CAMMINACAMMINA
Regia: Ermanno Olmi
Lettura del film di: Nazareno Taddei
Edav N: 110 - 1983
Titolo del film: CAMMINACAMMINA
Titolo originale: CAMMINACAMMINA
Cast: regia, soggetto, sceneggiatura, fotografia e montaggio: Ermanno Olmi - mus.: Bruno Nicolai - uscito nel 1983
Sceneggiatura: Ermanno Olmi
Nazione: ITALIA
Anno: 1980
Chiavi tematiche: chiesa istituzione
La vicenda per sommi capi. In paese e civiltà non meglio definiti, certamente antichi, c’è Mel (un sacerdote-astronomo) il cui giovanissimo servitore Rupo gli si ribella quando un giorno vorrebbe sacrificarne l’agnello prediletto a purificazione d’una giovane ladruncola. «Se qualcuno ha un debito con Dio – urla Rupo – lo paghi con la sua pelle e non con quella di un innocente!». E alla risposta di Mel che bisogna fare certe cose senza chiederne il perché, il ragazzino urla ancora: «ma perché mi domandi sempre delle cose e poi dici che non posso capire?».
Una notte appare un astro straordinario. Mel annuncia essere nato Dio in terra, secondo antichi testi. Il popolo si raduna per andare ad adorarlo e offrirgli i doni. Anche il re del paese invia una splendida sfera d’oro, in cassa su carro trainato da buoi e con una piccola truppa, per difenderlo. Dopo una manifestazione di festa, il popolo col carro si mette in cammino. Cammina cammina. Anzi: camminacammina.
Incontrano uno sparuto gruppo che ha avuto la stessa rivelazione, guidato da un giovane (quasi un capellone) che pare molto colto. Insieme riprendono pianure e guadi, monti e nebbie. L’uomo delle montagne. Qualcuno non ce la fa più e torna indietro. Cammina cammina.
Incontrano due «re», col proprio seguito, tende attrezzate come case e abbondanti animali da trasporto, anche esotici (elefanti, dromedari). Parlano lingue sconosciute. Il giovane colto fa da interprete. Anche se sono diretti al nuovo Signore, annunciato dagli astri. Si mettono insieme. Cammina cammina.
Arrivano in città dove il sospettoso re (Erode) li – diciamo – riceve. Non si capisce bene se su indicazione di questi o della stella, arrivano in piena notte al rifugio dove ci sono Maria e Giuseppe col bambino. I tre re danno l’oro, l’incenso e la mirra e ricevono in cambio tre pani rotondi. Data l’ora tarda, promettono di ritornare il giorno dopo con i doni delle popolazioni che rappresentano.
Ma nel profondo della notte, improvviso consiglio di guerra: quell’Erode non è poi tanto tranquillizzante…: sarà meglio andarsene senza lasciar traccia del passaggio. Svegliano la gente; sotterrano i tre pani ricevuti da Giuseppe, ma i doni della gente prendono posto nel carro dei capi. S’avvia al ritorno e si separano. Uno, poco convinto di quanto succede, ruba un cavallo e torna indietro al rifugio: il sacro bimbo non c’è più e tutt’attorno è la strage degli in nocenti. Frattanto, il colto capellone inveisce contro Mel perché non ha avvertito del pericolo Maria e Giuseppe e perché si è preso i doni della gente. «Costruiremo templi per celebrare la venuta di Dio sulla terra», risponde Mel. E il giovane: «Voi, nelle vostre chiese celebrerete soprattutto la sua morte!», ben lungi dal lasciar intendere che si tratti della morte in croce del Salvatore. Mel controbatte ironico ch’è facile parlare adesso: perché non s’è sfuriato al momento delle decisioni?
Il racconto. C’è una PRIMA PARTE, che fa da introduzione: un telone, quasi sipario di teatro, con dipinte le stelle. Lo rivedremo alla fine, ma senza eccessiva caratterizzazione.
Attorno a questo telone, con Mel che fa le sue misurazioni degli astri, la ribellione di Rupo, già iniziato al sacro librone. Saranno poi Rupo e amici a vedere per primi l’astro straordinario.
C’è già qualche indicazione: il sipario delle stelle (che però resta abbastanza indefinito strutturalmente) e il librone (della scienza o della saggezza o della parola divina? lo vedremo qualche volta e alla fine) fanno da contesto universalizzante (scienza e fede?) alla ribellione del ragazzo contro il sacerdote di cui è serviente.
