BANDITI A MILANO
Regia: Carlo Lizzani
Lettura del film di: MAN, Aldo Bernardini
Titolo del film: BANDITI A MILANO
Titolo originale: BANDITI A MILANO
Cast: regia: Carlo Lizzani aiuto regia: Giorgio Gentili sogg.: Carlo Lizzani scenegg.: Dino Maiuri, Massimo De Rita, Carlo Lizzani fotogr.: (Technicolor, Techniscope) Giuseppe Ruzzolini assistente operatore: Luigi Bernardini operatore alla macchina: Otello Spila effetti speciali: Renato Ricci, Andrea Cappelli scenogr. cost.:. Franco Gambarana, Sebastiano Soldati arredamento: Mimmo Scavia fotogr. di scena: Alfonso Avincola segretaria di edizione: Lina D'Amico mont.: Franco Fraticelli assistente al mont.: Adriana Benedetti - mus. Riz Ortolani interpr. princ.: Gian Maria Volontι (Piero Cavallero), Don Backy (Sante), Raymond Lovelock (Duccio), Ezio Sancrotti (Adriano), Tomas Milian (commissario Basevi), Piero Mazzarella (l'invalido), Laura Solari (madre di Duccio), Peter Martell (il protettore del racket dei biliardini), Carla Gravina (signora di Lugano), Margaret Lee (Sorry, la mondana arsa viva), Luigi Rossetti (l'ex-malvivente), M. Rosa Schuzero, Ida Meda, Turi Ferro, Ivan Giovanni Scratuglia, Gianni Bortolotto, Gianni Pulone, Enzo Fischella, Aldo Vigorelli origine: ITALIA, 1968 durata: 102', 2800 m. - organizzatore generale: Nino E. Krisman ispettore di prod.: Sergio Mazzantini segretari di prod.: Marcello Lizzani, Armando Zappi - Prod.: Dino De Laurentiis per la Dino De Laurentiis Cinematografica S. p. A. distr.: Paramount
Sceneggiatura: Dino Maiuri, Massimo De Rita, Carlo Lizzani
Nazione: ITALIA
Anno: 1968
Chiavi tematiche: Carlo Lizzani nato a Roma il 3 aprile 1922 e morto a Roma il 5 ottobre 2013 a volte noto anche come Lee W. Beaver
Da Schedario Cinematografico, 1968, alla voce redatta da MAN
È LA STORIA DI un caso di malvivenza — scaturito dalle malsane strutture sociali di una civiltà industriale corrotta e disuguale (Italia del Nord) -, il quale si accentra intorno ai fatti della banda Cavallero, dalla sua formazione fino - attraverso alcune tappe della sua losca attività — alla tragica sparatoria di largo Zandonai a Milano (dopo una rapina in banca) e al definitivo arresto dei banditi - reso possibile dall'azione imponente, tempestiva ed efficace delle forze dell'ordine, guidate dalla illuminata direzione di un commissario e sospinte da una spontanea abnegazione - tra le urla della folla incitante al linciaggio.
GIUDIZIO UFFICIALE CATTOLICO (C.C.C., Italia): «Il film di alto contenuto civile è una dichiarata denuncia del vizio e della violenza e anche un invito alla collettività e al cittadino di resistere e reagire. Il realismo della vicenda e talune situazioni descritte piuttosto crudamente, anche se in modo contenuto, inducono a riservare la visione ad un pubblico di adulti maturi.»
GIUDIZI DELLA CRITICA: ASPETTO CINEMATOGRAFICO E ARTISTICO
In genere la critica ha salutato con particolare ed incondizionato entusiasmo il film per le sue notevoli qualità spettacolari; non mancano tuttavia giudizi più cauti, che riducono alle giuste proporzioni la portata di un'opera che non va molto al di là degli elementi suggestivi scaturiti dalla elaborata capacità tecnico-espressiva dell'autore.
