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A Gallio le opere prime del cinema italiano


di MICHELE SERRA

Da oltre una dozzina d’anni, a Gallio si svolge il Festival del cinema italiano – opere prime.

Gallio è in provincia di Vicenza, sull’altopiano di Asiago, 1000 metri di altezza, scenario montano perfetto per vacanze e per una piacevole distensione fisica e culturale. Quindi ben vi si colloca da 14 anni un festival cinematografico nato in sordina, accanto ad altri eventi culturali che ravvivano la vita del paese da tanto tempo, quasi in concorrenza con le attività culturali che si svolgono da sempre ad Asiago, 4 km di distanza.

Il festival è ospite nell’unica sala cinematografica di Gallio, il Cineghel, sala che potrebbe essere invidiata da quelle di città importanti grazie alla cura della proiezione e del suono, direi per l’amore con cui è seguita da un piccolo gruppo di gestori per conto del Comune e della parrocchia.

L’ha inventato un appassionato di cinema, non poteva essere diversamente, Sergio Sambugaro. Chissà se fin dall’inizio credeva o sognava che il festival sarebbe diventato un grande evento. Ora certo lo è e non disdegnano di essere promotori dell’idea ancor oggi Ermanno Olmi, Mario Brenta e, fino a pochi mesi fa, anche lo scrittore Mario Rigoni Stern.

A livello di esperti giurati, lo seguono critici e professionisti del mondo del cinema sotto la presidenza del bravissimo regista Emidio Greco, che per almeno cinque volte ha portato le sue opere a Cannes e a Venezia.

Mentre un tempo non molti ci credevano a questa operazione culturale di Sambugaro, che poteva essere scambiata per una produzione finalizzata al turismo, ora il numeroso pubblico che lo frequenta, proveniente appositamente anche da città lontane quali Milano, Padova e Vicenza, dimostra il contrario e lo fa con una sua partecipazione critica assai vivace.

Dimostra la vitalità del festival anche il successo di critica e di pubblico, che in seguito hanno avuto molti film, passati qui come opere prime; nomino solamente IL VENTO FA IL SUO GIRO di Giorgio Diritti, TERRE ROSSE di Denis Dellai, PRIVATE di Costanzo, SAIMIR prodotto dalla casa indipendente del produttore Gianluca Arcopinto, IL SILENZIO DELL’ALLODOLA di Davide Ballerini, LA DESTINAZIONE di Piero Sanna, IL DERVISCIO di Alberto Rondalli, L’ULTIMA LEZIONE di Fabio Rosi.

Il festival di Gallio è decisamente affermato; sottovalutarlo perché prima ci sono quelli di Venezia e di Roma, sarebbe un rischio. In fondo questi due festival hanno lo spettacolo da tenere alto, hanno interessi economici, perché sono mega festival mercato dove si offre alla distribuzione cinema di tutto il mondo, che si distinguono soprattutto per il loro richiamo spettacolare, per aspetti e immagini di erotismo estremo o per il nome degli interpreti.

Gallio ha finalità diverse: si apre ai giovani, a chi al cinema come regista si avvicina ora, dopo un intenso lavoro creativo, anche se non sempre giunge a una ancor matura realizzazione formale e creativa. Certo, i giovani possono avere grandi difetti, possono peccare di presunzione, misurandosi con forme espressive sperimentali, ma in realtà non sorrette da una adeguata preparazione tecnica e linguistica. Possono però manifestare la loro creatività e pure una serietà espressiva pur denunciando, la loro opera, la carenza di mezzi; il progetto-Gallio ha elaborato un suo slogan: non bastano i soldi, contano le idee. Bellissimo, ma nel cinema chi non ha quanto gli serve per riprendere immagini e suoni, per elaborare poi in laboratori attrezzati il girato con la cinepresa o con la telecamera, dovrà per forza fare i conti con limiti imposti dalla realtà sempre in lotta con gli ideali.

