IN NOME DEL PAPA RE
Regia: Luigi Magni
Lettura del film di: Nazareno Taddei
Edav N: 54 - 1978
Titolo del film: IN NOME DEL PAPA RE
Titolo originale: IN NOME DEL PAPA RE
Cast: regia, sogg. e scenegg.: Luigi Magni – liberamente ispirato al libro «I segreti del processo Monti e Tognetti» – fotogr.: Danilo Desideri – mont.: Ruggero Mastroianni ¬– mus.: Armando Trovajoli – scenogr. e cost.: Lucia Mirisola – interpr.: Nino Manfredi (Monsignor Colombo da Priverno), Carmen Scarpitta (contessa Flaminia, sua madre), Danilo Mattei (Cesare Costa), Ron (Gaetano Tognetti), Giovannella Grifeo (Teresa), Carlo Bagno (Serafino, il perpetuo), Ettore Manni (il conte Ottavio), Salvo Randone (il gesuita), Camillo Milli (Don marino), Giovanni Cianfriglia (lo zuavo spagnolo), Gabriella Giacobbe (Maria Tognetti), Renata Zamengo (Lucia Monti), Luigi Basagaluppi (Giuseppe Monti), Giovanni Rovini (il presidente del tribunale della Sacra Rota) – durata 103’ – colore – produz.: Franco Committeri per Juppiter Generale Cinematografica – origine: Italia, 1977 – distrib.: Cineriz (vhs Domovideo, DeAgostini, Mondadori Video)
Sceneggiatura: Luigi Magni
Nazione: ITALIA
Anno: 1977
Premi: NASTRI D’ARGENTO 1978 per miglior attore a Nino Manfredi, miglior attore non protagonista a carlo Bagno, migliore scenografia e migliori costumi a Lucia Mirisola DAVID DI DONATELLO 1978 per miglior attore a Nino manfredi, migliore sceneggiatura a Luigi Magni, miglior produzione a Franco Committeri
Chiavi tematiche: Unità d'Italia pellicole tricolore
Tipico caso di falso storico e di bugia semiologica (detta, appunto con cose vere), a servizio della cassetta e dell'ideologia.
L'episodio storico al quale il film si riferisce (siamo a Roma, negli ultimi anni dello Stato Pontificio) è quello della condanna a morte per ghigliottina dei due rivoltosi Monti e Tognetti, i quali – in prossimità della battaglia di Mentana (1867) – avevano fatto saltare una caserma degli zuavi francesi provocando la morte di parecchi di essi (23?) e una grossa tensione nelle truppe di stanza a Roma, oltre che un'ovvia grande impressione nella città.
L'episodio si colloca nella crisi del regno temporale dei papi, iniziata già parecchi anni prima, e che doveva concludersi tre anni dopo con la presa di Porta Pia.
Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti) era successo nel 1846 a Gregorio XVI. Questi s'era dimostrato sempre sordo a ogni voce di rinnovamento, nonostante l'impulso dato all'opera missionaria. Alla sua elezione, Pio IX era stato salutato come il Papa libertario che avrebbe finalmente soddisfatto le aspirazioni dei liberali per l'unità d'Italia. In poco tempo, infatti, tra l'entusiasmo crescente di tutti, aveva concesso l'amnistia ai detenuti politici, istituito un governo costituzionale e permesso addirittura che allo scoppio delle ostilità tra Regno di Sardegna e Austria (cui Gregorio XVI s'era appoggiato) un corpo di spedizione pontificio venisse inviato (1847) per difendere Ferrara. Lo stesso Garibaldi e lo stesso Mazzini guardavano fiduciosi a Pio IX, rivolgendogli invocazioni calorose di voler essere l'artefice dell'unità italiana.
Ma al fondo c'era un equivoco: nelle concrete circostanze politiche, ciò voleva dire alimentare e sostenere la guerra contro l'Austria, il che contrastava nettamente con l'animo pio e buono del papa e con la sua precisa volontà di non voler divenire «il papa della guerra», soprattutto contro un Paese cattolico.