«(...) L'accento stregato di certe ore milanesi è reso dalla fotografia a colori come meglio non si potrebbe.» (PIETRO BIANCHI in «Il Giorno», 12-4-68)
«(...) La tecnica realizzativa è di prima mano, la tensione è scandita con forza e lo spettatore non è distratto neppure dal fatto di conoscere perfettamente ogni scatto della vicenda. Le scene delle rapine sono eccellenti e di molta efficacia l'inseguimento per le vie di Milano. (...) » (E.R. in «Gazzetta del Popolo», 5-4-68)
«Carlo Lizzani ha tenuto questo suo BANDITI A MILANO tra il cinema verità e il film inchiesta, concedendo assai poco alla fantasia, mantenendosi rigorosamente fedele alla realtà. (...) Il film è il risultato di un attento, metodico, scrupoloso lavoro di indagine e ricostruzione del regista (...). BANDITI A MILANO ha delle sequenze d'una carica ossessiva e quasi sempre conserva questo suo ritmo eccitato. Anche nella descrizione dei protagonisti Carlo Lizzani ha confermato quelle qualità d'indagatore tagliente, che anche in altri suoi film ha rivelato, per cui egli riesce a scavare dentro al suo personaggio e a metterne a nudo tutto ciò che (... ) nasconde. (... ) BANDITI A MILANO si può dire che è un film eccellente per ritmo, montaggio, carica, e per l'impegno e la serietà con cui quei tragici fatti sono stati ricostruiti. Di più non si può dire.» (V.R. in «Il Mattino», 12-4-68)
«(...) Si tratta non solo del suo [di Lizzani] film più impegnato e impegnativo, ma anche di una delle opere più importanti prodotte dal cinema italiano negli ultimi tempi. Un'opera, addirittura, che fa concorrenza, e in più punti supera largamente, i celebrati modelli di film-gangster d'oltreatlantico, quelli in cui l'emozione e la suspense raggiungono, nella serrata concatenazione del ritmo, un alto grado di emotività e, in definitiva, un autentico livello d'arte. (...). Per almeno venti minuti lo spettatore rimane col cuore in gola a osservare l'infernale girandola della millecento blu dei banditi (...). Qui si raggiunge il massimo del ritmo dinamico e visivo e all'operatore Ruzzolini, oltre che a Lizzani, va il merito di aver portato a termine con pieno successo una delle più straordinarie scene mostrate con potente suggestione da un'opera cinematografica: la quale, tuttavia, ha un ritmo generale di compatta e risoluta vigoria estetica, che giunge al risultato senza fronzoli e pure con un attento ricamo nei dettagli e nel sottofondo, creando un clima di tensione anche mediante una serie di acuti risvolti psicologici. (...) Un bel film, dunque, BANDITI A MILANO, che batte il cinema americano sul suo stesso terreno ma è, al tempo stesso, un'opera che rinnova i fasti dei neorealismo con cui Lizzani ha esordito sedici anni fa (...).» (ANGELO S0LMI in «Oggi», 25-4-68, pp. 123-125)
« (...) Il film è fedelissimo alla cronaca (...) e (...) dalla cronaca saputa intelligentemente ricreare con lo stesso affanno e disordine con cui si formò, toglie un suo mai allentato vigore. Il primo merito di Lizzani è di aver organizzato il suo film forse più avvincente intorno a una materia a tutti quanti ben nota. Ma questa materia egli l'ha tenuta a debita distanza, difendendo il suo decoro di osservatore e studioso del costume. Per questo c'è tanta aria in BANDITI A MILANO quanta viceversa ne manca nel vischioso e a bella posta "alienato" A SANGUE FREDDO di Capote e Brooks. Il suo limite è se mai di essere un film di troppa salute, lucidamente estrinseco, senza impennate liriche (che del resto non sono mai state il forte di Lizzani). Sotto il rispetto figurativo e più ancora del ritmo, non offre un attimo di distensione, non che di stanchezza; sul grande schermo a colori lo spettacolo incalza esso stesso rapinoso, pur fra delicate trasparenze di paesaggio piemontese e lombardo (...). Il risalto preso da Volonté non è a scapito degli altri interpreti, tutti egregiamente guidati (...). » (Leo PESTELLI in «La Stampa», 5-4-68).
« (...) In tutto il film (...) lo spettacolo è largo e concreto. La fotografia di Ruzzolini, che lascia accenti dominanti ai grigi e ai blu, ritrova nelle vie di Milano una atmosfera sottilmente inquieta. Sullo schermo grande, l'obiettivo spazia in vasti e rapidi movimenti, e altrettanto pronto e stringente è il montaggio: requisiti che, particolarmente pregevoli nel virtuosismo delle sequenze che rievocano la allucinante corsa nelle vie di Milano, sono presenti nell'intero racconto e gli danno vivacità. (...)» (MARCELLO CLEMENTE in «Bianco e Nero», 1968, 5/6, p. 130)
«(...) Impiegando un metro come sempre attento e acuto, lucido e serrato, incalzante e avvincente, Lizzani ha sbalzato con icastiche immagini sia la drammatica cronaca e sia le figure umane, impiegando un dovizioso e intelligente corredo di tratti caratterizzanti e componendo un lavoro non solo equilibrato, interessante e appassionante sul piano spettacolare, ma anche civilmente impegnato e commosso. (...)» (P. VIRG[INTINO] in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 12-4-68)