Tale ribellione domina la sequenza, perché è in funzione sua che è costruito tutto l’episodio; ma, ai fini della concreta comunicazione con lo spettatore, quella ribellione trae la sua forza maggiore dal parlato, manifestando così un preciso intento polemico dell’autore: «i sacerdoti (l’istituzione) svisano il vero rapporto dell’uomo con Dio».
Affermazione questa di Olmi (v. intervista), francamente un pochino troppo azzardata concettualmente (il sacerdote e quindi l’istituzione sono mediatori per volontà di Dio; l’essere buono o cattivo mediatore non inficia la natura della mediazione stessa; i riti ne fanno parte e le eventuali aberrazioni non ne cancellano il marchio divino); e troppo perentoria esistenzialmente: non è che tutti siano cattivi, per il fatto di essere preti!...
In una SECONDA PARTE, la struttura narrativa prosegue col raduno del popolo, l’arrivo della carovana reale, la manifestazione di festa e d’addio. Poi la lunghissima marcia. E durante questa, i due distinti incontri col primo gruppo quasi disperso e col mondo così diverso degli altri due «re», tutti animati da una stessa ansia e da una stessa ricerca.
Sotto l profilo narrativo, tutto è fatto di piccole cose, di piccoli problemi concreti e discorsi direi quotidiani della vita d’oggi. Sotto il profilo semiologico, sono da notare senz’altro l’inflessine toscana degli attori presi dalla vita in quel di Volterra per la prima carovana e, accanto a questa, i costumi «amalgamati anche come materia» sul paesaggio più che su antiche culture (con notevole differenza – sotto questo preciso aspetto – dai fez ed elmi e mitrie di Pasolini nel suo VANGELO). Da notare ancora la musica bellissima che accompagna tutta la marcia, soprattutto nei momenti corali.
Il mondo di piccole cose di cui è fatta tutta questa lunghissima parte è fattore universalizzante: serve a dare «attualità» (odiernità) a quella storia di 2000 anni fa. La realistica inflessione toscana – a parte le osservazioni stilistiche che si potrebbero fare – contribuisce a questa «universalizzazione» tematica. I costumi entrano nello stesso clima tematico, non tanto perché «attualizzano» quella storia, quanto perché la liberano nello spazio e nel tempo. La musica, assieme al contesto narrativo, riesce a dare concreta coralità (quindi «universalizzazione» nel senso di «tutta l’umanità») a quel camminare, nella pur variegata molteplicità dei componenti la carovana.
Tutto questo fa trasparire il significato d’una grande unità d’intenti che annunciato dagli astri, al di sopra delle culture, delle categorie, degli usi, delle situazioni personali e/o sociali. E si noti che qui sono accomunati capi e popoli, che poi si distingueranno praticamente, nel senso che si dirà, nella terza parte.
Stilisticamente, pur avvertendo la personalità cinematografica di Olmi, non si può non avvertire anche che egli ha visto e «sentito» (forse inconsciamente) p.e. il Kurosawa soprattutto di KAGEMUSHA e , più genericamente il citato Pasolini del VANGELO (bellissimo in proposito, il re sull’elefante, con le due enormi sacche pendenti ai lati). Ma forse non è nemmeno impossibile sentire, sotto sotto, - e absit iniuria, per carità! – il senso d’ironia del Monicelli di L’ARMATA BRANCALEONE.
Nell’economia del film, queste circa due ore (filmiche) di marcia – che peraltro nascono dietro un titolo in cui lo spazio tra «cammina» e «cammina» è stato soppresso, quasi a evidenziare il senso «realistico» di fiaba – hanno un enorme peso strutturale e ovviamente tematico: la coralità sincera di tutta l’umanità attorno a Dio che viene sulla terra. Ma questo elemento tematico non puà non essere visto nel significato della ribellione di Rupo – serviente del sacerdote! – della prima sequenza, perché questo viene prima e quindi si impone condizionante (per leggi di struttura espressiva) su ciò che viene dopo.
Orbene, il senso che nasce è: «tutta indistintamente l’umanità sente il bisogno del Dio che viene tra gli uomini, ma questa stessa umanità è guidata da uomini che travisano il significato e i modi di quella venuta». Ancora una volta, non si può notare che l’affermazione è alquanto azzardata oltre che ingenuamente perentoria.
