GALLIOFILMFESTIVAL 2012
di MICHELE SERRA
Un confronto impossibile?
I piccoli festival tematici di fronte i grandi eventi festivalieri cinematografici
Ultima settimana di luglio 2012; come da 16 anni, questa parte dell’anno sull’altopiano di Asiago è stata dedicata ad un festival cinematografico sempre più impegnativo.
A Cannes, Berlino, Venezia ci sono i grandi festival, dove vanno i film “vip”, molti dei quali sono già sul mercato internazionale.
Da quei luoghi mitici, essi dominano e impongono la loro presenza in ogni regione del mondo.
Gallio, paese dell’altopiano, anch’esso ha un festival, ma sarebbe assai fuori luogo, non dico presuntuoso, se volesse assomigliare a quelli del mercato.
Lo stesso vale per tanti altri festival periferici. Quello di Gallio, conoscendolo da 16 anni, lo porto come elemento di paragone.
Sarebbe fuori luogo cercare somiglianze con i grandi festival, perché il GallioFilmFestival – Cinema Italiano Opere prime, si pone nel mondo del cinema come scopritore di giovani talenti, che mai o quasi mai hanno assaporato il successo anche commerciale dell’incontro col grande pubblico.
Non sarebbe presuntuoso però, perché questo ruolo che Gallio si attribuisce è eticamente superiore al ruolo dei grandi festival, che basano il loro successo sul divismo, sul “red carpet”, il tappeto rosso steso sotto i piedi delle star che entrano nella sala di proiezione, osannati dai gesticolanti fans, che verso di essi stendono le mani e le fotocamere.
Se qualche film non soddisfa nella programmazione dei grandi eventi festivalieri, il problema che ne nasce non è determinante sul successo complessivo dell’evento; si direbbe semplicemente che il direttore artistico e i suoi collaboratori non hanno avuto perspicacia nella scelta dei prodotti ed essi si difenderebbero rispondendo che anche nel mondo del cinema ci sono le cattive annate.
La programmazione dei piccoli festival tematici, come Gallio appunto, è sempre e assolutamente rischiosa, perché è noto che spesso le opere prime dei giovani cineasti possono avere grandi difetti.
Questi, ad elencarli, sono i pochi soldi, di cui i film godono per essere dignitosamente realizzati. Ma, come afferma l’ormai famoso motto del festival nato a Gallio, “Non contano i soldi; contano le idee”.
Ecco allora il secondo difetto d’un certo cinema dei giovani: la debolezza delle idee, la scarsità di apertura culturale ed esperenziale, anche se, magari, quella specifica c’è: tanti cineasti hanno frequentato corsi di formazione cinematografica e hanno realizzato tanti documentari, ma una visione aperta del mondo rimane loro lontana.
Da qui, spesso, nasce la loro presunzione di voler dire grandi cose senza possedere una adeguata maturità culturale, frutto anche di esperienze di vita,
Quanto pesano, a volte, le loro storie raccontate con sovrabbondanza di intellettualismi e di simboli, che non giungono al pubblico se non per disorientarlo!
Altro difetto è quello di attingere soprattutto alla periferia della nazione, alla provincia. Il film così stenterà a diventare un interessante racconto di respiro universale.
Ma qui sta anche la bravura, che alcuni hanno, di sprovincializzare le storie facendole incontrare col patrimonio culturale, artistico, ludico di un popolo.
Ogni anno a Gallio si assiste alla nascita di opere pur provinciali nell’ambientazione, ma aperte, condivisibili, ricche di preziosi apporti contenutistici, etici, universali.
Prendiamo, per esempio, un film presentato nel 2012, IO SONO LI di Andrea Segre ambientato nel ristretto spazio di una chiusa e litigiosa città veneta, Chioggia, tra pescatori, comunità cinese ostile ad ogni apertura, dialetto tipicamente chioggiotto, tanto da dover ricorrere ai sottotitoli per farsi comprensibile. Dove però l’apertura ai temi della contemporaneità sono abbondantemente proposti attraverso il racconto di una storia e le preziose immagini-simbolo che la esaltano vieppiù; e così le riflessioni proposte dai suoi personaggi più sensibili.
