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A proposito di LOURDES: la lettura strutturale del film alla prova dei fatti tra logica e opinioni


di LUIGI ZAFFAGNINI
Edav N: 377 - 2010

ESTREMI DI UN CASO O CASO DI ESTREMI?
È uscito l’11 febbraio il film LOURDES, che ha ricevuto il premio «Brian» alla Mostra del cinema di Venezia, da parte della Uaar (Unione Atei Agnostici Razionalisti) con una motivazione che riscontra nel film «l’approccio razionalista al tema del miracolo», «alcuni dubbi radicali in materia di fede», «l’oggettività dello sguardo» e «l’effetto di catturare l’interesse non solo dei credenti, ma anche di chi è già approdato a una visione disincantata e scettica». L’Uaar assegna ogni anno questo premio alla pellicola che, a suo giudizio, piú «evidenzia ed esalta i valori del laicismo»1. A questo riconoscimento si aggiunge, con un notevole peso, l’apprezzamento della Massoneria, che non si giustificherebbe se il film avesse un qualche connotato religioso cattolico. Ma, oltre a ciò, balzano agli occhi il prestigioso premio FIPRESCI (Fédération Internationale de la Presse Cinématographique), i molti riconoscimenti in altre rassegne di importanza europea e i quasi unanimi pareri favorevoli mietuti sulla stampa di ogni colore e tendenza.
Fin qui niente di strano, se non fosse che questo film della regista austriaca Jessica Hausner, atea dichiarata, è lo stesso film che ha ottenuto anche altri importanti riconoscimenti in campo cattolico e segnalazioni lusinghiere sulla stampa d’impronta confessionale. Gli sono stati, infatti, assegnati il premio La Navicella dell’Ente dello Spettacolo «[perché il film] s’interroga su destino e salvazione, mettendo in campo due prospettive religiose antitetiche: la speranza di chi ne è agito interiormente e la routine di chi la pratica per “professione”» e il premio Signis 2009 «per le problematiche umane che solleva … [e perché] la regista spinge il pubblico alle frontiere delle aspettative terrene, dove si intravede il significato della libertà umana e dell’intervento divino». Parole, dunque, decisamente impegnative sul piano del riconoscimento esplicito della presenza nel film di valori religiosi di capitale importanza: la speranza cristiana, il libero arbitrio, l’intervento divino.
A sua volta la Diocesi di Milano lo raccomanda caldamente al circuito delle parrocchie e la Commissione Nazionale Valutazione Film della CEI ritiene il film, sotto il profilo pastorale, «consigliabile, problematico e adatto per dibattiti» e, pertanto, «da utilizzare in programmazione ordinaria e in molte occasioni successive per avviare riflessioni sui temi ampi e profondi che affronta».

L’ARGOMENTO DEL FILM
Il film è stato girato a Lourdes e racconta quello che succede nei luoghi sacri e meno sacri della cittadina sui Pirenei. La storia è quella della giovane Christine che, durante un pellegrinaggio, una mattina al risveglio, si scopre apparentemente guarita da un miracolo. Alzatasi dalla sedia a rotelle su cui è stata a lungo confinata, cessa la sua dipendenza dagli altri, mentre la sua guarigione suscita gelosia e ammirazione. Christine, allora, mossa anche dall’interesse nei suoi confronti da parte di un affascinante quarantenne membro dell’Ordine di Malta e guida del gruppo di pellegrini, cerca di afferrare la nuova occasione di felicità che la vita le ha offerto.

LA REGISTA DI FRONTE AL «MIRACOLO»
L’autrice del film, in quella che si può considerare la piú rappresentativa delle interviste, contenuta nel Pressbook allestito dalla distribuzione italiana in occasione dell’uscita del film, mostra una fisionomia culturale e un orientamento di pensiero ben precisi per quanto riguarda il giudizio sull’argomento religioso scelto. Appare evidente che non è il fenomeno del miracolo in generale che la interessa, bensí la sua dimensione cattolica, poiché non i miracoli di Gesú (condivisi anche dalle confessioni evangeliche luterana e calvinista) la colpiscono, ma l’evento miracoloso verificatosi in un luogo mariano e quindi relativo solo all’ambiente della Chiesa cattolica. Inoltre la sua chiara ammissione che «il miracolo rappresenta un paradosso, un’incrinatura nella logica che ci guida verso la morte» dovrebbe mettere in guardia da facili propensioni per la neutralità della regista di fronte ad aspetti religiosi. L’affermazione, poi, che «L’attesa del miracolo è in un certo senso la speranza che alla fine tutto vada per il meglio e che ci sia qualcuno che veglia su di noi» basterebbe a far capire che l’idea, che buona parte della fede s’identifichi con una sorta di polizza di assicurazione o con un contratto con un istituto di vigilanza, non è proprio il massimo dell’attenzione alla religiosità.