Ma più forte dell'ansia di pace di Pio IX era il gioco politico di conquista e di predominio degli Stati, che a turno sfruttavano nello Stato pontificio e in Roma stessa i vari malcontenti, pure di turno, e alimentavano moti insurrezionali, che oggi chiameremmo guerriglia e terrorismo. Tra il resto, nel 1848, veniva assassinato nel Palazzo della Cancelleria Pellegrino Rossi, che pure era il primo ministro del nuovo governo costituzionale.
Il Papa s'accorse dell'equivoco e cambiò il suo atteggiamento liberale.
Rifugiatosi a Gaeta, mentre a Roma nasceva la Repubblica Romana (Mazzini), invocò l'aiuto delle potenze cattoliche europee per poter rientrare nei suoi diritti. E infatti, con l'aiuto francese (sono di questa circostanza le epiche vicende del Vascello, di Porta S. Pancrazio, di Villa Spada, dove si segnalarono Nino Bixio, Goffredo Mameli, Luciano Manara e altri) rientrò a Roma, mentre l'Assemblea Costituente, ormai sconfitta, firmava come gesto di protesta la Costituzione Repubblicana.
Da notare che Pio IX considerava il regno temporale quale condizione indispensabile per l'adempimento della missione spirituale della Chiesa.
Non tutti, pure nella Chiesa, erano dello stesso parere (1); ma Pio IX rispondeva invariabilmente il suo sincero anche se (almeno per noi a oltre cent'anni di distanza) discutibile, «non possumus» a chi gli chiedeva di rinunciare al potere temporale e – come fu la proposta di Napoleone III – di mettersi d'accordo con Vittorio Emanuele II circa Roma capitale d'Italia.
Che la ferma posizione di Pio IX nascesse da vera e sincera convinzione spirituale e non da volontà di potere, lo dimostrano almeno due episodi. Il primo; nel 1869, Pio IX aperse il Concilio Vaticano I (che definì l'infallibilità pontificia, a lungo studiata e difesa dai gesuiti, che vennero chiamati per dileggio «i giannizzeri del papa») e per la prima volta in circa 1500 anni di storia – nonostante le acque italiane ed europee molto turbolente per la S. Sede: l'anno dopo ci sarebbe stata infatti la presa di Roma da parte dell'esercito italiano, resa possibile dal fatto che Napoleone III avesse ritirato le sue truppe di guarnigione, per cui la presa avvenne praticamente senza combattere, in forma solo simbolicamente militare – non vi ammise i rappresentanti degli Stati, che effettivamente se ne offesero: a indicare che al di sopra di ogni interesse politico la Chiesa doveva proseguire la sua missione spirituale. Il secondo: dopo la presa di Roma, egli si rinchiuse prigioniero in Vaticano e non volle riconoscere la Legge delle Guarentigie (13 maggio 1871) (2) che intendeva assicurargli aiuti e privilegi, scomunicando chi l'aveva fatta; e nel 1874 (il famoso decreto «non expedit») proibì ai cattolici di partecipare alle elezioni come candidati e come votanti, creando indubbi squilibri nella rappresentatività parlamentare e compromettendo il sorgere di una vera democrazia, ma dimostrando insieme – con concezione peraltro dimostratasi in seguito inaccettabile – la sua idea di netta preminenza dello spirituale sul materiale.
Gli anni (quasi 20), che vanno dal rientro a Roma di Pio IX alla battaglia di Mentana, sono pieni di vicende internazionali per il dominio sulla penisola. Ed è in queste che, al di là di ogni retorica, si inseriscono quelle nazionali, spesso assai sanguinose (si pensi anche solo alle stragi della battaglia di Solferino) che vanno sotto il nome di Risorgimento.
Nel 1860, con la spedizione dei Mille, aiutata da Vittorio Emanuele II, Garibaldi risale dalla Sicilia conquistando il Sud. Napoleone III consiglia al re italiano di bloccarlo, ma questi lo lascia fare – a strappi – sicuro di poterne sfruttare le gesta.
Nel 1866, dopo che le truppe francesi hanno abbandonato Roma, Garibaldi, con iniziativa personale ma in segreto accordo col governo italiano, si accinge a conquistare Roma con i suoi volontari. Il Regno Pontificio è ormai praticamente ridotto al Lazio. A Roma, in parte per sincera aspirazione politica (non si dimentichi che nel plebiscito del 1871, seguito alla presa di Roma, i voti favorevoli all'annessione della città all'Italia saranno 133.681 contro 1507 no) e in parte per sobillazione provocate dall'esterno, si sta attendendo l'arrivo dei «liberatori».