«(...) La cornice, (...) piemontese e lombarda, è evocata con documentaria nitidezza: a volte con le cadenze del cinema-verità, sempre in una cifra realistica che immerge direttamente lo spettatore nel cuore dell'azione (...). Anche il colore, qui, concorre ad aumentare le sensazioni di realtà immediata. Tutto è a colori, ma niente è "colorato", le tinte sono spente, sfumate, pastello, come i colori celebri delle campagne nordiche quando c'è nebbia o piovasco; predominano i grigi, il nero, il verdastro si che, tutto sommato, il film non sembra neanche a colori (...). Un film di sicuro valore (...), una pagina di cinema ineccepibile, uno spettacolo di fortissima presa sullo spettatore. Sostenuti da una recitazione rigidamente conseguente con il realismo di tutto il contesto. Da ricordare soprattutto Gian Maria Volonté che, nei panni del capobanda, intenzionalmente sfigurato da un trucco che quasi lo deforma, è giunto a dar vita con efficacia a un carattere contradditorio e complesso, sottile e ad un tempo plateale, e Tomas Milian che ha vestito di colorita umanità il personaggio del commissario napoletano (...). Da lodare ancora le cadenze dialettali, milanesi e torinesi, che infiorano i dialoghi di tutti gli interpreti. Una messa a punto linguistica che rinforza l'autenticità dei personaggi.» (GIAN LUIGI RONDI in «Il Tempo», 31-3-68)
«(...) Raramente, almeno nel nostro cinema recente, il vernacolo è stato adottato con altrettanta funzionalità (...). Nel ricostruire dall'interno questo complesso io criminale, Lizzani mostra doti introspettive e abilità almeno pari a quella con cui gira le sequenze della "città nuda" con i rapidi flashes sulle sue vittime che escono di casa per l'ultima volta. (...) La caccia ai gangsters è tra le cose più ardite di Lizzani. Si rasenta il miracolismo della "cinquecento" che ribalta, della "ottocentocinquanta" acrobaticamente speronata, di Piazza Velasques percorsa a folle velocità tra il pubblico che guarda perplesso. Nella azione a organetto incrociato il regista sapientemente alterna alcuni "cinémi" di chiaro impasto spettacolare, che comunque snelliscono o aizzano la tensione (...).» (GREGORIO NAPOLI in «Film Mese», 1968, p. 36)
«(...) Dove (...) la mano del regista si ritiene sia stata indispensabile per dare al film un indirizzo del tutto particolare, è nella guida degli interpreti, nel predisporti secondo un preciso disegno, nel rendere, in definitiva, "corale" l'azione, al punto da dover dire che BANDITI A MILANO è un film in cui maggiore interprete è la Milano del miracolo economico. Nell'analisi dei mezzi espressivi, regia, ripresa visiva, montaggio, recitazione ecc. chiunque può riscontrare un certo equilibrio, una certa fusione delle singole parti. Ma non dobbiamo nemmeno dimenticare che la recitazione, specialmente quella di Gian Maria Volonté e del Commissario (Thomas Miliari) segue scrupolosamente l'indirizzo impresso a tutto il film: la genuinità degli atteggiamenti, e la precisazione dei tratti psicologici. (...)» (FRANCESCO DORIGO in «Cineforum», 1968, 75, p. 354)
« (...) Sotto il profilo documentario, BANDITI A MILANO è assai ben fatto: girato alla brava, montato con destrezza; il colore ha un tono freddo, oggettivo, in armonia con l'atteggiamento morale dell'autore, lo schermo largo è particolarmente funzionale, per le sequenze della "caccia", gli ambienti sono riprodotti con esattezza. E le facce degli attori (...) sono pertinenti. Gian Maria Volonté, che è Cavallero, supera del resto i confini di un ritratto giornalistico, per tentare un primo approfondimento del personaggio, soprattutto nella sua sorridente megalomania, nelle sue ambizioni intellettuali, nella sua smania di emergere. (...)» (AG. SA[VIOLI] in «L'Unità», 31-3-68)
« (...) Tutti gli elementi (...) sono stati fusi insieme da Carlo Lizzani in una pellicola rapida e scattante ben "girata" e ben montata, in cui spettacolo ed interrogativi problematici vanno efficacemente a braccetto, pur con qualche ambiguità, e in cui le componenti moralistiche e psicanalitiche, che nelle pellicole hollywoodiane s'accompagnano all'esame delle psicologie delinquenziali, sono state evitate, anche se, d'altra parte, un vero e proprio approfondimento della situazione italiana non c'è, ché forse avrebbe portato il discorso più lontano da quel che la pellicola si era prefisso. (...)» (ALDO SCAGNETTI in «Paese Sera», 31-3-68)
«(...) Cavallero e i suoi complici sono alla fine soltanto delle macchiette o poco più: quasi come l'improbabile figura dell'imberbe commissario, interpretato con un piglio forse volutamente ironico (l'imitazione grottesca di certi film americani) da T. Milian. Un'occasione mancata (...) per Lizzani (...); anche se il film è certo un'ulteriore prova del suo smaliziato mestiere, della sua capacità di drammatizzare i fatti della cronaca in funzione di uno spettacolo avvincente e impressionante. (...)» (BER[NARDINI] in «Note Schedario», 1968, 1, p. 6)
«Man mano che acquista un invidiabile mestiere, una padronanza artigianale del mezzo e del racconto cinematografici, Lizzani si allontana dalle rive delle sue prime prove nel cinema italiano. Imbracato nei processi mistificatori dell'industria, continua a invocare lumi della cronaca e a commentarla fingendo un distacco oggettivo che in realtà non gli impedisce di veleggiare fra equivoci grossi come case. (...) La formula (...) è (...): vaghi appunti di sociologia spiegata al popolo, spigliatezza espositiva all'americana, scarso rilievo alle psicologie sacrificate per dare spazio all'azione, spettacolarità del tutto. Dominano i canoni dell'intrattenimento, ma sotto la pelle del prodotto di consumo cova la più scoraggiante incapacità di riscatto. (...)» (F. V[IANI] in «Cinema 60», 1968, 69, p. 74)
GIUDIZI DELLA CRITICA: ASPETTO CONTENUTISTICO E TEMATICO
Salvo pochi e sommari giudizi favorevoli, la critica in generale ha giustamente rilevato nel film le ambiguità di fondo e l'assenza di quell'approfondimento psicologico e sociologico che la materia richiedeva e che, in definitiva, lo stesso autore si era prefisso nella parte iniziale del film.
