CAPITALISM: A LOVE STORY
Regia: Michael Moore
Lettura del film di: Franco Sestini
Titolo del film: CAPITALISM: A LOVE STORY
Titolo originale: CAPITALISM: A LOVE STORY
Cast: regia, sogg. e scenegg.: Michael Moore – fotogr.: Daniel Marracino, Jayme Roy – mus.: Jeff Gibbs – mont.:John Walter, Conor O’Neil – interpr.: Michael Moore (Se stesso) – durata: 120’ – colore – produz.: Kathleen Glynn e Michael Moore per Dog Eat Dog Films, Overture Films, Paramount Vantage – origine: USA 2009 – distrib.: Mikado
Sceneggiatura: Michael Moore
Nazione: USA
Anno: 2009
Presentato: 66. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia - 2009 - Concorso
È la storia del “capitalismo” mondiale, ma in particolare quello americano, visto come tesi e quindi tutto da dimostrare: l’avvio viene preso naturalmente dalla bufera che ha investito le economie di tutto il mondo e la cui colpa è affibbiata al capitalismo ed alle sue storture.
Senza dare alla narrazione un corretto andamento cronologico, l’autore cerca di evidenziare alcune storture del sistema e in particolare: l’inizio con i mutuo concessi in modo “subprime”, cioè con tassi al di sotto della media e con migliaia di famiglie che restano sul lastrico per effetto del mancato pagamento delle rate e del conseguente pignoramento dell’appartamento: a questo fine vengono intervistati alcune persone rimaste incastrate nel vorticoso giro dei mutui e tutti cercano di rifarsela con la Banca che ha proposto loro l’iniziativa; alcuni personaggi “dell’altra parte” che vengono cercati per completare il dettaglio informativo non rispondono e quindi non si completa il ciclo della comunicazione; però dobbiamo dire che gli sfrattati che piangono miseria fanno ovviamente più effetto dei manager delle banche che non rispondono all’intervista.
Un altro punto trattato dal film è la massiccia mole di “disoccupati” creati da questa crisi: si comincia col trattare la vicenda della General Motors che a seguito della crisi mondiale dei motori ha licenziato un sacco di maestranze; la motivazione di questa crisi dell’industria automobilistica viene fatta risalire da Moore alla guerra conclusasi nel 1945, con la distruzione dell’industria analoga di Germania e Giappone; in questo arco di oltre 60 anni, l’America ha avuto buon gioco a dominare il mercato degli autoveicolo, ma in questi ultimi anni le due economie rivali hanno rialzato la testa e, attraverso la realizzazione di autoveicoli più a buon mercato e meglio costruiti, hanno soppiantato il dominio statunitense nel settore.
Quanto sopra, pur avendo un fondo di verità, mi sembra un modo semplicistico di affrontare un problema che è di portata mondiale, che quindi investe anche quelle industrie automobilistiche che – a detta di Moore – sarebbero superiori strutturalmente: la crisi automobilistica ha colpito anche la Germania ed il Giappone, altro che storie!!
Il “modo” di rappresentare questa parte del documentario è la stessa: interviste a operai licenziati che si scagliano, giustamente,m contro l’azienda che li ha cacciati e manager che non rispondono: facile pronosticare chi vinca!!
Viene poi affrontato il mondo di Wall Street e in particolare quello delle banche d’affari che sono andate, addirittura fallite, o – peggio ancora – sono state salvate da una pesante immissione di liquidità da parte del Governo Bush. In questa parte viene chiamato in causa addirittura il Congresso e viene fuori che i tanti miliardi di dollari assegnati a strutture finanziarie sull’orlo del fallimento, sono stati “estorti” con una mossa al limite del lecito; infatti, alla prima votazione – stante i tanti “NO” inviati ai deputati dai loro elettori – il provvedimento governativo di aiuto alle Banche non era passato; solo dopo, e con metodi a dir poco mafiosi, la normativa salva-banche è stata approvata e non viene escluso che ci sia stato anche l’intervento dei Servizi Segreti per “convincere” qualche deputato riottoso a votare a favore.
Nell’ultima parte del film, Moore opera all’esterno di Wall Street e cerca di intervistare qualche esperto operatore della Borsa per farsi spiegare qualche “arcano”, tipo “cosa sono i derivati?”; le risposte e la faccia di Moore in controcampo, sono tra i pezzi migliori del film: le prime sono più astruse di una formula di fisica superiore, mentre la seconda è l’esatto prototipo di quello che è il cittadino comune di fronte a queste risposte arzigogolate.
Ed allora Moore decide di recintare tutto l’edificio della Borsa in quando “scena del crimine” e chiede la restituzione del denaro “rubato” ai contribuenti; questo sequenza, con la gente che assiste allibita al passaggio del nastro giallo attorno all’edificio, è quanto di meglio si ha nell’opera, specie se si considera la faccia della gente che assiste alla manovra ed all’imperturbabilità dell’autore nell’eseguire l’operazione.
Al termine, il concetto che viene espresso – a parole – è il seguente: il capitalismo è una malattia e, come tale, non può essere regolamentata ma può soltanto essere curata ed estirpata”; il problema è il “come” eseguire questa operazione che non è certo dappoco: per l’autore la soluzione è in una sola, magica parola: democrazia, cioè dare a TUTI la possibilità di decidere sulle cose; ed aggiunge che – al momento – l’unica voce che è sorta in difesa della gente “povera”, o meglio “non ricca” è quella della Chiesa ed a questo proposito ci viene presentato il Vescovo di Chicago che partecipa all’occupazione di una fabbrica e in tale contesto pronuncia parole importanti circa l’etica cristiana del lavoro e la sua posizione sul capitalismo, posizione varie volte ribadita anche dall’attuale Pontefice (“Il capitalismo non ha reso l’uomo più felice di quello che era precedentemente”).
Sul film, nel suo insieme, ho già accennato qualcosa, ma voglio ampliarla: come detto, è un’opera “a tesi” e la dimostrazione avviene soltanto “all’interno del film”, cioè con gli strumenti espressivi che l’autore ci propone; al di fuori di questo, si potrebbe scrivere pagine e pagine per contestare alcune affermazioni, ma non è questa la sede e neppure l’occasione; limitiamoci quindi a dire che il film “regge per quello che è stato fatto”, cioè per dire male dell’Amministrazione Bush, per dire male di altri Presidenti, da Reagan a Carter e per sfiorare appena Clinton; tutte le aspettative sono adesso riposte su Obama, e su lui addossare tutti i problemi irrisolti dell’America; anch’io mi unisco a tali auspici, ma dalla realizzazione del film ad oggi, il buon Barak ha già inanellato qualche inciampone (riforma sanitaria che non riesca a far passare, situazione in Afganistan e Iraq che non si sblocca e Medio Oriente ancora in alto mare) che mi induce ad una cautela maggiore di quella che usa Moore. (Franco Sestini)