Napoleone III, sollecitato dalla moglie e da Rouher (ministro di stato, detto il «viceimperatore senza responsabilità», antiliberale), fa sbarcare a Civitavecchia due divisioni comandate dal gen. De Failly, che bloccheranno Garibaldi a Mentana (3 novembre 1867).
In questo preciso periodo si inserisce l'atto terroristico cui il film si riferisce. A proposito del quale, narrano le storie che fu il Papa personalmente a non concedere la grazia ai due condannati, Monti e Tognetti, senza sollecitazione di alcuno (contrariamente a quanto appare dal film). Nel clima di grande tensione, sia generale per le pressioni politiche e terroristiche dall'esterno sia particolare per l'attentato, nel contesto della situazione sovraccennata e della volontà di Pio IX di tenersi fuori da ogni guerra e di conservare il regno nella pace al di fuori di giochi politici, di fronte soprattutto a un delitto di strage che Pio IX ovviamente non poteva giustificare politicamente, il papa – anche se in forma che oggi accomuneremmo a una mentalità da tempi dell'Inquisizione e da caccia alle streghe – si preoccupò particolarmente della salute dell'anima dei due rei: saputo che essi, nel loro fanatismo liberatorio, erano fieri di morire vittime dell'oppressore e disposti a morire religiosamente, rifiutò la grazia, pensando così di salvare capra e cavoli. Dettaglio questo, di cui nel film non c'è minimamente cenno e che pur avrebbe offerto ben diversa dimensione e forza anche a un intento anticlericale, qual è quello degli autori del film.
Al tempo dei fatti cui il film si riferisce, il P. Generale della Compagnia di Gesù era il P. Becks, uomo mite e bonario, fedele si al Papa, Vicario di Cristo (com'è voto particolare dei Gesuiti), ma completamente al di fuori della politica e alieno, proprio per temperamento e per abitudine, a intrighi di qualsiasi genere. La Curia generalizia era in Piazza del Gesù 45, nel palazzo ancora oggi esistente e rimasto praticamente eguale a quello d'allora.
La vicenda (siamo a Roma, nel 1867, l'anno di Mentana) è quella di un vescovo, giudice del Tribunale penale pontificio, ch'è preso da crisi di coscienza nel vedere il Papa opporsi accanitamente al desiderio dei romani di congiungersi in unità col resto d'Italia. Scrive infatti le sue dimissioni. Senonché, proprio quella notte, tre giovani rivoltosi fanno saltare una caserma di zuavi francesi e vengono arrestati. Tra questi c'è il figlio che una nobile contessa aveva avuto proprio da lui quando, circa 20 anni prima (1848) si trovavano insieme ad assistere i feriti dei moti di quell'anno.
Il ragazzo, che si trova presso una famiglia di popoli dove è stato allevato e che ha una fidanzata pure rivoluzionaria, è comunemente ritenuto (ma ovviamente non è) l'amante della contessa; e infatti pare che i tre vengano scoperti proprio perché il conte sta pedinando la moglie.
Per salvare il figlio, la contessa si rivolge al vescovo, svelandogliene ora – lui non ne aveva saputo niente – la paternità. In piena notte, il vescovo riesce a far scomparire gli incartamenti giudiziari relativi al figlio e a farlo uscire di prigione, ma con la forza, perché il ragazzo non vuole uscire senza i due colleghi. Tornando a casa (il film lo mostra come un rapace uccello notturno), egli sente il rimorso di non aver fatto niente per gli altri due arrestati.
La contessa, non essendo riuscita a passare il confine col figlio, lo affida sempre recalcitrante al vescovo perché lo nasconda. Una seconda lettera di dimissioni al Papa resta così sul tavolo del mittente. Il ragazzo non sa che il vescovo è suo padre e lo tratta con quella turbolenza con cui i ribelli trattano gli oppressori o ritenuti tali. Ciononostante, il vescovo permetterà alla fidanzata del ribelle di rinchiudersi con questi nella cantina.
Al processo contro gli altri due (Monti e Tognetti), l'ordine è quello della severità esemplare. Il nostro giudice si oppone inutilmente. I due vengono condannati alla ghigliottina.