«(...) Lizzani, per prima cosa, ha voluto dirci perché fatti simili possono accadere oggi; ha, cioè, aperto il film con una inchiesta preliminare sulla malavita e su quei fenomeni delinquenziali che rischiano di far somigliare alcune nostre città del nord alla Chicago degli Anni Trenta. (...) Lizzani, pur volendosi riservare solo la parte del cronista, si è sentito vicino, con animo sincero, alle vittime dei banditi e, pur nel fragore di tante violente esplosioni, ha trovato il tempo di narrarci la loro morte con sospesa pietà; trovando anche il tempo e il modo di essere vicino ai banditi, non per compiangerli, non per scusarli, ma per capirne la personalità, le aberrazioni, i terrori; nel chiuso dei loro animi molto più che nel furore tutto esterno delle loro gesta. (...)» (GIAN LUIGI RONDI in «Il Tempo», 31-3-68)
«(...) BANDITI A MILANO da una parte è la rappresentazione suggestiva e fedele dei fatti cronistici e dall'altra esplora acutamente lo sfondo umano e sociologico dell'impresa criminale. (...) Oltre la nuda congerie delle azioni delittuose, Lizzani ha saputo vedere le cause seconde, che non giustificano il delitto ma ne spiegano le componenti psicologico-ambientali. Il regista, insomma, ci fa vedere in trasparenza lo scompenso, il trauma provocato in anime orgogliose e infantili dal decollo forse troppo rapido dell'industrialismo in un paese di civiltà contadina e piccolo borghese, con rari spazi di capitalismo moderno. Si capisce che si tratta di un semplice caso; ma il lontano maestro ideologico del protagonista è proprio quel Nietzsche, babbo di Zarathustra, che a Torino palesò i primi segni della follia che infine ne fiaccò il singolarissimo ingegno. (...)» (PIETRO BIANCHI in «Il Giorno», 12-4-68)
«(...) Può essere matematicamente certo che l'opera di Lizzani non si è limitata ad eseguire un forcing col tempo; non si è limitata a metter su uno spettacolo, solo perché l'avvenimento che lo ispira è recente ed ancora vivo nella mente del pubblico. Si può affermare, invece, che il regista ha preso lo spunto, il pretesto, per dire qualcosa di suo su questa nostra società. Cioè per interpretare a suo modo la società, riferendosi a fenomeni realmente accaduti e tuttora presenti e non del tutto eliminati. (...) BANDITI A MILANO (...) intende partire da un fatto di cronaca per investire con alcune proposizioni la nostra civiltà. Per dimostrare come una società tesa sempre più al benessere, sia anche propensa a mettere in primo piano la conquista del potere derivante necessariamente dal possesso di certi strumenti indispensabili all'esercizio del potere stesso. (...)» (FRANCESCO DORIGO in «Cineforum», 1968, 75, pp. 354-355)
«(...) Il regista riesce a rendere col tono giusto la psicologia di questi criminali, le loro incertezze, le loro debolezze accanto alla loro crudeltà unita a qualche ingenuità e perfino a qualche vago sentimento di umanità. Lo stesso capo inesorabile che ha diretto la sparatoria sui passanti ha un momento diciamo così sentimentale quando con la polizia alle costole che lo stringe da tutte le parti e vedendosi ormai irrimediabilmente condannato, all'idea che la moglie e la madre possano soffrire sapendolo arrestato pensa di andare ad ucciderle per evitargli questo dolore uccidendosi poi anche lui stesso. (...) » (ERCOLE PATTI in «Tempo», 30-5-68, p. 62)
«(...) Se Lizzani si è messo su una piattaforma reale, concreta, di storia viva, altrettanto bisogna riconoscere che al racconto, a nostro parere, manca il retroscena sociale, non si intravvedono le "partenze sbagliate" dei banditi e insufficiente è il riferimento alla loro distorta mentalità (solo Cavallero indica più scopertamente le caratteristiche di una assurda condizione umana). Appunto crediamo di cogliere nel film un ritratto essenzialmente esterno, con scarse implicazioni sia sociali sia psicologiche. (...)» (E. R. in «Gazzetta del Popolo», 5-4-68)