Se questo non bastasse a disingannare gli spiriti piú inclini a concedere indulgenza, la curiosa precisazione della Hausner di essere stata influenzata, nella caratterizzazione dei personaggi, da Heidi, il fortunato romanzo della scrittrice svizzera Johanna Spyri (o addirittura dal cartone animato), chiarisce bene il livello al quale la regista intende porre il delicato argomento. Non pare, infatti, cosí profondo, a fronte di tutta la letteratura esistente su Lourdes (pro e contro), dichiarare: «Maria (Léa Seydoux), la giovane ingenua vestita di rosso, somiglia a Heidi e Christine (Sylvie Testud) è Clara, la ragazza vestita di azzurro sulla sedia a rotelle». «E poi il personaggio rappresentato da Bruno Tedeschini è come Pierre e Cécile (Elena Lowensohn) somiglia alla governante Rottenmeier».
E, con questa premessa, risulta assai poco comprensibile la pretesa di emblematizzazione, contenuta nella seguente affermazione: «Mi sforzo di rendere i personaggi meno individuali, voglio che rappresentino piuttosto i prototipi di un sistema, sociale o religioso che sia».
Alla domanda, poi, se il film si ponga in una prospettiva piú filosofica che religiosa, la regista risponde sicura: «Sí, solleva un interrogativo generale. Tuttavia, a me interessa l’emozione che accompagna il sentimento religioso. Avere fede significa credere che esista qualcosa che non si può spiegare e che supera i limiti della comprensione. I credenti lo chiamano dio. La fede consente di accettare che i miracoli possano accadere, è questa l’essenza della fede. Nel mio film il miracolo esiste: accade qualcosa di “miracoloso”, che però in seguito diventa abbastanza banale. Allora ci si rende conto che questo “miracolo” non racchiude necessariamente una morale o un senso…che forse è soltanto un caso. […] Lourdes non è il racconto di una guarigione, ma piuttosto una scatola cinese, in cui le scatole si aprono una dopo l’altra senza mai arrivare al centro».
Ammesso – ma ne dubitiamo – che la prospettiva filosofica possa identificarsi con l’interesse per l’emozione che accompagna il sentimento religioso, è lecito rimanere perplessi sulla suddetta definizione di fede e di Dio (dio) della Hausner e, ancor di piú, sulla affermazione che l’essenza della fede consiste nell’accettare che i miracoli possano accadere.
Piuttosto inaccettabile, poi, per un cristiano, non diciamo solo per un cattolico, diventano lo scadimento nella banalità dell’evento miracoloso, il fatto che sia privo di senso e che sia riconducibile al caso. Aspetti tutti che depongono per un’interpretazione del miracolo, da parte della regista, tutt’altro che neutra o aperta a una possibilità di fede.
Lasciamo per ora da parte una conclusione su quest’argomento, anche perché essa dipende in gran parte dal rigore della lettura strutturale del film. Prendiamo piuttosto un’altra interessante prospettiva della regista, utile a definire il taglio di una certa sua cultura, che finisce per condizionare anche la visione che essa ha del miracolo. Di fronte alla domanda, oggi di prammatica, sul fatto che nei film della Hausner le figure maschili occupano un posto marginale, incarnando il potere, nei panni di sacerdoti, ufficiali dell’Ordine di Malta, medici o padri, che ricoprono il solo ruolo di limitare le eroine, la regista non esita a visitare i luoghi comuni della cosiddetta politica di genere, affermando: «La protagonista è una donna… Trovo che il potere istituzionale e l’autorità siano terribili, in quanto sono soltanto una facciata apparente che cela un nucleo vuoto. Gli uomini di potere disturbano i miei personaggi femminili, che sprofondano in una specie di vuoto quando capiscono che questo sistema di autorità è privo di sostanza. Spesso durante il film i miei personaggi femminili imparano che quell’autorità maschile non è in grado di fornire loro una risposta. Questa scoperta li getta nello sconforto».

PREMI CONTRADDITORI  E FILM AMBIGUO
Vista la questione da un punto di osservazione neutro, si presume, almeno, che ognuno dei due schieramenti abbia attribuito il proprio premio, riconoscendo al film il merito di corrispondere, nelle idee di cui è portatore, alla impostazione di pensiero che diffonde e sostiene: l’ateismo per l’uno e la religione cattolica per l’altro. Diversamente non avrebbe senso che si attribuisse un premio a un’opera che nega i fondamenti del proprio credo, ateo o religioso che sia.