L’edizione 2010

Forse il numeroso e entusiasta pubblico che ha partecipato alle proiezioni, avrà apprezzato la scelta delle opere da premiare. Non menziono qui tutti i premi assegnati, ma non dubito che il premio per la miglior regia attribuito a Susanna Nichiarelli per IL COSMONAUTA (v. Edav n. 373) e quello assegnato a Tizza Covi e Rainer Frimmel per NON È ANCORA DOMANI (LA PIVELLINA) per il migliore film, siano stati apprezzati anche dagli spettatori.

Ne IL COSMONAUTA, l’autrice ha saputo delineare uno spaccato verosimile dei giovani degli anni ’70, coinvolti negli ideali politici e nelle istanze di autonomia in contrasto col mondo degli adulti.

È il gap generazionale di sempre, reso ancor piú teso in questi anni pesanti da una ricerca anche politica dei giovani di una propria autonomia decisionale, affettiva e sessuale e dalle rivendicazioni di riconoscimento di un ruolo attivo e autonomo della donna.

Di tutto ciò, una combattiva e ancor confusa adolescente fa le spese (la giovane attrice Miriana Raschillà, capace di un’espressività assai profonda), salvo, alla fine, riconciliarsi con se stessa e col mondo degli adulti, quelli dell’autorità indiscussa.

La regista ha condotto la storia con una linearità che permette una chiara comprensione del racconto e sa caricare di impeto passionale e coinvolgente i personaggi. Spiccano, oltre alla Raschillà, Claudia Pandolfi, che, dopo la notorietà televisiva, si apre qui a ruoli davvero impegnati e umani, quasi una rinascita artistica. (Michele Serra)

IL COSMONAUTA è un film che si impone, perché dà spessore a contenuti altrove trattati con leggerezza e con minore capacità di indagine psicologica.

 

NON È ANCORA DOMANI (LA PIVELLINA), oltre che alla giuria, il film è piaciuto anche al numeroso pubblico, che l’ha votato come miglior film.

L’opera dei due registi, alla loro prima prova con il cinema, si rivela un raro, piccolo film, ma stupefacentemente grande nella conduzione e nell’organizzazione del racconto e nei contenuti, che emanano semplicità e soprattutto sincerità.

S’appoggia su una storia, che non è neppure tale, tanto è piccola e semplice: una signora, che lavora nel minuscolo circo di famiglia col marito, esce dalla roulotte per cercare il cane e trova invece una bambina con in tasca un biglietto della madre sconosciuta: «tenetela voi fin quando potrò fare ritorno».

Da questo primo giorno fino all’ultimo, è una normale ma preziosa descrizione dell’amore e dell’attenzione che vengono rivolti alla trovatella e l’interpretazione di tutti gli improvvisati attori è assolutamente persuasiva.

Nulla di piú, salvo le notazioni sul mondo dei circensi e sul paesaggio di estreme e fangose periferie popolari, una periferia romana, là dove, sempre, essi piantano le loro tende randagie.

I registi hanno saputo ricreare un mondo per nulla artefatto e del tutto convincente. La conduzione e l’organizzazione della storia pare uscire da un laboratorio di formazione espressiva e creativa anche attraverso l’indagine psicologica su personaggi e ambienti.

Gli altri premi sono andati a L’UOMO FIAMMIFERO di Marco Chiarini (premio per la migliore sceneggiatura). Un film disegnato e interpretato, ricco di creatività, piacevole, girato con entusiasmo e gusto per il fiabesco anche lí dove attori veri entravano in scena: un padre ruvido, ma buono, una bambina in vacanza accanto alla loro casa nella campagna e alcuni altri piú laterali.

Un buon film che soprattutto i ragazzi sapranno seguire con gioia e amare.

La migliore attrice, della quale è superfluo dilungarsi sui motivi della sua bravura tanto è nota al pubblico televisivo, è stata Claudia Pandolfi.