«(...) Il regista introduce la vicenda illustrando, piuttosto efficacemente, alcune ipotesi su un mutamento qualitativo che si sarebbe verificato nell'organizzazione della delinquenza, in questi anni, nel Nord industrializzato (...). Lizzani riduce al minimo le motivazioni psicologiche (...) e, una volta esaurito il "prologo ", non insiste nemmeno sulle radici sociali del fenomeno: lo mostra in atto, nel suo violento, improvviso manifestarsi. Non giudica, si limita a testimoniare, ed anche la umana pietà per le vittime della sparatoria viene ripulita di ogni alone retorico. In sostanza, egli riserva al pubblico il diritto e il dovere di farsi una opinione; può essere un gesto di fiducia, questo, ma non vi manca una componente di ambiguità. Così ad esempio, da un canto ci si spiega davanti il formidabile apparato della PS (e dei carabinieri), tecnicamente aggiornatissimo; dall'altro, ci si insinua il dubbio (per chi lo sappia cogliere) che poi, al momento decisivo, tutto succeda secondo la "maniera italiana ", arruffata e perigliosa... (...)» (AG. SA[VIOLI] in «L'Unità», 31-3-68)
«Falso film inchiesta che si traduce in irritante apologia delle forze dell'ordine e sfocia nel quadro rosato di una Milano modesta, laboriosa e col cuore in mano. (...)» («Cinema Nuovo», 1968, 194, p. 301)
«(...) Quasi per caso l'autore entra nell'argomento della strage di via Zandonai, e parte dell' "interrogativo angoscioso": la popolazione quasi minacciò un linciaggio. Perché? Ecco, ci siam detti: adesso ci fa vedere qualcosa. L'interrogativo prometteva assai: che so, forse una radiografia della strage in una data precisa della vita italiana (...). Niente di ciò nel film di Lizzani, il cui modo narrativo "alla giornalista" pare piuttosto un bel pretesto per correre via alla superficie dei fatti. Ed ecco gli "spaccati" frettolosi sulla vita privata dei banditi, la parentesi commossa sulle vittime innocenti, le immagini equivalenti alla frase del cronista sulla brillante operazione di polizia" (...).» (GIUSEPPE VANNUCCHI in «Rivista del Cinematografo», 1968, 6/7, p. 402)
«Il film conferma l'impegno civile del cinema di Lizzani, la sua attitudine a cogliere e a interpretare i dati della cronaca italiana in funzione di analisi sociologiche e di costume di notevole interesse. Rispetto a SVEGLIATI E UCCIDI (...) questo BANDITI A MILANO indica però una preoccupante linea involutiva. Anziché rispettare la complessità della realtà, i vari aspetti del fatto di cronaca considerato sono costretti in uno schema di comodo che impedisce loro di raggiungere risonanze più generali, di acquistare un valore emblematico rispetto a tutta una mentalità e un mondo. Il documentario introduttivo sulla delinquenza organizzata getta ben poca luce sulla vicenda della banda Cavallero: e il compromesso tra l'obiettività della cronaca e il thrilling ad effetto costringe queste due parti, nettamente differenziate, a restare sommarie, approssimative e superficiali. Il racconto finisce quindi per lasciare senza risposta l'ambizioso interrogativo proposto all'inizio (perché c'è stata quell'ondata di indignazione popolare contro i banditi?) e risulta sostanzialmente una retorica apologia dell'efficienza e della abnegazione delle forze dell'ordine (apologia tanto meno opportuna, in quanto proprio quell'episodio ne aveva semmai messo in luce certe deficienze operative). (...)»(BER[NARDINI] in «Note Schedario», 1968, 1, p. 6)
«(...) BANDITI A MILANO avrebbe potuto essere un film corale, la radiografia di una città neocapitalistica attratta dal mito produttivistico e chiusa in un moralismo borghese pronto a esplodere in forme rabbiosamente vendicative nei confronti di quelle manifestazioni di anarchismo e di assalto alla proprietà privata che sono i furti organizzati da piccoli gruppi di ribelli senza causa. Avrebbe potuto essere anche un film critico verso la polizia, la sua macchina repressiva tecnicamente aggiornata ma di regola inefficiente in quanto distratta da altre occupazioni. Infine avrebbe potuto essere un film che indagasse a fondo sulle cause che spingono alcune energie vitali sulla strada della rivolta asociale contro la società. Nulla di tutto ciò è BANDITI A MILANO, anche se Lizzani accenna a questi temi ma si guarda bene dallo svilupparli e soprattutto dal chiarirli. In ultima analisi, la pellicola si risolve in un omaggio reso all'audacia delle forze dell'ordine. (...)» (F. V[IANI] in «Cinema 60», 1968, 69, p. 74)