Ma qualcuno potrebbe obiettare che il film si destreggia tanto bene che giunge, in modo ambiguo, a suggerire allo spettatore che il miracolo non c’è, ma che non viene neppure escluso che ci sia o ci sia stato e che, dato il modo di esprimersi per immagini della regista, si possa pensare che non si voglia minimamente infangare il luogo sacro, ma se ne abbia molto rispetto. L’affermazione nell’intervista, che paragona il film a «una scatola cinese», lascerebbe supporre proprio questa intenzione ambivalente come stratagemma di marketing per attirare il consenso del maggior numero di pubblico possibile.
Questo ragionamento, orientato a sostenere l’ambiguità del film, potrebbe, però, filare solo fino ad un certo punto, cosí come quello che volesse sostenere che il film, pur parlando di un miracolo o presunto tale, intende sottolineare la fede, non tanto quella che riguarda il mistero del divino, ma soprattutto quella nell’uomo, nella vita e nella speranza: fede nel saper sopportare la malattia, fede nel riuscire a vincere il dolore e a conviverci.
Il primo tipo di ragionamento (quello sulla ambigua neutralità del film) darebbe ragione ad atei ed agnostici, ma non ai cattolici che, cosí, avrebbero finito per premiare un film piú per meriti linguistici o estetici o narrativi, che non di chiarezza tematica, perché il film sarebbe un film narrativo esclusivamente dedicato a una vicenda di un miracolo che viene creduto tale, ma di cui non ci sono né tutte le necessarie ammissioni medico-scientifiche di impossibilità di spiegazione, né tutte le rituali garanzie che la procedura della Chiesa cattolica richiede prima di pronunciarsi su un caso di supposta guarigione miracolosa.
Nel modo di raccontare per immagini del film, infatti, non si spiega con chiarezza, né che la guarigione sia completa, né che non sopravvenga nessuna crisi dopo la guarigione, né, infine, che dopo la guarigione non sia possibile la ricaduta della malattia stessa.
Il secondo tipo di ragionamento (quello sulla fede nell’uomo) è molto lontano dalla definizione di fede data da San Paolo, che suona: «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non di vede.» (Eb 11,1). E inoltre, tale ragionamento darebbe, ancor piú del precedente, ragione ad atei e agnostici, perché la fede nella vita, nella speranza, nella sopportazione del dolore è, giustamente, un patrimonio non solo dei cattolici, ma anche di tante altre culture, compresa quella laicista. I cattolici, quindi, che nell’attribuzione di un premio o nella valutazione del film fossero giunti a tali conclusioni, non si sarebbero discostati molto da una visione puramente laico-progressista del concetto di sensibilità religiosa oggi in voga. E laico-progressista sembra essere anche il succo di un’intervista che, nel già citato Pressbook, riporta un punto di vista teologico sul film, ricorrendo al parere di Juan José Tamayo. Questi è un esponente della Teologia della liberazione, che, tra il resto, collabora con il quotidiano spagnolo filo-marxista El Pais. Nella intervista egli, per sostenere le proprie osservazioni, non trova di meglio che appoggiarsi alla nota affermazione dell’ex-francescano Leonardo Boff, piú volte ammonito dalla Congregazione per la Dottrina della Fede: «Solo Dio è umano come Gesú». Con questo Juan José Tamayo intende che «il dio del cristianesimo, il dio dell’islam, il dio dell’ebraismo si caratterizzano per la compassione, la misericordia, il perdono, la solidarietà, la vicinanza, la comunicazione diretta con gli esseri umani, la sensibilità» e che «Ciò che possiamo imparare da Dio è la sensibilità di fronte alla sofferenza e la solidarietà nei confronti di coloro che soffrono nella Storia». Come si vede, una interpretazione fortemente riduttiva della natura divina e una impostazione, certamente, piú sociologica, psicologica e storicistica che non strettamente teologica.
Sembra, pertanto, che l’atteggiamento di fondo verso la religione della regista e il suo modo di condurre il film non siano poi cosí lontani dalle note posizioni di Emile Zola, che nella Francia positivista di fine Ottocento, dove si faceva un gran parlare di Lourdes, sostenendo che gli uomini hanno «necessità di essere ingannati e consolati», ribadiva: «non sono credente, non credo ai miracoli. Ma credo al bisogno del miracolo per l’uomo». E, a conferma di ciò, pur essendo stato presente almeno a un paio di clamorose e durevoli guarigioni miracolose, lo scrittore s’industriò sempre a negarle, giungendo fino a cercare di comprare, con ingenti somme di danaro, una beneficata da inspiegabile guarigione, perché scomparisse in quanto scomoda testimonianza vivente.

