CESARE DEVE MORIRE
Regia: Paolo e Vittorio Taviani
Lettura del film di: Adelio Cola
Titolo del film: CESARE DEVE MORIRE
Titolo originale: CESARE DEVE MORIRE
Cast: regia, sogg.: Paolo e Vittorio Taviani – liberamente ispirato al «Giulio Cesare» di William Shakespeare – scenegg.: Paolo e Vittorio Taviani con la collaborazione di Fabio Cavalli (regia delle scene teatrali) – fotogr.: Simone Zampagni – mus.: Giuliano Taviani, Carmelo Travia – mont.: Roberto Perpignani – suono: Benito Alchimede, Brando Mosca – interpr. princ.: Cosimo Rega (Cassio), Salvatore Striano (Bruto), Giovanni Arcuri (Cesare), Antonio Frasca (Marcantonio), Juan Dario Bonetti (Decio), Vittorio Parrella (Casca), Rosario Majorana (Metello), Vincenzo Gallo (Lucio), Francesco De Masi (II) (Trebonio), Gennaro Solito (Cinna), Francesco Carusone (Indovino), Fabio Rizzuto (Stratone), Maurilio Giaffreda (Ottavio), Pasquale Crapetti (Legionario), Fabio Cavalli (regista teatrale) – durata: 76’ – colore – produz.: Grazia Volpi per Kaos Cinematografica, in associazione con Stemal Entertainment, Le Talee, Associazione Culturale La Ribalta, in collaborazione con Rai Cinema – origine: ITALIA, 2011 – distrib.: Sacher Distribuzione (2.3.2012)
Sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani con la collaborazione di Fabio Cavalli (regia delle scene teatrali)
Nazione: ITALIA
Anno: 2011
Premi: - ORSO D'ORO e premio della giuria ecumenica al 62. Festival di berlino (2012). - DAVID DI DONATELLO 2012 per: miglior film, regia, produzione, montaggio e fonico di presa diretta. Era candidato anche per: miglior sceneggiatura, fotografia e musica.
Chiavi tematiche: v. anche LETTURA di Franco Sestini in Edav n. 400/2012
Realizzato con il contributo e il patrocinio del MIBAC Direzione Generale per il Cinema, con il sostegno della Regione Lazio-fondo regionale per il cinema e l'audiovisivo e dell'assessorato alle politiche culturali e centro storico di Roma Capitale.
È LA STORIA DI UN GRUPPO DI DETENUTI DI REBIBBIA, che allestiscono per il pubblico uno spettacolo teatrale tratto con libertà dalla tragedia ‘Giulio Cesare’ di Shakespeare.
Il film adotta l’abusato cliché ad inclusione. Vediamo all’inizio, e lo rivedremo alla fine, l’interprete del suicida Bruto, che, aiutato a rialzarsi dall’interprete di Cesare, all’omicidio del quale egli aveva congiurato, si risolleva dalle tavole del palcoscenico e, arrivato al boccascena circondato da tutti i partecipanti del grippo teatrale, s’inchina al pubblico in sala, che applaude. Tutto il film è girato in B/N, eccetto l’episodio finale, che termina ripetendo la breve sequenza iniziale (che nel caso corrisponde alle prove sotto la direzione d’un detenuto che fa da regista), realizzata a colori con il rosso sangue dominante.
Sono tre le parti, o se vogliamo gli atti dello spettacolo cinematografico: al breve prologo dei provini per la scelta dei ruoli da affidare ai personaggi (ho detto ‘ai personaggi’, non agli interpreti!...), che sono invitati a parlare ognuno nel proprio dialetto d’origine (sono tutti meridionali; il cast di coda riferirà anche i nomi dei figuranti e delle comparse). Segue la PRIMA PARTE che registra le prove della tragedia. I detenuti non recitano e non si possono definire interpreti. Si esprimono con spontaneità e naturalezza. Quando gridano “A morte il tiranno ambizioso” e si sgolano invocando in coro “Libertà“, lo fanno con una convinzione che raramente si può riscontare in artisti sul palcoscenico e sul set cinematografico. Vestono gli abiti quotidiani; soltanto alla fine aggiungeranno all’abbigliamento qualche straccio rosso o bianco per dire che siamo nella Roma di Cesare. Questi ultimi si presentano di solito agli spettatori teatrali e cinematografici interpretati da professionisti solennemente ingessati dalla scuola accademica. Qui le guardie carcerarie vigilano e li lasciano fare, incuranti di canoni teatrali. Quando durante le prove l’orario dei detenuti scatta e comanda la fine di quel loro strano gioco, non si transige: “È ora, andiamo!”. Non importa se interrompono le tragiche battute dei ‘personaggi’ carcerati. Gli snodi dello spettacolo allestito sono accompagnati da un efficace motivo musicale tra il lamentoso e il rassegnato, che commenta i fatti. La scena che colpisce maggiormente lo spettatore è quella nella quale i singoli detenuti, subito dopo aver ricevuti gli applausi del pubblico, vengono scortati a fine spettacolo dai custodi armati alle rispettive celle. Pesanti porte di ferro sono sbarrate dietro di loro e rumorose grosse chiavi fanno scattare le serrature alle spalle. Le quattro mura bianche che limitano lo spazio personale isolano i reclusi dal mondo come ‘animali pericolosi’. Uno si guarda attorno nella ‘gabbia’ e scandisce una frase misteriosa: “Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione!” A Rebibbia ha fatto la scoperta dell’unica libertà che nessuno può imprigionare: la fantasia, l’arte.