Mentre il ragazzo riesce a fuggire per ricongiungersi con i garibaldini a Mentana, il conte in agguato lo ferisce a morte per vendicare il proprio onore. Nello stesso tempo, il Vescovo viene prelevato dai gendarmi pontifici e portato dal Generale della Compagnia di Gesù, il quale cerca di ricattarlo chiedendogli di convincere il Papa – che sta passando la notte in preghiera nella curia dei gesuiti – a non firmare la domanda di grazia per i due condannati. Il vescovo ovviamente si ribella. I due vengono giustiziati. E l'indomani, quando il Generale dei gesuiti si presenta alla Messa del Vescovo per ricevere da lui la Comunione, questi gliela rifiuta.
Il racconto segue linearmente la vicenda, ma ne struttura gli episodi – nel collegamento tra loro e in loro stessi – in funzione chiaramente tematica. P.e. la presenza della madre di un arrestato e la moglie dell'altro sia all'uscita del vescovo dalla prigione dove è riuscito a far liberare il proprio figlio, sia nella curia dei gesuiti dove il Generale lo rassicura circa la grazia, proprio mentre sta adoperandosi per farla rifiutare: ad esprimere il comportamento ingiusto e disumano di rappresentanti tanto ragguardevoli della Chiesa istituzionali; oppure, le poche apparizioni del conte… cornuto in combinazione con due momenti importanti della vicenda, si da immergerla nell'ambito più vasto di una mentalità retrograda, comune ai potenti della città pontificia; ecc…
Un intento tematico è chiaramente perseguito anche da tutte le modalità della struttura narrativa del film. P.e. il modo di parlare e di comportarsi dei giovani ribelli, e di tutti in genere, è preso dagli attuali modi di parlare e di comportarsi, quasi ad avvicinare di cento anni quella vicenda, come fosse storia che praticamente si ripete.
Inoltre, dalla scelta degli interpreti ai dettagli di sceneggiatura, il racconto distribuisce le sue cariche di simpatia e di antipatia a seconda che i personaggi siano conformi o difformi dagli stereotipi correnti creati dalla propaganda di sinistra prossima all'extraparlamentare. E sotto questo profilo, è interessante la dosatura che il film fa. P.e., quando il ragazzo reagisce al vescovo – prima in carcere e poi nella sua abitazione –, tutto è calcolato in modo che un po’ di simpatia vada anche a questi, ma in proporzione di quanto anch'egli è o non è favorevole praticamente ai rivoluzionari, cosicché poi tutto sfoci emotivamente nel momento di grande simpatia in cui il ragazzo stringe la mano al vescovo perché viene a sapere che s'è battuto in tribunale a favore dei due compagni e che per questo viene portato via dai gendarmi.
In questo contesto, si può ricordare anche la scena dei garibaldini sconfitti dopo la battaglia di Mentana, feriti e malandati, condotti prigionieri dagli zuavi, col dettaglio del vescovo in carrozza che li vede passare: è il momento in cui egli sta rientrando dalla curia dei gesuiti, dove si è sì rifiutato di convincere il Papa, ma non ha fatto nemmeno qualcosa di più preciso per ottenere la grazia.
Si può notare ancora il tono che dall'umoristico va al sarcastico (sono evitate p.e. le scene granguignolescamente drammatiche, come sarebbe stato p.e. un accenno visivo all'esecuzione della condanna), sì da creare una drammaticità sottesa (come nel citato episodio del Generale dei gesuiti che inganna le due donne), più profonda e più incisiva nei confronti dell'impressione sul pubblico.
Tutti questi «modi» del racconto elaborano la narratività; sono tali, cioè, da far assumere significato esclusivamente alla vicenda (quella inventata), come se fossero i fatti stessi (quelli storici) a parlare e fosse esclusa ogni loro interpretazione da parte dell'autore. A realizzare questa intenzione, l'autore approfitta anche della didascalia di coda, che sembra dichiarare la storicità del film: «Il film è tratto liberamente dal libro tal dei tali (documenti sul caso Monti-Tognetti) ispirato a fatti realmente accaduti». Ad analizzarla bene, invece, (ma chi del pubblico odierno si preoccuperà di farlo? e l'autore lo sa, dal momento che è così preciso e puntuale nel comporla in modo da dire una cosa e farne credere un'altra), ci si accorge che di storico ci sono solo dei fatti di fondo (la condanna dei due giovani, colpevoli di un attentato in cui c'erano stati 23 morti, e un clima di guerriglia urbana per ragioni politiche).