Viene poi la TERZA PARTE, piuttosto composita.
a) L’arrivo a Gerusalemme, in piena attività… di potere politico-economico (impalcature che fanno pensare ai tralicci innocenti); e, su questo sfondo, Erode che appena s’affaccia alla finestra, attorniato dai suoi ai quali manifesta i suoi sentimenti (e non si può non notare la capacità ormai riconosciuta di Olmi di cogliere in sfumature certe situazioni ben più grandi del dettaglio). È quella umanità che incontra Erode; una umanità peraltro di cui anche Erode e la sua Gerusalemme fanno parte così come i tre della carovana. (Anche Erode si interessa al neonato messia; senonchè, essendo questi nato nel territorio del suo potere, egli non può non starne all’erta: le ragioni del potere devono prevalere su quelle dell’uomo. Quell’umanità porta con e in sè anche questa componente).
b) L’arrivo nella notte al rifugio di Betlemme, di estrema e quasi squallida povertà; la semplicità di Maria e di Giuseppe; il loro senso della riconoscenza (i tre pani), umile e fiero, ancestrale (si sente l’Olmi dei contadini bergamaschi); il loro distacco dalla ricchezza che sta arrivando. Tutto ciò in contrasto col potere di Gerusalemme.
E, di faccia, a questa sacra famiglia l’ammirazione, muta ma sorpresa, della carovana: i Magi danno i doni, perché una stella straordinaria (ed essi conoscono i misteri del cielo) li ha condotti lì, ma probabilmente s’aspettavano qualcosa di ben diverso; il polo lascia fare a loro, inserendone il comportamento nella propria ammirazione e partecipazione.
Ma il film, dosando magnificamente voci e silenzi, grandezza squallore della culla, fa capire che quella gente avverte la contraddizione tra annunci cosmici e assoluta normalità d’un parto recente di gente poverissima. E infatti, quel rifugio è il punto d’arrivo della carovana, ma non della storia del film.
c) La decisione nelle tenebre di tornarsene: nessun «sogno» evangelico o nessun angelo della tradizione la sollecita («oggi non ce la danno più a bere!» dice Olmi…). È una decisione tutta «politica» come tante volte ai nostri giorni, imbastita su criteri che a tutto badano meno che alle vere ragioni per cui ci si sta muovendo: Dio che viene in terra non può non rivestirsi di potere; ma questo bambino sarà davvero Dio? e quindi preoccupazione di non dispiacere a chi – tra neonato ed Erode – è il più forte. Impegno di fronte ai propri popoli, promessa a Maria e Giuseppe, niente ha diritto di valere di fronte alla ragione «politica», che vuol dire alla fin fine interesse egoistico: potere, appunto. Ed ecco che qui Magi e relativi popoli si differenziano (i «capi» da una parte, il «popolo» dall’altra), mentre finora, nella ricerca, s’erano quasi confusi.
d) Il ritorno punteggiato in tre diversi momenti: la fuga di uno di loro (forse emblema del popolo che vorrebbe separarsi dai «capi» quando questi deviano) verso il rifugio devastato dalla strage (inutile quindi sfuggire al potere!); la separazione dei tre mondi della carovana (certi criteri che soggiacciono alla mentalità del potere non possono che portare alla divisione tra popoli); la diatriba finale nel gruppo di Mel, che assume il massimo peso strutturale, ancora una volta affidato soprattutto ai contenuti del parlato.
In questa diatriba – analogamente quanto detto per la ribellione di Rupo – più che la risposta di Mel al capellone (che pur conclude il film e quindi dovrebbe imporsi su tutto), domina per forza emotiva e non propriamente strutturale, la filippica del capellone.
Vediamo ancora una volta, rapido, Rupo col suo librone e ancora una volta vediamo, ma troppo poco strutturato per essere significativo, il sipario stellato dell’inizio.
Con questa terza parte, la tematica del film riceve – sotto il profilo strutturale – qualche scossone, ma in qualche modo si lascia intravedere: «quell’umanità, guidata ecc., incontra il Dio venuto in terra, ma a causa delle implicanze “politiche” dei suoi capi (leggi pure “tradimento”), di fatto se ne deve allontanare. Chi osasse l’anticonformismo (l’individuo che torna al rifugio) avrebbe la prova che non c’è niente da fare. Che se poi qualcuno alzasse un dito (il capellone), si sentirebbe ricacciare in gola l’accusa, accusato a sua volta d’essere in qualche modo complice o, quanto meno ignavo». Per dire il tutto con parole dello stesso regista, che sembrano proprio la formulazione di un’«idea centrale»: «L’istituzione è la morte di qualsiasi sentimento di religiosità e di fede» (v. intervista a cura di Cesare Biarese, Roma, 13 marzo 1983).
