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JUSAN-NIN NO SHIKAKU (13 Assassins)



Regia: Takashi Miike
Lettura del film di: Manfredi Mancuso
Edav N: - 2010
Titolo del film: JUSAN-NIN NO SHIKAKU (13 ASSASSINS)
Titolo originale: JUSAN-NIN NO SHIKAKU
Nazione: GIAPPONE
Anno: 2010
Presentato: 67. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia - 2010 - In Concorso

Nel Giappone feudale il crudele lord Naritsugu, fratello dello Shogun, semina terrore e morte fra gli esponenti dei vari clan. Considerando oltraggiosa la condotta di Naritsugu, il primo ministro dello Shogun, Sir Doi (al quale Naritsugu ha ucciso, in un impeto di violenza ingiustificata, figlio e nuora) prende segretamente contatto con un samurai, il nobile Shinzaemon Shimada, affidandogli il compito di uccidere il malvagio lord.

Oltraggiato dalle nefandezze di Naritsugu, Shimada accetta di portare a termine la missione e inizia a raccogliere intorno a sé un gruppetto di valorosi combattenti, pronti a morire per liberare il paese dal crudele e capriccioso tiranno. Fra questi valorosi (dodici uomini), Shimada accetta di includere anche il nipote Shinrokuro, scapestrato giocatore d’azzardo che perde le sue giornate nelle bische clandestine. Il gruppo così composto progetta di assassinare Naritsugu, tendendogli un’imboscata durante il viaggio che il crudele lord compie annualmente diretto nella città di Edo (l’antica Tokyo). Dopo aver speso qualche tempo a prepararsi, i dodici uomini si mettono così in viaggio per la loro missione. A proteggere il loro nemico sta, dall’altra parte, un coraggioso Samurai, Hanbei, antico compagno d’arme di Shimada, legato da sentimenti di rivalità nei suoi confronti.

Durante il cammino i dodici uomini, sperdutisi nella foresta includono nel gruppo anche un tredicesimo uomo, Koyata, un cacciatore che dapprima si offre soltanto di far loro da guida in cambio di cibo, ma che in seguito fa propri gli ideali che spingono gli altri uomini alla missione, unendosi a loro.

I tredici si rifugiano dunque in una città, preparando una serie di trappole mortali e aspettando pazientemente l’arrivo di Naritsugu e della sua scorta. Un’amara sorpresa li coglie però alla sprovvista: gli uomini di scorta di questi non sono 70, come in precedenza creduto, bensì 200, numero che induce i tredici assassini guidati da Shimada a comprendere che la loro missione avrà esiti sventurati. Tutti gli uomini comunque giurano fedeltà al loro capo, mettendo le loro vite nelle sue mani. E viene così finalmente il momento della battaglia, che si svolge cruenta all’interno della città e che vedrà i tredici uomini battersi con audacia e valore, decimando le truppe avversarie. Uno alla volta, tuttavia, i tredici samurai periscono per mano del nemico: a rimanere in piedi alla fine saranno solo, da una parte, Shimada e lo scapestrato nipote Shinrokuro e, dall’altra Hanbei e Naritsugu (e Koyata, il quale, pur apparentemente ucciso da Naritsugu in battaglia, alla fine di essa torna in piedi sorridente come se nulla fosse).

Affrontatosi sul campo di battaglia a viso aperto Hanbei e Shimada ingaggiano un duello che culmina con la morte del primo, mentre il valoroso Shimada, pur malconcio, affronta finalmente Naritsugu, lasciandosi da lui volontariamente ferire a morte prima di ucciderlo.

Moribondo, Shimada consiglia al nipote di non intraprendere la dura e sacrificante “carriera” di samurai, ma Shinrokuro, aggirandosi sul campo di battaglia sul quale ha combattuto valorosamente e osservando i compagni morti, riflette meditabondo, sembrando propendere proprio per una vita di avventure legate all’uso della spada.