«(...) La sua [di Lizzani] "insofferenza per la retorica, l'amore per la cronaca viva ", in BANDITI A MILANO si presta a una difesa d'ufficio dell' "ordine ". Eppure, i quattro fuorilegge sono in buona misura "simpatici"; tutto il film è costellato dalle battute di Volonté-Cavallero, volte a illuminare il carattere esuberante ed estroverso del personaggio. A un certo momento, come per giustificare la propria in differenza morale di fronte all'assassinio, ritorce l'accusa accennando alle stragi legalizzate degli "altri" nel Vietnam. Un nuovo Verdoux, quindi, suggerito magari dall'ambiente "normale" in cui egli e i suoi compagni trascorrono i momenti "privati "? O non piuttosto un povero alibi che non riesce a nascondere quanto esiste dietro la posizione "equidistante" del regista? Il bandito è in effetti soltanto un buffone nei suoi atteggiamenti, quelle frasi non hanno mai un significato emblematico, non rivelano niente del rapporto fra i due mondi. Le scene poi della strage a Milano, e quel vile comportamento di fronte alle urla minacciose della folla "indignata", scoprendo il "vero volto" dell'uomo, sono una condanna senza appello, ferocemente moralistica nella sostanza; la copia di A sangue freddo trovata in casa del bandito non rappresenta quindi che una totale incomprensione, o volontario rifiuto, del risentito discorso di Capote. E allora, è il momento di introdurre la gag del cittadino che ogni tanto compare nei vari uffici di polizia coi suoi futili motivi, proprio mentre i "tutori" sono così impegnati in importanti compiti. In questo voler fare "spettacolo" c'è pure una logica: è quella che porta al Germi dei benéfici doganieri e lungimiranti commissari (...).» (GIANFRANCO CORBUCCI in «Cinema Nuovo», 1969, 197, pp. 19-20)
«(...) Al film così abilmente realizzato manca (...) qualcosa di essenziale. (...) Se ha i pregi della cronaca, BANDITI A MILANO ne accusa i limiti. (...) Cavallero e i suoi, come del resto il poliziotto e gli altri che sono coinvolti nella vicenda, dicono invariabilmente cose banali, perché si è voluto farli parlare in maniera antiletteraria, quotidiana: alla fine la banalità rimane tale, senza rimedio. Se lo si considera su un piano generale, il film ha una impostazione angusta. Non ci si spiega in modo convincente perché "il Cavallerissimo" e i suoi rapinano le banche: i quattro esercitano il banditismo per vivere, automaticamente, semplicemente, così come altri vanno a lavorare in fabbrica o in ufficio. Ma chi va in fabbrica o in ufficio ha pure -scelto o accettato di andarci. Nemmeno è da -porre sul tappeto un risentimento dei criminali verso la società che li circonda: la punizione che Cavallero vuol dare ai capitalisti è una fola, una caricatura, e alla società non si dà uno sguardo di qualche acutezza, non se ne sfiora nessun punto debole. Questi banditi sono appena dei disadattati, e dei loro comportamenti lo spettatore apprende pressappoco quanto gli direbbe un burocratico rapporto della polizia, neppure molto circostanziato. Con l'atteggiamento di oggettività che mantiene, BANDITI A MILANO offre allo spettatore soltanto la sua rilucente: è una illustrazione non una interpretazione (…) » (MARCELLO CLEMENTE «Bianco e nero», 1968, 5/6, p. 130)
Alcuni critici hanno creduto di trovare nel film elementi moralmente positivi, quando, proprio per la notevole suggestione spettacolare e per il mancato approfondimento dei motivi umani e sociali, il discorso cinematografico si limita a registrare situazioni senza peraltro fornire interpretazione chiara dei fatti rappresentati: il che, naturalmente, attenua in modo pesante l'impegno morale che era alla radice del film. Non mancano tuttavia giudizi appropriati.