PORSI DI FRONTE AL FILM CORRETTAMENTE
Giunti a questo punto è evidente che non possiamo liquidare la faccenda con quella affermazione, ormai diffusa da tante agenzie, che, in modo politicamente corretto, classifica l’opera in questione come «il film che piace ad atei e credenti».
Affermazione, questa, di un estremo semplicismo, che sfugge alla responsabilità di dare una lettura e una valutazione di un tipo piuttosto che dell’altro e che appartiene al repertorio del piú scontato relativismo, sostenitore di un significato, «ma anche» del suo opposto! Insomma, una segnalazione di un film che assomiglia a una moneta a due facce, spendibile nel territorio della religione e in quello opposto del piú accanito razionalismo laicista.
Certo, nulla osta a che i gusti circa un qualche cosa possano accomunare credenti, atei, razionalisti, agnostici ecc., ma qui non si tratta di un gelato al pistacchio o di un piatto di spaghetti, che possono piacere o meno a un pubblico indifferentemente vario per età, sesso, cultura, latitudine, razza e religione. Qui si tratta di qualcosa di sostanziale e non di superfluo che, in positivo o negativo, sta alla base di buona parte dei convincimenti di entrambe le categorie, atei e credenti.
Consta, infatti, che il miracolo, anche se non è materia obbligatoria di fede, sia un elemento imprescindibile per il credente e che, altrettanto, in campo opposto, sia un aspetto di cui dimostrare obbligatoriamente l’inesistenza, proprio per affermare la dimensione superstiziosa della religione. Come può dunque accadere che si possa tranquillamente far torto alla logica, che non ammette contraddizioni, e attribuire all’imprecisa e nebbiosa notte dell’ambiguità il significato di un film che investe una tematica tanto importante come il miracolo? E, per di piú, senza incorrere nelle rimostranze giustificate degli alfieri dell’ateismo o della fede cristiana, che si vedono rispettivamente scippata la prerogativa di poter segnare un punto a proprio favore e che sono costretti a condividere in condominio il senso di un’opera di comunicazione, relegandolo cosí al rango d’interpretazione soggettiva, se non addirittura, di opinione! Soprattutto, poi, per i cristiani la cosa è grave, visto che avrebbero finito per premiare una espressione filmica che, sic stantibus rebus, contravviene in pieno a quell’insegnamento evangelico dove si afferma: «Sia il vostro parlare sí, sí, no, no; il di piú viene dal Maligno» (Mt 5.37).
Ma anche per l’Uaar questo risultato di opposte sensibilità nei premi appare, a ben riflettere, come un fallimento, visto che la motivazione del premio assegnato fa leva soprattutto sulla «oggettività dello sguardo». Quale mai oggettività, se, in base al testo filmico, gli avversari attribuiscono premi in nome di quella fede che include anche una componente di attenzione al miracolo e che proprio gli atei intendono squalificare?
Non vogliamo, però, con tutto questo arrivare alla conclusione che una convergenza di riconoscimenti, che partono da premesse culturali tanto diverse, faccia supporre una analoga mentalità nel soppesare il fenomeno miracolistico. Ciò, infatti, porterebbe ad ammettere che, ormai, non esiste differenza tra un ateo e un credente anche di fronte a ciò che non è strettamente materialistico. Piuttosto, si deve ricorrere a una spiegazione tanto semplice nella evidenza quanto bisognosa di essere illustrata nelle cause e nelle conseguenze: la confusione e l’assenza di una autentica capacità di leggere, a termini di logica e di scienza, la comunicazione e i fenomeni ad essa connessi.
In realtà e prima di andare oltre, guardando i comportamenti umani in mezzo ai quali viviamo e che spesso condividiamo, dobbiamo ammettere che una sorta di materialismo pragmatico, provocato dal linguaggio dei media dell’immagine, ha, di fatto, contaminato la coscienza delle persone.
Cosí tanti aspetti, che un tempo erano illuminati dall’etica o dalla spiritualità, sono, invece, oggi traguardati attraverso un filtro materialistico, a prescindere dal fatto che la coscienza in questione appartenga a un cattolico o meno. Per rendersene conto basta considerare la valenza che oggi assumono il matrimonio, la difesa della vita, l’orientamento sessuale, i diritti della persona e molto altro di ciò che riguarda l’architettura dei valori della nostra società.
La questione, dunque, si può distinguere in due fondamentali aspetti: quello riguardante il modo di intendere il miracolo e quello inerente alla natura e alla funzione della lettura strutturale del film.

