Auguri a Ian Fleming
di NICOLA GALA
007 sono io, siamo noi. E Ian Fleming può essere soddisfatto di aver trasmesso la sua molto autobiografica identificazione a lettori e cinespettatori che continuano – beh, l’agente con molte licenze non ha smesso di incontrarci (tornerà, tornerà...) – ad affondare in poltrone pubbliche e private per poter così viaggiare, stupire, bere, giocare, vincere, baciare, lottare e salvare il mondo (anche di più: il mondo non basta !) con LUI, James..., James Bond.
Il 28 maggio 1908, un secolo fa circa, nasceva a Londra Fleming, che sarebbe stato direttamente interessato, come tutti sanno, ai dilemmi ingarbugliati del Servizio Segreto Britannico, e ciò avrebbe agito sulla realtà e la fantasia della sua esistenza di scrittore. Ma quel che conta è il fantasma onirico da lui creato che scorre dalle pagine agli schermi grandi e piccoli, la presenza ironica e violenta, decisa e null’affatto astratta dell’agente che per e sotto il mare, sulle cime e nei fondi va a rappresentare una cospicua, come si dice, fetta di umanità orgogliosa di poter essere. Qualcuno ha già obiettato sulle paraboliche discese e le inarrivabili ascese e l’impossibilità di perdere (una sua nota battuta in risposta alla domanda «Che cosa prova lei quando perde ?» risuona «Non so, non ho mai perso») e l’irresistibilità del fascino esercitato sulle donne, alleate e nemiche; facile è replicare sotto il profilo del genere cinematografico, delle finalità letterarie, della lontananza dall’indispensabilità puramente realistica: lasciamo perdere.
Non ritorneremo al giochino psicologico del bondismo se non per ricordare che del tutto comprensibile e legittimo è lasciar latitare (quando si riesce) qualche incolore momento della vita stradale e fiscale per aprire la porta di servizio alla fantasia dell’azione e all’invenzione del non agire: allora forniamo agli intellettuali la spiegazione di certe nostre scelte all’indirizzo di miti che contribuiamo a perpetuare e rinnovare.
Talora sono costruzioni mentali avanzate e traboccanti energie uniche e impossibili, quali Superman, i Fantastici Quattro, in altri casi vestono i panni di individui che giungono a possedere qualità eccezionali e ammirevoli, non superumane ma certamente e felicemente superiori alla media comune dei migliori: e abbiamo esemplari come Zorro, Indiana Jones, James Bond. Per entrambe le categorie nutriamo sentimenti di divertito apprezzamento, e se la prima famiglia, per la sua incredibilità, appartiene ad una dimensione salvifica e altamente regolatrice dei disordini di cui siamo tutti sempre abili fornitori, la seconda si ritaglia singolarmente con più modestia – si fa per dire – ambiti specifici corrispondenti a sospiranti settori del nostro immaginario e si fa interprete di ansie risolutrici mescolate a propositi molto terreni, politicamente e moralisticamente bisognosi. Quest’ultima sezione naviga l’avventura, quella facile a sporcarsi di fango e polvere, ma ben condita di sorprendente e sorpresa ironia, e di più marcati riferimenti al contatto sessuale, sentimentale. Gli uni e gli altri eroi con il loro successo attestano il nostro desiderio di un’elevazione di tono, di un’accentuazione protettiva, di una sistemazione del caos, di un allontanamento positivo.
E 007 è creatura non poco positiva, sia per la sua capacità di sciogliere grosse matasse di problemi attinenti ad un livello mondiale sia per la sua presenza fisica e comportamentale: attraggono il controllo e la lucidità quanto l’eleganza e la conoscenza enologica. Sa di armi e donne, entrambe sofisticate, di automobili e spie nemiche, entrambe usa e getta, di patria e di paté, gloriosi emblemi a cui rispondere prontamente. All’inizio fummo davvero presi da quella dichiarata, esplicita «licenza di uccidere»: non che fossimo nati il giorno prima, naturalmente, e pensavamo bene che gli agenti segreti non potessero andar per il sottile in alcune situazioni, ma dirlo così, esplicitamente, a titolare, quasi a rivelare dalle carte incassettate nei protocolli riservati, beh, muoveva curiosità mentre faceva pensare ad una legalizzazione dell’assurdo. Poi ci colpì, film dopo film (da romanzo dopo romanzo e da idea dopo idea), la ricetta globale. Purché ci fossero quegli ingredienti: la fascinosa sigla musicale iniziale fusa ad immagini ed effetti coloristici insinuanti, l’antefatto strutturalmente studiato, la canna di pistola – occhio da cui guardiamo – che si insanguina e oscilla, la Spectre o chi per essa, l’MI6 (il Servizio Segreto Britannico), M (il capo), Q (lo scienziato autore dei marchingegni di cui dotare gli agenti in missione), le potenze politiche, i trafficanti, lo spionaggio amico, le locations sempre nuove (Karnak e Venezia, Praga e i Caraibi, il Giappone e gli Stati Uniti, la Grecia e la Turchia...), gli strumenti ingegnosi di morte, il leit-motiv a sottolineare specie il clou dell’azione, l’impresa distruttiva ai danni dell’organizzazione malefica a scongiurare la catastrofe e il «dolcissimo» finale, ah, non dimentichiamo le donne sventagliate di volta in volta – tra le quali una deve spiccare per il protagonismo evolutivo della vicenda – per dimostrare... le altre qualità del sempre più nostro Bond.
È un centenario e dinanzi alla torta in tavola trascuriamo le cadutine presenti qua e là nella vasta produzione. È anno di festa, questo, e magari, rileggendo o rivedendo per l’ennesima volta qualche segmento delle mosse segrete (ma non troppo) della creatura, ricordiamo il suo creatore. (Nicola Gala)