È chiaro, così, che l'autore inventa una vicenda e la colloca sullo sfondo d'una realtà storica in maniera da far credere che tutto sia storico, anche se la vicenda di per sé con quello sfondo non c'entra niente; e ciò per farle dire quello che vuole lui.
L'idea centrale è proprio in questo «quello che vuole lui», vale a dire: «l'episodio dei due guerriglieri filo-garibaldini ghigliottinati il giorno della battaglia di Mentana, sullo sfondo della vicenda del terzo guerrigliero salvato dal padre ma egualmente ucciso – ed erroneamente – per una vendetta personale fondata sulla concezione tradizionale dell'“onore”, dimostra che la Chiesa istituzionale è un sistema corrotto e oppressore, contrario alle giuste esigenze umane e sociali del popolo; e che gli uomini della Chiesa sono veri cristiani solo in quanto si oppongono e combattono attivamente l'istituzione».
Cinematograficamente, il film è frutto di ottimo mestiere soprattutto «spettacolare», smaliziato in tutte le sue componenti comunicatorie, ivi compresa, però, la capacità di far credere quello che non è (bugia semiologica, comunicazioni inavvertite). Il cinema è qui usato come mezzo di comunicazione, attraverso una resa efficace della «cosa rappresentata»: efficace, nel senso che il recettore attribuirà a detta «cosa», e non al film, il significato che percepisce, secondo il comune processo che sottopostà particolarmente alle comunicazioni inavvertite. D'altra parte, per chi non conosca esattamente i fatti, o li conosca genericamente, è ben difficile andare a scoprire i punti in cui il film bara. E questo – per quanto disonesto e deprecabile – è innegabile abilità di mestiere.
Il film, per contro, non presentava valori di artisticità in senso stretto, anche se il ritmo è serrato e le cadenze narrative tanto visive quanto sonore opportune e calibrate, sempre entro i limiti del buon gusto spettacolare.
Non si può parlare di artisticità in senso stretto, perché da una parte la materia filmica non si libera mai dall'intento pseudodocumentario e, dall'altra, le sensazioni che suscita sono di natura contenutistica ed emotiva e non contemplativa ed estetica.
Tematicamente, il film è – per i motivi detti – solo falsamente convincente. In proposito, si deve osservare anzitutto che, anche posto e non concesso che la realtà storica fosse quella descritta dal film, la lettura del film stesso dimostra che esso si serve di mezzi deformanti e disinformanti per proporre una propria interpretazione e quindi, automaticamente, è falso perché si presenta come documento mentre volutamente e intenzionalmente non lo è, essendo invece solo interpretazione. Sotto questo profilo va sottolineato quanto dicevo più sopra, cioè che il film fa attribuire quel significato ai fatti storici, mentre il significato è di una vicenda inventata, la quale, per di più, a quei fatti è legata solo esteriormente.
In secondo luogo, anche senza essere competenti in storia, bastano le poche notizie che ho riportato all'inizio per accorgersi che la verità storica – pur a parte l'invenzione della vicenda centrale – è ben poco rispettata.
Del sostrato storico, peraltro drammatico, di cui anche il caso della condanna Monti-Tognetti è episodio sintomatico, nel film non c'è sostanzialmente niente. Non solo, ma per sottolineare la sua tesi di parte senza toccare un punto delicato in clima di provocato compromesso storico, fa vedere un Pio IX ginocchioni in preghiera, mentre il generale dei gesuiti compie in suo nome nefandezze (tipico esempio composito e multiplo di bugia semiologica e di falsità fattuale). Ed è in questi dettagli narrativi che casca l'asino storico. Così, p.e., a parte la ricostruzione di pura fantasia della curia dei gesuiti (sfruttata per fare una battuta contro di questi), non è certo possibile riconoscere nel Generale del film il P. Becks, di tutt'altra costituzione fisica, ma soprattutto morale e comportamentale. Eppure su di esso è imperniato un punto tematico universalizzante (cioè «la Chiesa istituzionale» e non «un caso singolo»). Assolutamente inverosimile, poi, che il papa fosse andato a passare la notte in preghiera nella curia o che il Generale vada a prendere la Comunione in quel modo. Non corrispondente poi, come detto, a quanto dicono le storie, la non concessione della grazia.