Tematica grossa. Senonchè, in concreto, alla resa dei dati del film, essa rimane piuttosto indefinita e senza spessore, a causa di sensibili squilibri strutturali, anche solo narrativi. Si nota subito, p.e., che protagonista delle due prime parti è «l’umanità (capi e popolo) che cerca Dio venuto in terra»; nella terza parte, invece, protagonisti diventano «i capi travianti» (vogliono dire l’«istituzione»? ma di che cosa?), che spuntano fuori in tre nella discussione notturna di Betlemme, quando invece solo Mel era stato caratterizzato come tale (infatti è lui ad essere contestato all’inizio e alla fine del film, cioè nei due pilastri che ne sosterrebbero tutto l’arco, se non ci fossero gli squilibri di cui sto dicendo). Tali «capi», poi, dovrebbero logicamente essere contrapposti a «popolo»; ma di quest’ultimo, il film pare dimenticarsi: il «popolo» né si ribella (la ribellione è di due individui che il film non si preoccupa di emblematizzare a livello di «popolo»; anzi in qualche modo «individualizza» maggiormente: il ragazzo-serviente mediante il librone [= chi s’affida alle scritture], il giovane mediante diciamo la cultura), né fa alcunché altro che giustifichi o almeno spieghi tematicamente l’effetto dell’azione dei capi («è la morte»). Che se la ribellione fosse (ma non lo è) emblematica a livello di «popolo», l’idea potrebbe essere: «l’istituzione sarebbe [non: è] morte, se non ci fosse la ribellione del popolo»; il che è un po’ diverso, da quello che si capisce Olmi voleva dire.
Si aggiunga qualche altra incongruenza strutturale: il livello di universalizzazione delle due parti decade nella terza, perché Erode e nascita di Betlemme sono dati storici e quindi «individuali». D’altra parte, è evidente l’importanza di quell’episodio nell’economia del film e non solo sotto il profilo narrativo. Quindi, come minimo, si deve sottintendere la Chiesa di Gesù e non l’istituzione in senso universale e generico.
Ancora: il Bimbo di Betlemme (fatto storico) ha oggi una Chiesa, ch’è «successiva» di 2000 anni al fatto: il Mel contro cui divampa la ribellione rappresenta questa «capi travianti») oppure un’altra o addirittura – come dice, a parole, Olmi – l’istituzione in genere? Se deve rappresentare la prima (e dalla struttura non dovrebbe essere diversamente), perché egli se ne va seppellendone il ricordo, quindi praticamente distaccandosene e quindi perdendone la rappresentanza (ma egli continua a essere, nel film, il sacerdote di prima?). Se un’altra, quale? Se l’istituzione generica, cosa c’entra Cristo? E ancora: se l’«istituzione è la morte», come mai tutta quell’«umanità» arriva al Dio venuto proprio grazie ad essa? Se poi il «popolo» è tanto bestia da non accorgersi d’essere «tradito», che significato hanno il fuggitivo e i due ribelli? E ciò senza dire che il «popolo» di Olmi non corrisponde affatto alla realtà storica (e la sua è un’affermazione di tipo storico) del popolo di Dio prima e dopo Cristo, nemmeno ai nostri giorni.
Insomma, che cosa ha voluto dire l’autore? Purtroppo, una vera e propria idea centrale non c’è. C’è invece solo un ambito tematico, una sorta di pout-pourri, i cui vari spunti e idee parziali (press’a poco quelle che ho indicato più o meno esplicitamente nell’analisi delle tre parti) però non riescono a coagulare tra loro per debolezza strutturale, causata molto probabilmente da una insufficiente maturazione di pensiero.
Eppure, è evidente l’intenzione di Olmi di sparare a zero sull’istituzione-chiesa; intenzione che si attua quasi esclusivamente attraverso le due sparate verbali già ricordate. Queste possono provocare qualche consenso emotivo, ma – come accennato più sopra – sono concettualmente gratuite, perché carenti di basi culturali e storiche. A livello di «lettura dei fondi mentali», invece, vi si può scorgere l’ombra… dell’enfant gaté, che, non peccando d’eccessiva modestia, forse è troppo convinto abbia consistenza oggettiva ciò che egli sente soggettivamente.