La semplice e, tutto sommato, gradevole vicenda viene resa cinematograficamente con un semplice sviluppo a livello di racconto. La scena d’inizio, che mostra un samurai compiere il cruento rito dell’harakiri (il cerimonioso suicidio rituale degli antichi samurai), dà avvio violento al film, assumendo emblematicamente una doppia valenza: da un lato, rende in pieno il tono dell’opera, mostrandoci cosa sarà lecito aspettarci dal film e dall’altro, fa assumere al personaggio di Naritsugu il ruolo di motore primo (e occulto) dell’azione (un samurai infatti, all’inizio della narrazione, si uccide proprio perché non regge l’onta di avere come compagno di clan il perfido Naritsugu). Oltre al personaggio di Naritsugu è necessario però porre l’attenzione su altre tre figure importanti del film, ovvero Shimada, Koyata e Shinrokuro. Il primo, il nobile e valoroso samurai Shimada, che l’autore mostra all’inizio immerso nella pacifica attività della pesca (quasi “in pensione” e lontano dalla violenza delle armi), tentenna di fronte alla proposta di Sir Doi di uccidere il fratello dello Shogun; a convincerlo sono però i racconti delle nefandezze compiute da quest’ultimo e, soprattutto, la vista di una giovane e innocente donna orrendamente mutilata da Naritsugu. Shimada dunque accetta di assumere il suo ruolo nella missione, agendo quindi, fino a un certo punto, da protagonista (fino a un certo punto, perché il suo personaggio non arriva però del tutto a svolgerne ed esaurirne fino in fondo la funzione). Proprio Shimada dopotutto raggruppa intorno a sé gli assassini designati per l’imboscata ed è ancora lui a lasciarsi colpire a morte (forse perché consapevole che «il tempo dei samurai è ormai finito», come spiega a un dato punto il crudele Naritsugu a un suo funzionario?), prima di uccidere il tirannico lord. Altra figura da prendere in esame è il personaggio di Koyata. Interessante nella misura in cui a lui il regista sembra affidare, oltre una funzione comica di alleggerimento della situazione drammatica (a un livello puramente di vicenda), anche le sue simpatie facendolo letteralmente “resuscitare” dai morti, dopo avercelo mostrato inequivocabilmente colpito a morte dalla violenza di Naritsugu, e facendogli quasi concludere il film. Chi però conclude effettivamente il film è Shinrokuro, il nipote scapestrato di Shimada. Mostrato all’inizio come uno scialacquatore, fortunato, ma senza dignità, il nipote accetta, dopo un colloquio con lo zio, di lasciare la vita di gozzoviglie e impegnarsi per la prima volta seriamente nella missione che potrebbe mettere a repentaglio la sua vita. Avendocelo mostrato combattere valorosamente durante la battaglia, l’autore lo presenta alla fine, mentre, dopo aver ascoltato i consigli dello zio moribondo, fa dapprima per gettar via la spada, ripensandoci subito dopo (e, anzi, la spada sembra rimanergli in qualche modo attaccata alla mano, dando quasi l’impressione non di una scelta consapevole, ma di una “necessità” di vita). Il suo destino sembrerebbe dunque quello di continuare il cammino dello zio, mentre i bagordi della gioventù sono ormai dimenticati. La maturazione del personaggio, evidente, è tuttavia non ulteriormente approfondita dall’autore che non riesce a giustificarla adeguatamente sul piano del racconto, mentre addirittura (sul piano della mera vicenda) sembrerebbe contraddirla: «mi darò alla bella vita, farò il brigante, andrò in America e amerò un sacco di donne», confida l’uomo a Koyata, alla fine della sua avventura. Che siano le visioni dei compagni d’arme morti per il campo a scatenare in Shinrokuro il profondo cambiamento è del resto spiegazione forzata e poco attendibile. Il film, nel complesso, non dispiace, configurandosi come una piacevole opera di vicenda che, contrariamente ad altre pellicole del regista, non si compiace nel mostrare gli aspetti cruenti della violenza. Un certo grado di spettacolarizzazione è però ben presente (e dopotutto una buona metà del film è costituita dalle pur gradevoli coreografie di lotta a suon di spada dei samurai) e la mancanza di una significazione precisa (e delle incongruenze già segnalate) inficiano in parte il valore dell’opera, che, meglio costruita, avrebbe anche potuto aspirare ad altre classificazioni.

(Manfredi Mancuso)

 


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