L’attore prescelto per il premio della giuria fu Edoardo Leo nel film, di cui è pure regista, 18 ANNI DOPO. Un attore che ha saputo emanare simpatia e fiducia, interprete di un personaggio continuamente in preda a insicurezze, a sensi di colpa e di inferiorità, in cui risaltano le sue qualità artistiche e un umorismo fine e sempre piacevole.

Decisamente Leo ha saputo realizzare un buon film, grazie alle sue qualità registiche che a quelle attoriali. Merita davvero di entrare nei circuiti di distribuzione normale e non solo di nicchia.

Mancano tra i premiati film che anche la giuria comunque ha apprezzato: DIECI INVERNI di Valerio Mieli e LA DOPPIA ORA di Giuseppe Capotondi (v. Edav n. 373), per esempio, sono tra questi.

Il primo rappresenta una quasi incredibilmente crescita affettiva di due giovani e il riconoscimento del sentimento totalizzante dell’amore; a loro, evidentemente, era sufficiente la simpatia, la confidenza e l’amicizia che li ha tenuti uniti negli anni di università e dei primi impegni lavorativi. Solamente dopo ben dieci anni, in particolare dieci inverni, pur appesantiti da tante esperienze problematiche, arrivano a capire quale doveva essere il loro destino nella scoperta dell’amore.

Il secondo, LA DOPPIA ORA, è un perfetto thriller-horror, una storia che si snoda e si fa chiara gradualmente, uscendo dalle tante false sicurezze e ambiguità, con cui il regista ha cosparso abilmente il percorso narrativo.

Altri film, al contrario, non hanno convinto. Dispiace in particolare per LA TERRA NEL SANGUE, del giovane friulano Giovanni Ziberna, che col suo gruppo di collaboratori ha portato sullo schermo le dolcezze della natura della sua terra, quella terra che ogni emigrante porta nel sangue e nel cuore auspicando sempre di riportare le proprie radici su di essa.

Il fatto è che, dopo un promettente incipit, in cui alcuni personaggi pensavano di abbandonare la propria casa e la loro terra di confine per cercare la propria realizzazione altrove, nelle città lontane, il tema viene del tutto abbandonato per lasciare spazio alla preziosa fotografia che ritrae soprattutto i particolari della natura della regione, di quella lungo il fiume Tagliamento, di quella delle colline del Collio, ricche di vini pregiati e decantati trionfalmente dai produttori e di quella tragica sulla quale si è insinuata la prima guerra mondiale, la terra e la natura aspre del Carso.

E delle storie inizialmente promesse, quindi, non si è piú parlato, fermandosi l’attenzione del regista sulla bellezza dei paesaggi e soprattutto dei particolari.

Non ha saputo egli, quindi, creare un giusto equilibrio tra le storie nascenti e poi con nostro stupore sparite e la documentazione naturalistica, che si prolunga sull’intero film. Ecco, ad esso è mancato l’equilibrio e si è perso nella passione fotografica di Ziberna.

Un altro film ha mosso a valutazioni diverse il pubblico, LA BOCCA DEL LUPO di Pietro Marcello (v. Edav n. 376), è ancora in realtà un documentario, al quale, a dire la verità, si è tolto molto delle sue naturali caratteristiche linguistiche, che lo determinano come tale: l’immagine sempre virata e fredda, una fotografia quindi che cerca di sottolineare la tristezza e la durezza della storia raccontata con suadente voce fuori campo, una storia di sofferenza per i tanti anni trascorsi in carcere di un personaggio. Costui sullo schermo si racconta assieme alla sua compagna transessuale, che rappresenta l’unico rapporto umano che gli abbia dato sicurezza e abbia calmato i soliti lampi di violenza e di ribellione.

Un documentario, quindi, pur assai personalizzato e anche ricco di un certo fascino letterario, realizzato con ospiti di una comunità di «senza casa» gestita a Genova dai Gesuiti. Ma non un film, ma non un intreccio di storie e di passioni, non un’interpretazione se non la foto della situazione di un uomo finalmente libero e in pace con sé.