Il tema forte dell’identità è qui presente come discrimine tra un suo essere consapevolezza di sé o invece muro contro muro di fronte al diverso, allo sconosciuto.
Lo stesso tema è il lite-motiv conduttore di un altro film visto in una precedente edizione del festival e da qui lanciato al pubblico, IL VENTO FA IL SUO GIRO di Giorgio Diritti.
E ancora RESPIRO di Emanuele Crialese; in questo film tutto si svolge a Lampedusa, l’isola dei tragici sbarchi di Africani, l’isola di una piccola comunità di residenti con tutti i limiti dovuti per motivi geografici alla mancanza di confronti culturali con altre comunità, ma dove si riscontrano respiri di universalità, che toccano aspetti affettivi e di rispetto per la vita di uomini e animali.
I film nominati hanno aperto la strada al grande pubblico a questi registi.
Piccoli importanti film di cui più non esiste memoria
Veramente gradevoli però anche altri film, ma pressoché spariti nel nulla. Tra essi ci sono racconti affascinanti.
Ci sono poi i cosiddetti piccoli film, perfetti, meditati, ricerche profonde nello spirito e nel mondo del lavoro, capaci a volte di scoprire situazioni, personaggi, valori che rischiano di avvicinarsi ad una vita in estinzione. Li rende validi pure un appropriato uso del complesso linguaggio cinematografico, che rende formalmente ed esteticamente attraente anche il piccolo film.
A tale proposito è da ricordare LA PIVELLINA, che nel 2010 vinse il festival, un lavoro espresso in una tenera storia trattata con le connotazioni del documentario. Film realizzato da due coniugi, Tizza Covi e Rainer Frimmel.
Ricordo con molto piacere anche CORPO CELESTE di Alice Rohrwacher, un’indagine intelligentemente condotta tenendola al riparo dall’esprimere un giudizio, per affidare questo compito allo spettatore. Il tutto racchiuso in una storia, che si svolge quotidianamente all’interno delle parrocchie tra le attività religiose e catechistiche proposte ai fedeli, in particolare ai bambini.
La comunità parrocchiale è una delle tante realtà che sorgono nelle periferie delle grandi città – qui siamo nel sud d’Italia – dove l’impegno più o meno efficace e pervaso di sottofondi ambigui, oltre che al parroco è affidato ad una volonterosa signora, che si presta ad organizzare pur con modeste capacità culturali le attività catechistiche e ludiche dei ragazzi.
Sarà un intelligente impiego del linguaggio cinematografico che consentirà alla giovane regista di tenersi apparentemente estranea dalla tentazione di formulare giudizi, che affida piuttosto al montaggio e alla colonna musicale.
Il film non ha un carattere regionalistico; piuttosto l’analisi che viene realizzata può benissimo essere intesa come valida per qualsiasi realtà parrocchiale del nostro Paese. Se ne può ricavare comunque una triste opinione, che cioè la modestia se non la mediocrità nel proporre il messaggio evangelico rischia di portare la Chiesa ad essere in poco tempo solo comunicazione formale e devozionistica fino a scadere a diventare arido oggetto di archeologia.
Cosa dire de L’ESTATE DI GIACOMO, il primo film di Alessandro Comodin, talmente soffice e soffuso d’una dolcezza primitiva nella descrizione del modo, in cui il giovane Giacomo, del tutto sordo, trascorre gli accaldati giorni estivi sulle rive del fiume Tagliamento, assieme all’amica Stefania? Non c’è altro nel film, eppure la grande stampa anche al di là dei confini gli ha dedicato attente e calorose espressioni critiche. Comodin infatti ci fa percepire, tra gli innocenti giochi dei due amici sulle brevi spiaggette create nelle anse del fiume, i sussurri estivi e indolenti della natura, i leggeri profumi della vegetazione e il silenzio complice di pensieri e desideri di chi là in mezzo si rifugia. Stefania e Giacomo giocano, si parlano, si confidano, non alterando però quell’amicizia che da sempre li unisce.