RAGIONEVOLEZZA CRITICA SUL MIRACOLO
Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre fare una premessa non insignificante di metodo, che meriterebbe di essere vista in tutte le sue articolazioni, ma della quale ora diamo solo un cenno, perché essa fa piuttosto parte di una strategia di confutazione dell’ateismo, strategia che, per la sua complessità metodologica, non è qui illustrabile.
Non si capisce, infatti, perché si debba escludere che un atteggiamento razionale non possa essere attribuito ai credenti che si pongono di fronte alla problematica del miracolo, ma si debba continuare a diffondere l’idea che la razionalità, cosí come la scienza, siano patrimonio esclusivo e «griffato» del mondo laicista, ateo, agnostico.
Allo stesso modo non è affatto scontato che la «oggettività di sguardo» sia prerogativa che conduce a conclusioni obbligatoriamente scientiste e anti-religiose. Prova ne sia la vicenda di Galileo che, nonostante le note vicissitudini, mai ha sfruttato la sua oggettiva capacità di osservazione per trasformarne i risultati scientifici in conclusioni scientiste o anti-religiose. Se a questo aggiungiamo poi il fatto che, linguisticamente, «sguardo» e «oggettività» sono termini che, messi insieme, costituiscono uno splendido ossimoro, ne emerge un uso disinvolto del linguaggio che, forse, può fare effetto su atei e agnostici, ma che sicuramente non affascina piú di tanto chi è abituato alle leggi della comunicazione e della semantica, dove lo «sguardo» non può che essere soggettivo ed esistenziale e «oggettività» non può che essere sinonimo di atteggiamento cognitivo volto a cogliere ogni aspetto reale nella sua indiscutibile essenza.
Dunque, nel trattare questo tipo di argomenti, va detto, per prima cosa, che si deve distinguere tra definizione di «miracolo» e significato del «miracolo». Mentre, infatti, la Chiesa non ha mai dato una definizione ultima di miracolo, ha parlato sovente del significato del miracolo. Chiariamo bene, però! Non che nella tradizione cristiana manchino definizioni in proposito, ma da esse emerge in modo inequivocabile l’interesse che la Chiesa ha per il concetto di miracolo nella sua funzione di segno certissimo della fede, che tuttavia non la comunica, ma che porta alle sue soglie oppure che la conferma.
Se si scorre il Vangelo in lingua greca, si trova che tale concetto viene solitamente espresso mediante quattro termini diversi: Semeion, «segno», cioè l’evidenza empirica di intervento o presenza divina (Matteo 12,38-39 e 16,1-4; Marco 8,11; Luca 11,16 e 23,8; Giovanni 2,11, 2,18 e 2,23; Atti 6,8); Terata, «miracoli», cioè portenti, eventi che causano stupore. (Atti 2:19); Dynameis, «potenze», cioè opere che presuppongono una forza, o meglio, un potere sovrumano o sovrannaturale (Atti 2:22; Romani 15:19; 2 Tessalonicesi 2:9); e, infine, Erga, «opere», cioè le azioni dei santi o di Gesú e i suoi discepoli. Ciò dimostra l’attenzione del testo sacro nel cogliere ogni sfumatura di quel tipo di eventi, tra cui la guarigione improvvisa, che nel film la Hausner intende collocare nella categoria dei «miracoli», svuotata, però, di ogni rimando al mondo trascendente.
Se si percorre, poi, la tradizione patristica e teologica si deve arrivare al IV secolo, per trovare una formulazione dottrinale del miracolo, quando Sant’Agostino lo definí, in primo luogo, come «qualunque cosa appaia stupefacente o insolito al di sopra della speranza o della possibilità di chi osserva» (De Utilitate Credendi, XVI, 34) e successivamente lo classificò alla stregua di un evento non contrario alla natura del creato, ma contrario solo alle leggi di natura che conosciamo: «Il portento dunque avviene non contro natura ma contro quanto della natura è noto». (De Civitate Dei, XXI, 8, 2).
Anche se i miracoli non sono in sé il fondamento unico della fede, non si può non tenere conto del fatto che l’incarnazione (il Figlio di Dio che diventa uomo) e la resurrezione (il risorgere di Cristo dai morti) sono, di fatto, miracoli, escludendo i quali, la religione cristiana si svuota della sua specificità e di ogni suo contenuto.
Qualsiasi valutazione sul miracolo, quindi, che, promanando da un’opera di espressione umana (artistica o meno), neghi l’esistenza del miracolo stesso, è intrinsecamente anti-religiosa e anti-cristiana e non può essere forzatamente piegata e letta come il suo esatto contrario e pertanto non può ottenere plauso e riconoscimento da parte di un credente. Se ciò accade è segno che non sono stati rispettati tutti i criteri logici, dottrinali e di lettura scientifica dell’opera in questione.