L'autore o non ha saputo l'episodio (da noi riferito all'inizio), il che potrebbe voler dire che della storia vera del caso Monti-Tognetti egli non s'è troppo interessato (e allora con che diritto pretende di sputar sentenze dicendo di basarsi su fatti storici?) oppure non l'ha còlto nella sua vera dimensione ed entità, il che potrebbe voler dire che per lui – l'autore – fa storia il contenuto degli slogans dell'ormai frusta campagna anticlericale radicalmarxista, senza nessuna capacità di vedere le cose con un po’ di autentica cultura personale.
Anche solo da quanto ho esposto all'inizio, invece, si capisce facilmente di quale interesse sarebbe stato un film che avesse affrontato le vere tematiche che stanno alle spalle di quel periodo e di analoghe vicende; tanto più che veramente in quel tempo c'erano situazioni molto analoghe a quelle di oggi: da una concezione della Chiesa come potere che, se pur in buona fede, porta penose e talvolta disastrose conseguenze umane e sociali, fino al terrorismo ideologico manovrato dall'esterno in funzione di conquista del dominio (proprio come oggi) e giocante sempre sulla testa e sulle spalle della povera gente o di chi ha vere esigenze e sincere e genuine aspirazioni.
In poche parole, il film è inventato nella sua vicenda di base (e fin qui non ci sarebbe nulla di male, se esso non si presentasse come «storico») e colloca in una visione falsata, quando non esplicitamente falsa, i fatti storici di fondo cui si riferisce.
Pertanto, oltre che tematicamente falso e artisticamente inesistente (salvo una grande capacità di dir bene le bugie), il film è anche moralmente negativo, così com'è sempre immorale tutto ciò che è menzogna e imbroglio. Si tratta infatti di un film che imbroglia e che vuole imbrogliare, per propaganda di parte o esplicitamente intesa o, più probabilmente, supinamente accettata. E la sua più deplorevole immoralità sta proprio in questo sfruttare situazioni vere e penose, bisognose di soluzioni attente e valide, ben sapendo che né le si possono né le si vogliono risolvere, intendendo solo tirar acqua al proprio molino e servirsi dei bisogni altrui per conquistare il potere, così come hanno fatto sempre i più tragici arruffapopoli della storia umana. (NAZARENO TADDEI).
(1) Si possono ricordare il famoso P. Passaglia, gesuita, autore de «Il pontefice e il principe» (1860) e di una costituzione civile del clero, secolarizzato da Pio IX in un primo tempo e scomunicato poi; e quel Card. Gerolamo D'Andrea, abate di Subiaco, il quale, raggiunto a Napoli dove diffondeva le sue opinioni da decreti di Pio IX che lo privavano dei diritti e dei poteri del suo rango, fece in seguito atto di sottomissione, venendo pienamente reintegrato durante un'udienza in cui il papa lo lasciò lungamente prostrato bocconi per terra in preda a incontenibili singhiozzi.
(2) «Premesso il dissolvimento dello Stato della Chiesa e l'estensione della sovranità italiana sull'intera città di Roma (…) il pontefice era equiparato al re sotto il profilo giuridico e gli si riconosceva la più ampia libertà di azione e di movimento sul territorio italiano; annetteva il diritto di legazione attivo e passivo; la libertà di corrispondenza; il godimento dei palazzi Vaticano e Laterano nonché della villa di Castel Gandolfo. Completa libertà di circolazione era anche riservata ai cardinali in occasione di concilii e dei conclavi mentre alla forza pubblica era vietato l'intervento sia nei palazzi apostolici che nei luoghi di riunione dei concilii e dei conclavi, ove non fosse espressamente richiesto.
Veniva infine garantita al pontefice una rendita annua di lire 3.200.000. Con l'enciclica Ubi nos del 1871 la Santa Sede respinse le garanzie sancite nella legge e non accettò la rendita da essa stabilita; tuttavia la legge rimase formalmente in vigore sino al 1929». (da Encicl. Universo, alla voce ).