Poco dopo il giovane affronterà con successo un delicato e pericoloso intervento chirurgico per recuperare l’udito.
Lo vedremo riapparire sul greto del fiume, ora in compagnia di Barbara, che guida serenamente il giovane ad un rapporto non più fatto solamente di sereno e spensierato cameratismo, ma anche di quell’affetto grazie al quale si capisce che la vita, a quel punto, ha fatto un balzo in avanti verso valori più impegnativi e responsabili.
Meritevoli di più lunga vita anche i seguenti
Se procediamo nelle osservazioni verso altri film impostati con serietà e anche con brio, ma che, malinconicamente, hanno vissuto la vita breve di una stagione, ci incontriamo con la solarità di Michela Occhipinti in LETTERE DAL DESERTO – ELOGIO DELLA LENTEZZA. E’ un film che a spettatori sensibili lascia un ricordo di tenerezza e di gratitudine: l’indolente procedere del tempo in un ampio deserto indiano è il motivo conduttore della storia, se così essa si può definire; il portalettere, percorrendo tracce di sentieri sabbiosi e soleggiati dall’alba al tramonto, porta negli sparsi casolari le notizie che inviano i parenti lontani.
Neppure questo film, pur essendo risultato vincitore nel 2011, non si è salvato dall’oblio se non per essere stato presentato in altri festival e magari in qualche convegno.
Noi sappiamo però che il cinema è arte contaminata dal fatto che è anche prodotto da vendere. A “comperarlo” dovrebbe essere il pubblico che paga un biglietto per entrare in sala. Quanti biglietti dovrebbero essere venduti per coprire almeno le spese del lavoro dei cineasti? Tanti, davvero tanti ed è per questo, concludendo una sua riflessione, che lo scrittore George Bernard Show afferma: per accontentare un grande pubblico, occorre essere mediocri!
Non è il caso di LA TERRAMADRE, regista Nello La Marca: ad aver nuociuto al film è stata la scarsa attenzione e la mancanza di sensibilità addirittura delle istituzioni territoriali siciliane, che avevano stanziato un contribuito per realizzarlo. Esso è una storia, purtroppo assai comune, di sfruttamento, di angherie e di morte di quegli immigrati che giungono sulle spiagge del sud e delle isole. Certamente possiede imprecisioni narrative, ma il suo racconto è quanto mai efficace nella sua obiettiva faziosità e nella rappresentazione del rapporto tra genitori e figli e tra i neri africani e la piccola comunità di Palma di Montechiaro. Così finisce con solamente qualche rappresentazione in festival locali la vita di un film.
Stessa destino ebbe NUVOLE BASSE D’AGOSTO della giovane Marta Gervasutti, che voleva portare sullo schermo una malinconica storia di adolescenti di periferia con grinta e fede. Fastidiosi toni grezzi e toni acustici rumorosi calavano sull’ ambiente degradato, sulle famiglie inesistenti, sul rischio continuo per una positiva crescita umana dei giovani che si affacciano alla vita. Ma quanta passione e verità c’è dentro a Marta e al suo film, compreso il sogno che Nanni insegue e nel quale coinvolge i coetanei: perdersi nella natura, salire la montagna che tocca il cielo e lì fantasticare sulle forme che il vento fa assumere alle nuvole.