D’altra parte il significato del «miracolo» è sí essenzialmente legato alla religione e alla teologia, ma contiene anche valenze di rilevanza scientifica e filosofica. Infatti, da una parte esso si collega alle leggi naturali (ambito scientifico-filosofico), dall’altra, rimanda alla sua significatività soprannaturale (ambito teologico)2.
Proprio guardando a questi due ambiti, si deve chiarire che i miracoli possono essere di due specie. Vi possono essere miracoli che sono soprannaturali nella realtà che viene prodotta e sono soprannaturali anche nel modo in cui vengono prodotti.?Appartengono a questa specie di miracoli, la transustanziazione eucaristica e, come già detto, la incarnazione e risurrezione di Cristo.?Questi miracoli, dato che non si vedono, in quanto appartengono all’ordine soprannaturale, non sono ordinati a provare le verità di fede.
Vi sono, invece, altri miracoli che non sono soprannaturali in se stessi, perché avvengono riguardo a realtà naturali, tangibili, ma sono soprannaturali solo nel modo in cui sono prodotti. Tali sono, ad esempio, la risurrezione di Lazzaro, la moltiplicazione dei pani, la guarigione dei malati e dei paralitici... e quelli che sono registrati come tali a Lourdes.?Questi miracoli, proprio perché appartengono all’ordine sensibile, sono ordinati a provare le verità di fede e, pertanto,?secondo quanto insegna il Concilio Vaticano I (Denz.-Schonm., 3008-3010), sono argomenti esterni e segni certissimi della divina rivelazione, adatti a ogni intelligenza.
Con questo, pertanto, si sgombra il campo da un equivoco che è sotteso dalla posizione degli atei: quello che, negando il miracolo, automaticamente si squalificano insieme la religione cristiana e la fede nelle sue verità ad ogni livello.
Le affermazioni della Uaar circa il film sono, pertanto, deboli in tutti i sensi, perché non assolvono nemmeno, funzione di anticlericalismo, indispensabile per qualunque ateo, visto che la Chiesa stessa esclude il miracolo come fondamento unico di fede. Paradossalmente, gli atei si trovano, cosí, nella stessa condizione di chi vuole smantellare la fede in quanto tale, a partire dall’anticlericalismo e poi, nei confronti di fideismi, quali quello della derivazione umana dai primati, sono in attesa messianica di trovare il famoso «anello mancante» e si fidano acriticamente del «clero» scientista evoluzionista.
RAGIONEVOLEZZA CRITICA SULLA FEDE
Tutt’altra cosa, invece, la questione della fede per un cristiano, questione che mette conto riassumere brevemente per comprendere quanto sia distante il razionalismo ateo dalla ragionevolezza logica dell’autentico uomo di fede.
Per credere è necessaria la mano di Dio che tocchi il cuore e la mente e che dia la forza di consentire a quanto Egli comunica.?Per questo il Concilio Vaticano II afferma: «Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre» (Dei Verbum, 5).?La fede è, quindi, un dono divino e nessuno se la può dare. Gesú, infatti, ha detto: «Nessuno viene a me se il Padre non lo trae» (Gv 6, 44).?E il Concilio, ancora, aggiunge che sono necessari anche «gli aiuti interiori dello Spirito Santo».?Lo Spirito Santo ha il compito di muovere il cuore (sicché uno si trova a credere) e rivolgerlo a Dio e di aprire gli occhi della mente.?Di per sé, da un punto di vista umano, ci sarebbero tanti motivi per credere quanti per non credere, ma la mente viene inclinata a credere per questa azione dello Spirito Santo, che, tuttavia, non forza a credere. La risposta della fede è sempre libera e l’uomo può sempre deliberare di resistere a Dio.?La fede, in ultima analisi, fornisce all’uomo gli strumenti perché possa aderire a Dio che si rivela.
In questa luce, dunque, non sono i miracoli in sé il fondamento della nostra fede cattolica.?Fondamento di essa non sono neanche le sacre Scritture o le parole del Signore.?San Tommaso dice che anche quelli che ascoltavano direttamente la parola del Signore avevano bisogno di un aiuto interno dello Spirito Santo che li muovesse a credere.