«(...) Una volta tanto possiamo con piacere dichiarare che lo scatenarsi abnorme di passioni umane nel banditismo, nel mondo della malavita e persino nelle reazioni feroci di una folla, non è servito al regista per una speculazione commerciale o per una pruriginosa e compiaciuta descrizione del male. Nel complesso, quindi, si tratta di una riuscita, efficace e lodevole opera di autentico impegno civico; solo parzialmente viziata da qualche pagina iniziale che si sarebbe potuta tratteggiare con maggiore discrezione e che rende inadatto il lavoro per gli spettatori non maturi.» (BENEDETTO CAPORALE in «L'Osservatore Romano», 25-4-68)
«(...) Può darsi che dalla visione di tanti episodi efferati possa nascere in noi la convinzione che questa società va senza dubbio modificata in altro senso; certo che i frutti di questa società sembrano oltremodo bacati. E allora si potrebbe trarre una conclusione (...) che dovrebbe essere di conforto per la fatica di Carlo Lizzani; si potrebbe affermare che è con intendimenti civili come questo, se si può partire per migliorare la nostra società. È con film che non concedono tregua e prendono decisamente posizione, schierandosi dalla parte dei veri valori umani, che possiamo rinnovare la nostra fiducia nel cinema, e nell'uomo.)» (FRANCESCO DORICO in «Cineforum», 1968, 75, p. 355)
«(...) Se fossi Cavallero non mi preoccuperei per nulla dell'effetto che possono lasciare queste emozioni. Perché la violenza è sempre, in fondo tonificante. Lo spettatore potrà certo provare socialmente indignazione contro i malvagi che scelgono di rapinare le banche (...) invece di una occupazione normale e onorata. E invocherà, senza dubbio, vendetta esemplare contro questi senza curarsi di fulminare passanti pacifici ed inermi. Però non illudiamoci. Li abbiamo visti in azione, e l'azione è azione: lascia sempre una scia di segreta esaltazione e ingrandisce inconsapevolmente i personaggi che vi partecipano. E tanto più quando, alla fine, il cattivo è perdente. Perciò mi fanno ridere quelli che difendono, come innocua, la somministrazione intensiva di western ai ragazzi. Ma - dicono - il bandito, il razziatore di bestiame è sempre punito. Ingenui: proprio per quel sano spirito di protesta dettato dalla coscienza della loro subordinazione, i ragazzi stanno sempre, segretamente, per i fuorilegge! (...)» (FILIPPO SACCHI in «Epoca», 16-6-68, p. 147)
«Dando atto a Lizzani dei buoni propositi e dei sani intendimenti civili enunciati come scopo del film, ci sembra che i risultati siano piuttosto discutibili sul piano morale. La simpatia che il regista mostra per l'aspetto umano dei banditi ci pare troppo evidenziata e ciò gli rende impossibile una posizione di chiara ed equilibrata denuncia dei reali problemi e delle effettive tare della società italiana e del banditismo da essa scaturito.» (CORRADO GALIGNANO in «Note Schedario»)
«(...) Ci si domanda (...) quale senso, soprattutto morale, abbia cucito un film sulle spalle di morti veri, di punizioni vere, di un dolore vero e recente? (...) La trasmissione e il racconto dei fatti immediati, se è tipico, e non per questo meno inquietante, della professione del giornalista (che forse paga per ciò la tipica malattia professionale, l'infarto, a un'età media, pare, di 55 anni), diventa cosa poco limpida nel "divertimento" creativo, e occorre una bella e forte tempra morale per riscattare l'equivoco della situazione. Qualità che sembra mancare nel film (...) di Lizzani. (...)» (GIUSEPPE VANNUCCHI in «Rivista del Cinematografo», 1968, 6/7, p. 401)
«(...) Lo scarso approfondimento dello sfondo umano e sociale dell'episodio e la suggestione spettacolare che il regista ottiene nel raccontarlo diminuiscono notevolmente quel valore di testimonianza di un mondo e di un'epoca che pur era nelle intenzioni: per cui il film non riesce ad esercitare sullo spettatore una valida azione educativa e una sollecitazione morale autenticamente positiva.» (BER[NARDINI] in «Note Schedario», 1968, 1, p. 6)
1. Il film si ispira alle imprese della banda di rapinatori capeggiata da Piero Cavallero (composta da Sante Notarnicola, Adriano Rovoletto e Donato Lopez e operante in Piemonte e in Lombardia dal 1965 al 1967), culminate nella sanguinosa sparatoria per le vie di Milano il 25-9-67, dopo una rapina all'agenzia del Banco di Napoli in largo Zandonai. L'arresto di P. Cavallero e di S. Notarnicola, sfuggiti in un primo tempo alla polizia, avvenne il 3-10-67. Il processo a carico dei malviventi, iniziato nel maggio del 1968, si concluse l'8-7-68 con la condanna all'ergastolo di P. Cavallero, S. Notarnicola e A. Rovoletto e con la pena di 12 anni e 8 mesi di reclusione per D. Lopez.