Sotto il profilo cinematografico, il film ha tutti i pregi e i limiti di Olmi: un gran senso della narrazione cinematografica, gusto e intuizioni notevolissimi e quasi sempre personali (questa volta però mi pare ci siano «reminiscenze» non sempre ripersonalizzate a fondo) e d’ottima levatura. Egli sa scegliere e dirigere magnificamente gli attori, soprattutto quelli presi dalla vita; così come sa scegliere e guidare le musiche e gli spazi sonori; sa fissare in un dettaglio un sentimento o tutta una situazione. Egli sa anche rivestire molto bene (cinematograficamente) «storie» che abbiano già, come storia, una loro consistenza. È un miniaturista di buon respiro o, se vogliamo, un bozzettista in senso buono; ma non è fatto per l’affresco: ha l’istinto delle immagini, non delle grosse strutture (non si può non ricordare il tonfo di E VENNE UN UOMO, scivolato – benché ne fosse stato avvertito – sulla figura del «mediatore», ch’era ottima come invenzione, ma che richiedeva d’essere realizzata cinematograficamente con ben altra mano, già a livello di soggetto e di sceneggiatura). Insomma, un film come questo non poteva essere fatto dall’autore del L’ALBERO DEGLI ZOCCOLI, in cui la concezione strutturale era praticamente sostituita dalla coerenza lineare della storia (rivestita appunto magnificamente di immagini, così come Olmi sa fare) e la tematica non andava molto al di là della visione d’un certo mondo.
Accanto a ciò, non si può non osservare che la lentezza dei ritmi non è sempre solo stile ed esigenza espressiva: troppo spesso, soprattutto nella lunghissima marcia, si ha l’impressione che Olmi si stia ascoltando compiaciuto: non ha il coraggio di tagliare, di stringere, proprio perché, sentendo molto la bella immagine e poco la struttura, gli è difficile scegliere.
Da notare ancora l’uso del colore, che Olmi stesso ha definito «in bianco e colore» (anziché «bianco e nero»), affermando subito però trattarsi di «scelta sentimentale, non simbolica» (il che però accentua in qualche modo, anziché attenuare, gli squilibri strutturali).
Sotto il profilo tematico, olmi s’è illuso di poter trattare una tematica per la quale non bastano le istituzioni (per quanto belle), tanto meno i sentimenti o addirittura i risentimenti.
Per quanto poi concerne la versione «nuova» della storia dei Magi, niente contro l’idea di servirsi fantasticamente anche di una storia evangelica per farne una sorta di vangelo apocrifo; non sarebbe il primo che l’ha fatto, anche egregiamente. Ma una volta detto che eliminare il «sogno» evangelico non gli ha giovato (a mio avviso) in nessun senso, il discorso ricade in quello più direttamente tematico; vale a dire: che cosa l’autore ha voluto dire , o è riuscito a dire di fatto, con quel cambio della versione originale? Lo sappiamo bene. Gli è che non è riuscito a dirlo; e, sempre a mio avviso, egli ha solo perso l’occasione d’essere più solido strutturalmente e quindi anche nematicamente.
Sotto il profilo morale, è lecita per non dire lodevole l’intenzione di mettere a nudo deficienze e delitti anche quando sono dalla nostra parte, soprattutto quando interessano il campo della fede e della religione; ma è biasimevole il farlo confusamente rischiando perfino di offendere concettualmente e storicamente la verità, anziché sostenerla, e contribuendo alla mentalità – più antiecclesiastica che anticlericale – divenuta di moda particolarmente in questi ultimi vent’anni e oggi già in declino (come moda, non come mentalità).
Una parola sul «tonfo» commerciale. A sentire Oreste Del Buono («Europeo», 11 giugno 1983), il tonfo è cominciato a Cannes; altri invece hanno parlato allora di «Brilla la stella di Olmi» («Il Giorno», 12 maggio 1983) sulla Croisette e di trionfo («Il Giornale» e TG1; anche «Paese Sera», s.g., ne ha parlato bene). Sta poi a vedere com’è la verità. Certo al film non è mancata la risonanza dei mass media: Mamma RAI generalmente tratta bene i suoi pupilli!
Certo è anche, però, che almeno finora il successo di pubblico non c’è stato; anzi tutt’altro. Né un film del genere poteva aspettarselo, anche a prescindere dai limiti qui sopra riscontrati, dato che il pubblico odierno purtroppo cerca soprattutto l’evasione, magari confondendola talvolta con l’arte o la cultura.
Ma se prendiamo in considerazione l’osservazione di Cianfarani («qui manca il produttore», «L’Europeo» 11 giugno 1983) e il rapporto, dichiarato dallo stesso Olmi, di 1 a quasi 11 tra montato (8.000 m.) e girato (87.000 m.), che diventa 1 a 17,57 nell’edizione (già prolissa) cinematografica, sperando non sia vero che la RAI ha speso 3 miliardi per questo film, forse si può scorgere la ragione vera e profonda dell’insuccesso. (Nazareno Taddei sj)