uno o più terroristi che, al contrario dei quattro israeliani, combattono con fede e tenacia cieca ed assoluta.
La vicenda percorre una giornata, compresa la notte, e ci mostra questi giovani che – pur ansiosi di aiutare il proprio paese – sono in preda alla paura più cieca e sono anche attanagliati dal terrore della morte; in una delle tante comunicazioni radio con la base, l’autista, Yigal, chiede di informare la madre che sta bene (“sapete, sono figlio unico ed è sempre in pena per me”).
Per qualche motivo probabilmente dovuto alla cattiva organizzazione dell’operazione, il carro dei nostri quattro giovani resta isolato e viene “aiutato” solo da un’auto guidata da due falangisti (arabi – cristiani) che li dovrebbe scortare fino all’uscita dalla cittadina; chi si fida di loro e chi invece preferirebbe fare di testa propria, ma il problema è che la radio non funziona e quindi il collegamento con la base è estremamente vago; quello che appare, in molti momenti, è una incomprensibile disorganizzazione dell’esercito israeliano, mostrato come esempio di efficienza e di forza d’urto.
Il film è quasi tutto girato nell’angusto spazio di un carro armato e questo genera nello spettatore una sorta di sensazione claustrofobia che a lungo andare provoca angoscia; e angoscia allo stato puro è la sensazione che avvertiamo quando questi quattro giovani sono chiamati a prendere delle decisioni di carattere “mortale” per loro o per gli altri; ecco, quello che voglio ribadire è l’angoscia come sentimento invadente di tutta la narrazione.
Scontata la tematica che l’autore – un israeliano di poco più di 45 anni – porta avanti: la guerra, come modo di sistemare le questioni razziali o territoriali è una scelta assurda, verso coloro che la combattono e verso coloro che la subiscono come popolazione civile inerme; bellissima la scena in cui un terrorista asserragliato in una casa, si fa scudo di una donna e della figlia: entrambe rimarranno uccise, ma la donna prima di morire avrà la veste bruciata ed un carrista, per un ammirevole rigurgito di umanità, ne protegge il corpo nudo con una tovaglia caduta a terra.
Non a caso ho usato il termine assurdo, perché proprio questa è la sensazione che mi ha maggiormente colpito: pensate che all’interno del carro, esiste una sorta di grossa tanica che serve a contenere l’orina dei soldati; e infatti durante la narrazione sono assai frequenti le richieste di “devo pisciare” per indicare uno stato di necessità che non può essere rimandato ma che in quel sito così angusto determina grossi problemi; da aggiungere che tale richiesta viene avanzata anche da un prigioniero siriano affidato al carro ed il film termina con un gesto di grande umanità: uno dei carristi prende la tanica e provvede personalmente a fare orinare il prigioniero che, essendo incatenato, non potrebbe farlo da solo; tale operazione, oltre a mostrare che in quella circostanza e in quel contesto così angusto non esiste “il nemico” ma solo un altro essere umano che ha le tue stesse necessità, ci evidenzia come i ragazzi giovani e imberbi, non hanno ancora nessuna cattiveria, ma solo la voglie di tornare a casa dalla mamma.
Un’altra notazione: l’autista Yigal, quello che aveva chiesto alla base di informare la madre che lui stava bene, è l’unico che muore e – guarda caso – proprio dopo tale evento giunge dal comando la notizia che la madre ha ricevuto la notizia e ringrazia: a quanto abbiamo detto finora sulla demenza della guerra, possiamo aggiungere anche questa macabra circostanza, il che ci induce a ribadire con forza che la guerra è una delle cose più insensate che l’uomo abbia inventato nella sua lunga storia e che nella sua infinita stupidità, continua a renderla sempre più infame per tutti.