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TEZA (RUGIADA)



Regia: Haile Gerima
Lettura del film di: Franco Sestini
Edav N: 363 - 2008
Titolo del film: TEZA (RUGIADA)
Titolo originale: TEZA
Cast: regia e scenegg.: Haile Gerima – fotogr.: Mario Masini – mus.: Vijay Iyer, Jorga Mesfin – mont.: Haile Gerima, Loren Hankin – scenogr.: Patrick Dechesne, Alain-Pascal Housiaux, Seyum Ayana, Tim Pannen – cost.: Wassine Hailu-Klotz – interpr.: Aaron Arefe (Anberber), Abeye Tedla (Tesfaye), Takelech Beyene (Tadfe), Teje Tesfahun (Azanu), Nebiyu Baye (Ayalew), Mengistu Zelalem (giovane Anberber), Wuhib Bayu (Abdul), Zenahbezu Tsega (Minister), Asrate Abrha (Cadre Leader), Araba Evelyn Johnston-Arthur (Cassandra), Veronika Avraham (Gabi) – durata: 140’ – colore – location: Etiopia e Germania (Colonia) – produtt.: Haile Gerima, Karl Baumgartner, Marie-Michèle Cattelain, Philippe Avril – produz.: Negod-Gwad Production, Pandora Film Produktion con Unlimited, Wdr – origine: ETIOPIA / FRANCIA / GERMANIA, 2008
Sceneggiatura: Haile Gerima
Nazione: ETIOPIA, GERMANIA, FRANCIA
Anno: 2008
Presentato: 65. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia - 2008 - In Concorso
Premi: PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA, PREMIO OSELLA PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA Premio "Il cerchio non è rotondo". Cinema per la pace e la ricchezza della diversità. Con la seguente motivazione: "Perché rende la necessità di ricostruire la propria identità culturale un elemento essenziale per la pacifica convivenza tra i popoli".

È la storia di Anberber, intellettuale etiope, emigrato giovanissimo in Germania per sfuggire al regime di Hailé Salaissé, storico e longevo dittatore del dopoguerra, il quale rientra in Etiopia per mettere al servizio del suo villaggio – e del suo paese – le conoscenze mediche acquisite all’estero; il medico al suo rientro, trova il suo paese ancora nelle mani di un dittatore – il marxista Haile Mengistu – e non trova di meglio che rifugiarsi, per la maggior parte della narrazione, in ricordi relativi al periodo del suo espatrio, mischiandoli con ricordi degli amici sia in patria che all’estero.

In questo nuovo approdo nei luoghi natii, Anberber vorrebbe dedicarsi soltanto alla cura della gente, ma le violenze che provengono dal regime militarista e marxista di Mengistu lo costringono ad assistere a tanti soprusi, per cui deve entrare in lizza e scegliere di “sporcarsi le mani”; brevi scorci di tranquillità sono rappresentati dal suo rapporto con colei che diventerà sua moglie e dai discorsi fatti con gli amici, nei quali ritornano le immagini ed i ricordi della giovinezza, quando le cose sembravano fantastiche e quando in tutti loro c’era la certezza che – in un modo o nell’altro – la vita del proprio paese sarebbe stata certamente cambiata e sarebbe tornata la democrazia e la felicità.
Il film quindi utilizza una storia privata – quella di Anberber – per affrontare un problema più ampio, cioè la vita in Etiopia che passa da un dittatore all’altro, senza soluzione di continuità.
E la gente che l’autore ci mostra sembra ormai rassegnata a questo stato di cose, salvo poche frange estremiste che continuano a lottare per il cambiamento: tra questi, ovviamente, anche il medico sarà costretto a fare la propria parte.
Il film inizia con un canto africano che si sovrappone a immagini di idoli e su questi scorrono i titoli di testa; poi dal nero l’immagine passa a mostrare la realtà attraverso un corpo bendato e insanguinato (lo rivedremo nel corso della narrazione e sarà quello di Anberber buttato di sotto una terrazza per motivi razzisti durante la sua permanenza in Germania): questo accostamento tra magia e realtà ed il titolo (rugiada) ci introduce in una narrazione che vuole essere a cavallo tra la magia e la brutale realtà; forse per l’autore la prima (la magia) potrebbe essere un rifugio alle violenze ed alle brutalità della vita, dalle quali però, ci conferma nella narrazione, è vano sfuggire perché saranno sempre davanti a noi e ci costringeranno a prendere posizione: è quello che accade al nostro medico che si ritrova ad occuparsi di queste cose, lui che era invece tornato per aiutare il proprio villaggio “a sconfiggere i bachi, cioè i batteri)”.
Da notare che la narrazione, a volte brutale e intrisa di violenza, ha molti scorci nei quali l’autore ci mostra le bellezze del paese, quasi come a dire che in questa sorta di Paradiso terrestre è un vero peccato sciupare tutto con la cattiveria e con la cupidigia dell’uomo.
Ma l’anelito dell’autore resta a livello puramente di intenzione, poiché la realtà del paese in questione, così come ci viene narrata ed altrettanto per quanto veniamo a conoscere dalle cronache giornalistiche, è più votata alla violenza che a cantare le bellezze della natura.
L’ultra sessantenne regista del film, Haile Gerima, di origine etiope, si è formato cinematograficamente in Germania e nei 35 anni di attività ha realizzato una quindicina di lavori, in buona parte dedicati al proprio paese, a testimonianza dell’importanza che egli assegna alle proprie origini, proprio sotto il profilo della formazione anche artistica.

E dobbiamo dire subito che il film è sicuramente un’opera onesta e sentita, nella quale si percepiscono le lacrime che l’autore versa nei confronti delle brutture che si svolgono in Etiopia; tuttavia, sotto il profilo cinematografico, specie se si considera che l’opera è presentata ad una Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, siamo ad un livello che raggiunge a malapena la sufficienza, non tanto per l’uso degli attori – sempre in tono con l’immagine – e neppure per la fotografia – che è sempre ben realizzata e mai fine a se stessa – ma proprio per la pochezza della struttura narrativa che non riesce a decidere tra “il privato” e la storia dell’Etiopia. (Franco Sestini)

 


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