Il motivo è semplice.?La fede fa aderire a verità di ordine soprannaturale, superiori pertanto alla portata della ragione che conosce le realtà che le sono proporzionate, e cioè quelle di ordine naturale.?Inoltre la fede ci fa aderire a realtà che per ora sono inverificabili. Per quanto uno si metta ad analizzare, con esami di laboratorio, un’ostia consacrata, non vedrà mai il corpo di Cristo, ma chi ne ha dubitato sul piano della fede, chiedendo risposta di fede, ha potuto verificare la soprannaturalità dell’assunto, com’è accaduto nel miracolo di Bolsena. Tuttavia, è bene ribadirlo, i miracoli, come recita il Catechismo della Chiesa cattolica alla proposizione 156, che riprende il Vaticano I (Denz.-Schonm.,cit. 3008-3010), «sono motivi di credibilità i quali mostrano che la fede non è affatto un cieco moto dello spirito».

LA FUNZIONE DELLA LETTURA STRUTTURALE
Poiché il film si presenta, prima di tutto, come un oggetto da percepire e tale oggetto si presenta, a sua volta, come una struttura composita in forma spazio-temporale, non è una semplice somma di immagini, bensí una costruzione di senso, che non basta limitarsi a percepire (vedere) o identificare nella vicenda, ma che, obbligatoriamente, va intelligentemente affrontata con riflessione.
La fascinazione sullo spettatore, esercitata dall’intreccio della vicenda, dalla recitazione dell’attore e, soprattutto, dal tipo di problematica sollevata (nel nostro caso: miracolo sí, miracolo no) non deve influire sulla ricerca del vero significato del film, cioè di ciò che afferma il suo autore.
Mentre lo spettatore comune rischia ad ogni momento di evadere in una partecipazione alla personalità fortemente idealizzata dei personaggi (quasi sempre il/la protagonista), che finisce per assumere come modelli di uno stile di vita o di un modo di pensare in chiave di valori, chi si pone nel proposito di indagare il film, soprattutto se vuole valutarlo e conseguentemente premiarlo, deve «vivere» l’altro (il personaggio) rimanendo se stesso, in collegamento fedele con la propria cultura e i propri valori. Mettersi quindi nei panni del regista e dei suoi personaggi, non vuol dire abdicare, durante il film, al punto di osservazione realistico delle proprie esperienze, ma vuol dire immagazzinare la prospettiva degli occhi del regista, per riconoscere, dopo il film, il senso che permette di esprimere un giudizio obiettivo nell’ambito del criterio (estetico, etico, pedagogico ecc.) che si assume come riferimento valoriale.
La lettura strutturale è, dunque, andare oltre l’informazione che il film ci dà, oltre le emozioni, oltre gli inganni del racconto per immagini, per scoprire l’immateriale, per incontrarsi con il pensiero del regista e non solo con la storia che ci racconta, senza rimanere prigionieri della suggestione che egli ha voluto trasmetterci. Solo cosí, rimanendo a livello conscio, ci si può confrontare sul piano delle idee e decidere se accettare o no quelle del regista.
Si tratta di una pratica ascetica in cui si lascia decantare, via via, ogni grossolanità di quanto nel film è riconducibile alla semplice trama, all’effetto, alla dimensione passionale, alla sollecitazione istintiva o emotiva, al riferimento erudito, per distillare l’essenza spirituale del significato ed essere sicuri di aver colto senza equivoci il contenuto mentale dell’autore.
È come se, a mano a mano che si procede nella acquisizione dei significati parziali del film, si esercitasse, all’interno di un laboratorio ove si va alla scoperta della verità, il proprio libero arbitrio, sentendo tutto il fascino della propria condizione di esseri liberi nel pensiero. Senza cedere al condizionamento potente del medium, senza essere coartati dalla vicenda, senza essere sedotti dalla spettacolarità e dalla recitazione degli attori, si percorre un territorio dove le strade da seguire sono sempre indicate da una segnaletica razionale e da una bussola che resta nelle mani di un viaggiatore consapevole della propria libertà.
Una corretta lettura strutturale che sottende la tensione verso la libertà, diventa, in ambito cattolico, qualcosa di piú di un esercizio culturale, diventa un fatto pastorale. Non solo perché tendere alla verità è un avvicinarsi a Dio, ma perché, come ha piú volte sottolineato Benedetto XVI, il messaggio cristiano deve, oggi, inculturarsi nella società dei media.
Questo, dunque, è il problema davanti al quale ci troviamo e il caso di LOURDES è proprio un esempio dell’importanza di una buona lettura strutturale che, qualche raro caso a parte, ma pur sempre legato solo alla vicenda del film, non pare essere stata fatta nel mondo cattolico, stando proprio alla luce delle motivazioni presentate per i premi o delle critiche sui quotidiani.
Ora, per capire come mai di fronte al film LOURDES siamo arrivati ad avere valutazioni concordanti sul modo di sviluppare la tematica da parte del film, ma provenienti da presupposti culturali tanto diversi e comprendere dove sta la confusione che ha portato a questa paradossale conclusione, dobbiamo formulare tutte le possibilità in cui si sono venuti a trovare i critici di ambo gli schieramenti.