Alessandro Angelini ha avuto più fortuna; nel 2006 ha girato il suo primo film raccontando una storia importante, oltretutto interpretata da attori noti e ben calati nei loro personaggi. Parlo de L’ARIA SALATA, in cui dramma, suspence e analisi sociale si incrociano, dove la psicologia dei personaggi è del tutto credibile, dove una conclusione logica, ma inaspettata lascia sconvolto lo spettatore. Il dramma finale è causato da situazioni assai difficili da sostenere in particolare se manca il sostegno delle istituzioni educative, religiose e politiche, che abbandonano a prevedibili destini ampie fette reiette di società.
La denuncia del regista non è rimasta limitata ad un festival, ma ha almeno acquisito visibilità attraverso le videoteche.
Uguale destino per IO, L’ALTRO di Mohsen Melliti, intellettuale d’origine tunisina con passaporto italiano. Non è mancato come valido sostegno l’interpretazione e la produzione di Raoul Bova, che è uno dei due personaggi protagonisti di una storia emblematica all’inizio assai serena, ma in seguito intorbidita da sospetti e da odi dovuti anche alla faziosa informazione massmediale degli avvenimenti che sconvolgono la società. In questo caso di tratta di una omonimia assai pericolosa, che Giuseppe, pescatore col nordafricano Yousef sulla medesima imbarcazione, pensa che l’amico sia un attentatore delle torri gemelle di New York sfuggito alla giustizia e rifugiatosi in Italia.
Grandi amici erano stati fino a quel momento i due uomini, ma il sospetto si è talmente insinuato nell’animo di Giuseppe, che, ormai convinto dell’attività terroristica di Yousef, in un drammatico alterco finale pone fine drammaticamente alla loro amicizia, proprio pochi attimi prima che la radio di bordo trasmettesse la notizia che il terrorista Yousef era stato catturato ben lontano dal Mediterraneo. Ecco come una maldestra e disinformata notizia televisiva spesso è causa di pregiudizi che lasciano i loro segni negativi anche quando la verità viene a galla.
Nel 2000 Fabio Rosi realizza il suo primo film,che avrebbe potuto aprirgli la strada all’affascinante lavoro di regista. Il film, L’ULTIMA LEZIONE, vince il GallioFilmFestival, narrando con notevoli capacità di raffinata indagine e sapienza culturale la scomparsa nel nulla del noto scienziato Caffè appena congedatosi per motivi di età dall’università romana, in cui insegnava. Era un uomo importante nel campo dell’economia e non mancano dubbi quindi che egli sia stato fatto sparire o dall’Italia o dalla vita per le implicazioni politiche delle sue intuizioni scientifiche. Rosi paventa quindi la possibilità che la sparizione del professore sia un’ulteriore tipico mistero italiano.
Ho ritrovato dopo tempo il film commercializzato in videocassetta e l’ho visto apparire anche in televisione. Credo che non si sia mai affacciato sul grande schermo!
Quale conclusione si può trarre dopo questa pur parziale ricerca all’interno di molte edizioni del GallioFilmFestival?
Si potrebbe dedurre che accanto a buoni e ottimi film troppo spesso dimenticati dalla distribuzione cinematografica, sono emersi registi, attori, sceneggiatori e altri cineasti, che hanno continuato a dare nobiltà all’arte del cinema, senza farsi assorbire dal richiamo delle sirene del facile successo impostato sull’ormai diffusissimo impiego di strabilianti effetti speciali, spesso solo specchio per allodole disabituate al bello della vera creazione artistica, che si dilettano a narrazioni solamente banali e gratuitamente volgari.
Si capisce quindi quanto sia meritevole seppur rischioso per una manifestazione quale il GallioFilmFestival- Cinema Italiano Opere prime ospitare film e cineasti presentati molte volte a scatola chiusa.
Quando questa si apre, non mancano di venire alla luce sorprese anche impensabili, nelle quali è evidente l’impegno artistico, narrativo e umano, pur accanto a prodotti frutto di presunzione e di superficialità o di chiusura dentro a incomunicabili confini regionali.