Il film 7/8 è un film sul jazz, musica proibita nel tempo del fascismo, per cui coloro che la scrivono e la suonano sono prima tenuti d’occhio con sospetto e poi perseguitati col carcere e addirittura con la pena capitale.

Cosí è successo al quintetto, in cui, per gli appassionati di jazz, domina la tromba di Paolo Fresu, uno dei maggiori esecutori europei se non mondiali.

Il fatto è che la narrazione di questa triste storia ambientata nel 1940 è, tutto sommato, piuttosto statica, non ravvivata da una buona recitazione, schematica.

Incide in ciò, sicuramente, la ancora scarsa esperienza registica dell’autore Stefano Landini e la mancanza di mezzi economici necessari per conferirle piú spessore. In compenso gli amanti della musica jazz ne escono soddisfatti dalle interpretazioni musicali e in particolare dalla presenza di Paolo Fresu: Landini pare accarezzare con la cinepresa gli strumenti musicali, tanto che su di essi scorre dolcemente con primi piani e particolari, che dimostrano tutto l’amore per essi.

Altri film presenti al festival non emergono e colpiscono particolarmente; vorrei dire quasi che essi manifestano la presunzione di dire cose importanti, ma senza la profondità contenutistica dell’argomento trattato. Magari c’è il desiderio di un’espressività arricchita a volte in eccesso di simbologie, di surrealismo, di elaborazioni delle immagini anche in versione sperimentale; invece la comunicazione arriva a fatica allo spettatore, che si trova sbalestrato in elementi narrativi, di cui non afferra il senso.

GOOD MORNING AMAN di Claudio Noce, che, a dire la verità, riceve un’impronta notevolmente positiva dall’interpretazione di un bravissimo Valerio Mastandrea, è uno di queste opere “«incomplete»; cosí come è UNA NOTTE BLU COBALTO del catanese Daniele Gangemi, che si lancia in un racconto intriso di simboli, di commistione tra realtà e sogno, di intellettualismi linguistici non giunti a un positivo compimento.

Ancora: LE TUE PAROLE di Stefano Terraglia viene a raccontarci un momento, inventato, ma non per questo mai successo nell’epoca delle Brigate Rosse. È il rapimento del direttore di una fabbrica, colpevole, secondo i brigatisti, del licenziamento di alcuni operai. La storia ha risvolti di curiosità e di sottolineature, che coinvolgono affettivamente la vittima e la sua guardiana; i discorsi tra i due, quando sono soli, si fanno intensi a tal punto da mettere in evidenza i lati piú oscuri, contraddittori e penosi della giovane e anche dell’ingegnere legato a robuste catene, che pare scoprire i difetti di una vita condotta nella efficienza e nella legalità, ma priva di anima e di amore.

Tuttavia il film rimane una prova piuttosto piatta tecnicamente e espressivamente, salvo la valida interpretazione della giovane brigatista Silvia (attrice Carolina Gamini).

Infine: un film direi d’autore, anche se si tratta di un’opera prima. Ma molto lunga è la dimestichezza di Stefania Sandrelli col cinema, che assieme a Giovanni Soldati porta in scena una donna poetessa del 1300 Cristina da Pizzano. Il film si intitola CHRISTINE CRISTINA ed è interpretato dalla figlia di Stefania, Amanda Sandrelli e poi da Alessio Boni, Alessandro Haber e altri bravi attori.

Stefania ha voluto presentare al pubblico la storia di una poetessa che assunse notevole importanza letteraria in Francia e in Italia. È certo una interessante e auspicabile finalità dare vita a nomi, che in realtà vivono, ma sommersi dall’oblio. Il fatto è che la storia cosí come è raccontata ha i crismi di una produzione per la televisione, popolareggiante, fatta con i classici elementi – paesaggi, personaggi, ambienti - che incontriamo sempre in simili ricostruzioni storiche e che ormai sono percepite come espressione stantia e ormai stanca.

Comunque il film non credo corra particolari rischi nella fase di distribuzione; quanto meno sarà in televisione come tante altre storie romanzate.

 


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