La prima possibilità (ma puramente accademica e che rifiutiamo per quel credito professionale che si deve a chi ha mestiere e cultura in questo settore) è quella che i rappresentanti di entrambi i campi abbiano valutato il film a partire da una impreparazione metodologica, che li ha accomunati allo spettatore sguarnito di strumenti critici e che, pertanto, abbiano espresso il loro giudizio emotivamente e del tutto soggettivamente.
L’ateo e il credente, invece, che abbiano letto, con eguale capacità e quindi con eguale profondità, il film devono essersi trovati in una delle seguenti condizioni.
Se il film della Hausner propone, davvero, un’idea spirituale valida circa il tema del miracolo, l’ateo, il quale, secondo la sua concezione dovrebbe rifiutare quell’idea, è stato costretto a vagliarla fino in fondo (proprio per un’esigenza di lettura corretta del film). In tale lavoro ha usato quella ragione, quella coscienza culturale, che l’hanno messo di fronte al rigore della sua concezione e, se avesse voluto rispettarla fino in fondo, avrebbe dovuto non premiare il film sotto il profilo tematico, anche se avrebbe potuto riconoscerne gli eventuali meriti artistici.
Viceversa dovrebbe essere avvenuto per il credente, le cui basi di credenza fossero state solide e, quindi, avrebbe potuto esprimere un giudizio positivo sotto il profilo tematico ed eventualmente artistico. Nel caso, invece, le sue basi non fossero state solide, conseguentemente, non avrebbe, in tutta onestà, dovuto esprimersi.
Se il film della Hausner, invece, tratta la tematica del miracolo in modo non coerente con la tradizione cattolica, il credente che ha dovuto analizzare quella tematica e che non vi ha trovato convincenti ragioni di completezza, pur volendo giudicare positivamente il film e premiarlo, avrebbe dovuto distinguere, nella motivazione, gli aspetti condivisibili sotto il profilo artistico da quelli non condivisibili sotto il profilo spirituale.
L’ateo, invece, avrebbe avuto ragione a dare un giudizio positivo sul film, ma avrebbe anche dovuto esprimerlo con motivazioni piú fortemente connotate dal suo punto di vista e non con attenuate formule di stampo sociologico.
Nel caso, infine, il modo di trattare la tematica da parte del film non fosse stato pienamente accettabile sotto il profilo religioso ed il credente fosse stato costretto a riconsiderare aspetti dei suoi convincimenti, che avrebbero dovuto essere approfonditi o modificati, non avrebbe dovuto esprimersi in attesa di risolvere i propri dubbi.
 
IN CONCLUSIONE
L’esempio di LOURDES è quello di un film in cui emerge proprio un limite tematico circa il nocciolo della religiosità cattolica e circa il Trascendente. Il film sollecita, pertanto, nella sua precisa natura strutturale, una meditazione circa la ragioni per cui la regista (e l’uomo contemporaneo), pur sentendo il bisogno di parlare del Trascendente, ne hanno una concezione limitativa. La qual cosa obbliga a meditare, non tanto sulla realtà del Trascendente, bensí sul modo umano di presentarla attraverso i media. Il che significa, alla fin fine, che, anche questo film, come la maggior parte di quelli che appaiono sui nostri schermi, deve essere letto con criterio, se se ne vuole parlare a proposito, e che può essere usato proficuamente dalle persone giuste (cioè metodologicamente preparate) per approfondire la concezione attuale stessa della religione e della fede piú che quella del miracolo.

Ma in tutte le motivazioni dei premi e negli articoli di stampa che parlano del film, nessuno, ma proprio nessuno, ha avuto modo di mettere in rilievo questo non trascurabile aspetto del problema educativo che ogni film suggerisce, preferendo l’elogio o la polemica. (Luigi Zaffagnini)

 1) Il sito web dell’UAAR recita testualmente: Il «Premio Brian», dal nome del film satirico dei Monty Python Brian di Nazareth, è conferito a «un film che evidenzi ed esalti i valori dal laicismo, cioè la razionalità, il rispetto dei diritti umani, la democrazia, il pluralismo, la valorizzazione delle individualità, le libertà di coscienza, di espressione e di ricerca, il principio di pari opportunità nelle istituzioni pubbliche per tutti i cittadini, senza le frequenti distinzioni basate sul sesso, sull’identità di genere, sull’orientamento sessuale, sulle concezioni filosofiche o religiose».

 2) Cfr. Patrizio Polisca in L’Osservatore Romano, 12-13 giugno 2009
 

 


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