NELL ANNO DEL SIGNORE
Regia: Luigi Magni
Lettura del film di: Nazareno Taddei sj
Titolo del film: NELL ANNO DEL SIGNORE
Titolo originale: NELL ANNO DEL SIGNORE
Cast: regia, sogg. e scenegg.: Luigi Magni – fotogr.: Silvano Ippoliti – mont.: Ruggero Mastroianni – mus.: Armando Trovajoli – scenogr.: Carlo Egidi – cost.: Lucia Mirisola – interpr.: Nino Manfredi (Cornacchia; Pasquino), Claudia Cardinale (Giuditta Di Castro), Enrico Maria Salerno (Capitano Nardoni), Britt Ekland (la principessa Spada), Robert Hossein (Leonida Montanari), Ugo Tognazzi (il cardinale Rivarola), Alberto Sordi (un frate), Pippo Franco (Bellachioma, lo scrivano), Marco Tulli (la guardia alla statua di Pasquino), Emilio Marchesini (Mastro Titta, il boia), Stefano Oppedisano (il ragazzo ubriaco), Stelvio Rosi (il tenente della guardia a teatro), Renaud Verley (Angelo Targhini) – durata: 105’ – colore – produz.: Bino Cicogna per San Marco Cinematografica, Les Films Corona, Francos Film parigi – origine: ITALIA, 1969 ¬ distrib.: Euro International Film (Arpi Film nel 1982; vhs da Multivision, Nuova Eri, Videopiù Entertainment, L’unità Video)
Sceneggiatura: Luigi Magni
Nazione: ITALIA
Anno: 1969
da Note Schedario, n. 9 del 28 novembre 1969
Nella Roma papale (1825) schizza la ghigliottina sulla testa di due Carbonari. Un'amara lapide esiste ancora in Piazza del Popolo a ricordare quel processo.
Il film narra i precedenti di quel fatto tragico, impostandolo – oltre che sui due – sul cardinale governatore e giudice, sul comandante di polizia, su uno scarparo che regolarmente attacca i suoi fogli satirici al busto di Pasquino, su una ebrea che in qualche modo rappresenta l'amore oppresso dalla politica (non c'è "còre" in chi comanda a quel modo) e su un ingenuo fraticello che si ostina a voler "convertire" i due condannati.
Sullo sfondo, un popolo che non ha ancora la coscienza della libertà, ma che almeno "s'è svegliato" nel chiedere lo "spettacolo" della decapitazione.
È dunque un film che – almeno sulla carta – era giunto a connettere i complessi elementi di una tristissima realtà storica, che la Chiesa di Roma - soprattutto con gli ultimi Papi e col Concilio - non ha paura di ricordare e sconfessare. Il potere politico della Chiesa a stento poteva mascherare sotto vesti pietistiche (p.e. la condanna non si eseguiva fino a quando i condannati non si fossero "convertiti"; ma questa volta prevale il "desiderio del popolo" e il cardinale, dopo aver rifiutato di graziare o di attendere l'esecuzione, se ne va tranquillamente a celebrare la Messa; la preghiera per i condannati ecc.) l'enorme assurdità umana e cristiana. E se il fraticello si oppone in certo senso al cardinale, anche in lui c'è il fondo mentale formalistico che permetteva quell'assurdità. Il punto, infatti, è qui: è chiaro che un potere politico ha certe esigenze anche drammatiche, ma non è affatto chiaro che la comunità dei figli dell'Amore, come corpo sociale e giuridico, possa accettare di essere tale un potere che obbliga a ignorare le fondamentali leggi dell'umanità o, quanto meno, possa accettare di esercitare a quel modo quel certo potere e, per di più, cerchi di mascherare di pietà e di servizio di Dio (cfr. dialogo cardinale e frate) ciò che è oppressione.
Il film sullo schermo, invece, mostra la sua debolezza. La preoccupazione di fare spettacolo prevale sull'approfondimento del tema. Ma il tono ridanciano che accompagna anche i momenti più drammatici non è quello che particolarmente nuoce. È, penso, la sommarietà del taglio narrativo, la ricerca più formale che espressiva della fotografia e, in buona parte, la recitazione. Del notevole cast di attori, Tognazzi è quello che più convince nelle vesti del cardinale, eppure anche in lui c'è come una patina che ti impedisce di toccare la sostanza. Dall'altro lato, Sordi non riesce a far emergere l'ingenua purezza del fraticello di sotto la crosta di un cerone comico troppo smaccato (si confronti, p.e., col fraticello di "Le notti di Cabiria": un abisso). La stessa figura della Cardinale, sempre bravina, rimane come indefinita nella sua validità umana e morale. Per fare vitali opere così impegnative ci vuole una mano che sprizzi forza e che qui forse s'è accontentata di scalfire anziché scolpire.
Non ho mai visto a Roma tanta gente a un film: grappoli addirittura, sciami di spettatori a ogni spettacolo. E, dopo il film, moltissimi passavano a vedere e leggere la lapide nella vicina Piazza del Popolo, quasi ad assicurarsi che ci fosse veramente, per poter credere a quello che avevano visto in sala.
Quella lapide chiude il film in una Piazza del Popolo, con le automobili posteggiate, immediatamente dopo il dettaglio degli occhi della ragazza ebrea, che ha visto cadere le teste dei suoi uomini: indice evidente d'un riferimento alla realtà attuale.
Quella massa che accorre così straordinariamente numerosa al film è segno che un riferimento viene colto. Le stesse risate a precisi punti e battute sono quanto mai eloquenti. Non è solo il cast che attira; tanto meno la sola storia - un po’ pesantina, per la verità, nonostante i momenti e il clima - spiega il successo.
Troppo presto per fare uno studio di carattere psico-sociologico su tale successo: bisognerà avere le statistiche di varie regioni e su un certo arco di tempo di esercizio del film. Tuttavia, penso non si sia molto lontani dal vero, se si pensa alle constatazioni di mercato (sotto quel profilo) che siamo venuti facendo in questi mesi (cfr. p.e. "Note Schedario" n. 6 pagg. 2-7; n. 8 al film "Il Commissario Pepe"): certamente questo successo è sintomo d'una ancor larvata – e purtroppo ancor impacciata – presa di coscienza della gente di fronte ai sistemi oppressivi e insofferenza per le cortine fumogene, che i vari poteri cercano di gettare tra i propri misteriosi affari e il popolo.
Per questa ragione condannare questo film significherebbe non aver capito che la Chiesa da difendere non è quella delle prigioni o delle condanne, bensì quella della Ultima Cena; è un mettersi dalla parte del cardinale del film e quindi contro la vera Chiesa; è un non arrivare nemmeno alla patetica ingenuità del fraticello. Significherebbe ancora paurosa insensibilità pastorale per un mondo che sta cercando – anche se in forme talvolta inaccettabili – la pulizia e la verità, come il pesce cerca l'acqua e il fiore il sole.
Peccato che il film sia artisticamente troppo poco vigoroso, per sollecitare un discorso più preciso: ma il pubblico che lo va a vedere è una realtà concreta e significativa assai. Non è moralmente lecito ignorarla. (NAT)