Wanuri Kahiu : Premio Città di Venezia 2010
di MICHELE SERRA
Pare impossibile: un Premio cosí «ignoto» in Italia, Venezia a parte, ma molto conosciuto e ambíto in Africa e nei Paesi in via di sviluppo, è giunto alla sua 18° edizione.
Pensato dal sottoscritto a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso e del cinema africano, è un Premio vissuto all’inizio tra Venezia e Milano (festival del cinema dell’Africa, ora anche dell’Asia e dell’America latina); da tempo gode dell’attenzione del Comune di Venezia, che lo sostiene con un contributo economico e dall’associazione onlus «Una Strada».
Il Premio si chiama «Città di Venezia» ed ha come scopo quello di valorizzare un cineasta appartenente alle cinematografie dell’Africa o di altri continenti che abitualmente sono esclusi dai circuiti commerciali del mondo occidentale; un cineasta che dà il suo contributo affinché il cinema sia una degna rappresentazione della realtà e della vita, di cui è espressione.
Cosa si dà al prescelto? Il viaggio dal suo Paese e l’ospitalità a Venezia in occasione della Mostra internazionale d’arte cinematografica.
Non basta: il Premio prevede quanto detto e già non è poco. Però il cineasta non viene abbandonato a vivere la Mostra in maniera disorientata e passiva: viene seguito, presentato a colleghi occidentali ed ha tanti altri vantaggi che gli fanno trascorrere un periodo di intensa partecipazione ad ogni manifestazione. Poiché normalmente si tratta di giovani, essi ritornano al proprio Paese con una ricchezza di esperienze che li trasforma, soprattutto quando, in una giornata speciale offerta dalla direzione della Mostra, viene loro concesso di proiettare il loro film piú recente.
Si apre per loro, quindi, uno spazio esaltante, perché il film, preceduto e seguito dall’incontro con la stampa e col pubblico, avviene addirittura al Palazzo del Cinema.
Stupiti, si chiedono, e non solo loro: «Noi, cosí sconosciuti, che abitiamo in Paesi tanto diversi e poveri, un invito alla leggendaria Mostra del Cinema? E potremo metterci in mostra, parlare del cinema del nostro continente, conoscere altri cineasti, vedere tanti film!»
Ebbene: alla 67° Mostra veneziana il premio è andato ad una giovane donna del Kenya, Wanuri Kahiu. Ci pare giusto cosí, quando veniamo a sapere che almeno l’80% dei registi nell’Africa dell’Est è donna! Ce l’ha detto Wanuri ed è stata appoggiata, in una breve relazione sul cinema di lingua anglofona del suo continente, dal direttore artistico del festival del cinema africano di Verona, Fabrizio Colombo.
Ci ha portato gli ultimi due film da lei realizzati in questi anni: il primo, PUMZI, immagina una terra ormai priva di acqua e desolatamente morta. In un laboratorio nel deserto, si cerca di far vivere la memoria del tempo passato tramite un museo virtuale e di creare acqua nel tentativo di vincere la lotta contro una natura ormai corrotta. Film di carattere fantascientifico ecologico, una novità per la cinematografia africana, angosciante e affascinante nello stesso tempo, ricco di una simbologia linguistica carica di affettività e di speranza, perché sulla terra si vuole che la vita continui dopo 35 anni dalla fine della terza guerra mondiale.
Il secondo suo film si intitola FROM A WHISPER e si ispira ad un fatto realmente accaduto a Nairobi nel 1998: l’attentato terroristico, che distrusse l’ambasciata degli Stati Uniti e che causò 250 morti e piú di 5000 feriti. Il film vuol essere una commemorazione delle vittime nel decimo anniversario della strage. Attraverso la storia di un sopravvissuto, la regista costruisce un racconto agile, mosso, quasi «all’americana», un film d’azione e nello stesso tempo ricco di spunti psicologici di alcuni personaggi centrali.