Per non interrompere il flusso delle immagine sullo schermo, non ho voluto indicare l’inizio della SECONDA PARTE del film, che comprende, come si è intuito, lo spettacolo dei detenuti davanti al pubblico. LA TERZA PARTE si presenta come epilogo di natura, a suo modo, catartica. Era necessario conoscere la reazione di Bruto dopo l’uccisione del suo “amico-nemico”. Egli l’ha eliminato “perché l’amava ma più di lui amava e ama Roma...per la quale è disposto a dare la propria vita“.. Non sopportava la sua “ambizione”. Egli, “uomo d’onore”, come lo riconosce Antonio nel discorso funebre del morto, non poteva che agire in quel modo.
Segue la rievocazione della battaglia di Filippi, svoltasi tra l’esercito dei congiurati e quello di Antonio, conclusa con il suicidio di Bruto. Aveva chiesto agli amici di finirlo trafiggendolo con la sua stessa spada, e al loro rifiuto provvede personalmente a farsi giustizia. La presentazione carceraria della tragedia Sakespeariana ha meritato gli applausi e, secondo la consuetudine teatrale, il personaggio principale offre la mano al secondo per importanza e lo aiuta a rialzarsi inchinandosi al pubblico in sala. Non è senza significato il fatto che sia proprio il detenuto Cesare (quello che era il potere assoluto) a far ‘resuscitare il collega’ Bruto (il suddito).
La direzione dei due celebri fratelli registi quasi non si avverte, tanto naturale è la performance dei carcerati. Essi hanno saputo scegliere e dirigere con consumata maestria l’originale prestazione dei ‘personaggi’. Gli inattesi inserimenti di parole estranee al testo classico e di sapide battutine di commento aggiungono simpatia alla parlata meridionale, lontanissima da inflessioni professionali, come pure da ingombrante linguaggio del corpo e da convenzionale mimica teatrale.
Lo spirito del film viene dal profondo anelito alla libertà che anima i detenuti. L’antipatia, che di solito si attirano da parte degli spettatori i personaggi negativi negli spettacoli cinematografici, e la conseguente ‘brutta figura’ che essi fanno, nel nostro caso è suscitata dai figuranti destinati alla custodia degli ‘ospiti’ di Rebibbia. Autentici o ‘finti’ tali, vigilano attenti e sospettosi, ingombrano lo schermo con le loro nere divise, si fanno obbedire dai carcerati senza rivolgere loro neppure una parola. Di questi ultimi è fatta conoscere la condanna: “Sei anni, otto anni, condanna senza fine”.
Il film ‘colpisce’, fa riflettere, fa apprezzare la libertà che lo spettatore gode e della quale spesso usufruisce con scarsa considerazione.
Ho chiesto a una persona che lavora in carcere:- È proprio così là dentro nei giorni ordinari?- “Peggio!” mi ha risposto.
-Ma non c’è mai un poco di libertà, magari controllata?-
A questo punto ricordo due flash bach del film. In realtà (realtà, per modo di dire!) sono due sogni, unici momenti a colori della prima parte, in cui un detenuto rivede il suo bel mare, il suo bel monte, la sua bella isola. Ricordi nostalgici d’un tempo felice. L’unica libertà là dentro e nella fantasia, nel sogno e, per chi l’apprezza, nell’arte. L’anonimo detenuto che, dopo gli applausi anonimi tributati dal pubblico, rientra in cella e si prepara con calma il caffè riempiendo la moka, è esempio delle dimensioni dello spazio di libertà concesse a chi, come lui, ha commosso gli spettatori del film.
Lo spettacolo arriva al pubblico fin dalla prima parte, dove tutto sembra succedere in modo spontaneo e naturale nelle stanze comuni e nei corridoi del carcere. Aumenta d’intensità nella seconda, quando la storia si svolge sul palcoscenico inondato dalla luce rossosangue dei fari del palco lampade. Le inquadrature imprigionano i personaggi tra porte di ferro e arrugginite inferriate di finestre che lasciano scorgere il cielo a scacchi. Lo spazio documenta l’affannoso andare e venire di carcerati da una cella all’altra. Assistiamo a rapide scene viste dall’alto di gabbie di detenzione, dalle quali escono sterili appelli alla libertà. Le originali localizzazioni delle riprese testimoniano efficacemente la doppia terribile realtà: la congiura contro “Cesare (che) deve morire” e quella dei finti ‘personaggi’ che la rievocano. Quando nel vuoto cortile arriva Antonio a tessere l’elogio del morto, che giace ai suoi piedi, rivolgendosi ai ‘Romani’ che assistono al discorso dal di là delle ferrate finestre, lo spettacolo perde incisività. Il ‘coro’ reagisce con grida di approvazione e di giubilo alla notizia dell’esecuzione e infine applaude all’oratore. È la circostanza nella quale entra con prepotenza la fiction: il film recupera, purtroppo! moduli accademici, sobri e controllati per la verità, ma di maniera.
Tra gli altri ‘personaggi’ appare bravissimo il congiurato Bruto, anche se talvolta anch’egli cede a tentazioni accademiche. Il suo entusiasmo nell’animare l’impresa contagia i congiurati, che ne condividono l’audacia.
La regia sfrutta sapientemente le rughe dei volti e le ombre prodotte dai detenuti sui nudi muri biancocalce del carcere, mentre la colonna sonora accompagna e commenta le tragiche vicende, che terminano con il rientro in cella dei ‘personaggi’.
Lo spettatore del film non si chiede se essi siano innocenti o colpevoli di detenzione. Ammira la loro spontanea ‘sincerità’ e apprezza più di prima la libertà personale di cui gode.
Il grido (quasi) disperato alla LIBERTÁ perduta è l’idea centrale del film. (Adelio Cola 19-4-2012)