Terminate le proiezioni, le osservazioni e le domande del pubblico, la giovane Wanuri fu assediata dai giornalisti per le interviste. Quale gioia certo sentí nel cuore, lei che in Kenya, dove qualsiasi manifestazione culturale è ignorata e si dà spazio solamente agli spettacoli tradizionali folcloristici, fatica a vivere, a pagare l’affitto ed è costretta a dedicarsi anche ad altri lavori! «Solo all’estero mi sento una regista, in patria devo sgobbare per vivere». Teniamola d’occhio questa giovane: se riuscirà a imporsi non tanto in Africa, ma negli USA o in Inghilterra, dove si crede al cinema e dove ha una pur limita popolarità, Wanuri farà parlare di sé a livello internazionale. Crediamo quindi che il Premio veneziano le sia stato di vero aiuto.
L’iniziativa infine dà spazio anche ad altri registi: quest’anno sono stati proiettati tre cortometraggi di giovani afghani e di un’artista dell’Iran.
Difficoltà interculturali anche a livello di linguaggio.
Oltre ai film della vincitrice del premio Città di Venezia Wanuri Kahiu del Kenya, si trova sempre dello spazio da dedicare a registi che si cimentano col cinema e di essi proiettiamo le prove, a volte ingenue, altre efficaci, altre addirittura complesse.
La complessità anche a livello di interpretazione a volte deriva dal fatto che sono espressione di culture lontane dalle nostre esperienze.
Presento un caso, il film GRIDAMI (Mela, melograno blu… ) di Razi Mohebi, afgano, rifugiato politico in Italia da circa tre anni.
Il film narra la storia di una copia di immigrati in crisi: tra loro si è insinuato un altro uomo.
Allora si separano e ora di ognuno seguiamo la sua propria storia personale.
In realtà la «storia» è espressa d’ora in poi con «segni» legati alla cultura della loro terra (e di quella dell’autore), l’Afghanistan. Concetti e simboli espressi a livello di fotografia e di colori d’ora in avanti si susseguono ed è inutile seguire con sensibilità «occidentale» la trama della storia in maniera realistica. Essa si fa «racconto», un narrare per noi astratto e aperto all’analisi delle significazioni simboliche espresse con i colori, la danza, gli oggetti e la danza, elemento essenziale della corrente mistica del sufismo, sottolineata dal canto della poesia di Rumi.
Il cinema occidentale si legge come un romanzo, mentre il nostro si legge come una poesia.
Indubbiamente GRIDAMI contiene elementi di notevole valore culturale, in quanto fortemente legato, sia a livello espressivo che culturale, a stilemi per noi occidentali piuttosto misteriosi, mentre il contenuto incuriosisce.
La distanza, pero’, tra la nostra filosofia di vita e quella dell’autore, non si colma tanto facilmente dopo una prima visione della sua opera. Egli ha trasportato in Italia una tematica che puo’ appartenere ad entrambe le culture, ma l’ha trattata con una sensibilità che non ci appartiene, ma che certamente va indagata e discussa.
La composizione del racconto è assai lenta, quasi privilegia l’ímmagine statica o con assai poco movimento e con un parlato assolutamente essenziale; tutto pare rimanere astratto, i fotogrammi si susseguono con ritmo fotografico e il «cinema» viene ridotto al minimo. Oltrettutto il film è ricco di simboli e la ripresa li esalta con una fotografia assai curata e intensa, realizzata dall’ottimo Haidari Mohammad Kaden, dove i simboli si caricano di significati difficilmente interpretabili. Pare anche che, dando senso a riprese di danza dall’alto, in maniera verticale sui personaggi, l’allusione al sufismo e ai dervisci volanti possa essere giustificata.
Un altro film di questo autore afghano, IL REAME DEL NULLA, ha messoin crisi lo spettatore occidentale. Ciò non comporta un rifiuto dell’opera solo perchè essa fa parte di un altro mondo e utilizza un linguaggio dai ritmi lentissimi. Però il cinema, a mio parere, è un fatto comunicativo con valenze di informazione, di descrizione, di impegno etico e sociale. Il cinema, dicono soprattutto gli americani, deve saper raccontare storie, storie che avvincano, in cui ritroviamo noi stessi sotto tutti gli aspetti. Storie che portino all’identificazione con le vicende, con i luoghi, con i personaggi.
In fondo nel film di Razi c’è anche questo, ma la storia è simbolica, come lo sono i personaggi, le ambientazioni e l’intero contenuto.
Il film quindi rimane una sfida, ma sarà difficile che possa «piacere» a un grande pubblico. (Michele Serra)