2. Accingendosi alla realizzazione del film, il regista ha rilasciato alcune dichiarazioni: «La fretta con la quale sono state comunicate alcune notizie sul film che sto attualmente preparando può aver generato equivoci ed inesattezze sull'idea che io ho del mio nuovo lavoro. La pellicola non intende essere una speculazione sui tragici fatti di cronaca recentemente accaduti a Milano. Da lungo tempo avevo in mente di realizzare un'inchiesta sui fenomeni criminali abnormi che da qualche tempo a questa parte stanno sconvolgendo le regioni del Nord Italia e sulla sezione speciale della polizia creata espressamente per reprimere simili atti banditeschi, nonché sulla reazione della popolazione italiana che si è manifestata sulla recrudescenza della delinquenza. Gli ultimi avvenimenti mi hanno però fatto accelerare i tempi, nella volontà precisa di fare un film che abbia carattere sociologico. Il mio film scaturisce dall'ondata di sdegno che ha agitato tutta l'Italia e che dovrebbe portare, aiutata dalle inchieste giornalistiche e dall'azione della polizia, a stroncare una volta per tutte questi fenomeni morbosi e orribili, che non sono altro che appendici del processo di crescita del nostro Paese il quale, invece, è estremamente positivo e di cui sono protagonisti uomini come Roaldo Piva, il mutilato che è morto d'infarto dopo aver assicurato alla giustizia uno dei criminali dell'ultima rapina milanese. L'idea che mi propongo di realizzare nel film può essere riassunta nelle parole pronunciate dal figlio di Roaldo Piva: “Credo che la delinquenza sarà eliminata solo quando tutti capiranno che si deve lottare, che nessuno deve mai arrendersi come ha fatto mio padre. Anche il più feroce dei banditi può essere disarmato da un uomo che abbia dentro di sé il senso della dignità umana.” È su uomini come questi che desidero fare il mio film, non sui banditi di Milano.» (cit. in «L'Unità», 9-10-67)
3. Il soggetto e la sceneggiatura del film furono stesi in otto giorni e furono consultati, per l'occasione, i verbali redatti dalla polizia sul caso della banda Cavallero. Le riprese, iniziate a metà novembre 1967, furono realizzate prevalentemente sui luoghi stessi ove i fatti accaddero, e cioè a Cirié, a Torino, a Milano e a Villabella, nei pressi di Alessandria; l'operazione di rastrellamento compiuta dai carabinieri alla vigilia dell'arresto degli ultimi due fuorilegge è stata realizzata a Folla di Malnate, nella valle dell'Olona, con la partecipazione di cinquecento agenti e con l'impiego di settanta automezzi militari.
4. Quando ancora non era stata fissata la data del processo, l'avvocato Antonio D'Alesio di Bari, difensore di Sante Notarnicola (uno dei componenti la banda Cavallero), ha presentato un atto di diffida nei confronti della «De Laurentiis Cinematografica», perché il film «pregiudica gravemente la posizione del suo difeso.» (cfr. «La Notte», 7-12-67) In seguito, i difensori di Adriano Rovoletto chiesero alla Procura civile un provvedimento d'urgenza per il sequestro del film e affinché la visione di BANDITI A MILANO fosse impedita su tutto il territorio nazionale (cfr. «La Gazzetta del Mezzogiorno», 7-2-68). Tuttavia il pretore di Milano «ha ritenuto che allo stato attuale delle cose Adriano Rovoletto non possa avanzare alcuna richiesta. Non si conosce, infatti, il contenuto della pellicola che attualmente è in fase di montaggio e fissaggio, né si conosce la data precisa del processo. Eventualmente (...) Adriano Rovoletto potrà intraprendere un'azione civile di risarcimento danni, qualora, dopo l'uscita del film, il suo nome sia usato specificatamente per indicare uno dei protagonisti del film.» («L'Avvenire d'Italia», 14-3-68) Di fatto solo Cavallero mantiene poi nel film il proprio nome, mentre quelli degli altri personaggi sono stati tutti leggermente modificati.
5. Per notizie su C. Lizzani v. PROCESSO DI VERONA (IL); su G. M. Vollonté v. TERRORISTA (IL); su T. Milian v. GIORNO PER GIORNO DISPERATAMENTE; su C. Gravina v. AMORE E CHIACCHIERE.
6. Prima dell'uscita nei circuiti nazionali, il film è stato proiettato nell'abitazione romana del produttore D. De Laurentiis, in visione privata, al ministro degli interni P.E. Taviani, al capo della polizia A. Vicari, al questore di Milano e ad alti funzionari della polizia (cfr. «Il Giornale d'Italia», 18/19-3-68). Successivamente il film è stato proiettato in serata di gala a favore della Croce Rossa Italiana al teatro Carignano di Torino il 5-4-68.
7. Il film è stato selezionato per rappresentare l’Italia al XXI Festival di Cannes (1968), ma per l’interruzione della manifestazione non venne proiettato. Fu in seguito presentato al XVIII Festival di Berlino (1968).
8. Il film è uscito a Roma il 29-3-68; a Milano e a Torino l’11-8-68; in Francia nell’estate del 1968 con il titolo BANDITS A MILAN; a Madrid (Spagna) il 21-10-68 con il titolo BANDIDOS EN MILAN; in Germania con il titolo BANDITEN VON MAILAND e in Svizzera con il titolo BANDITS A MILAN.
9. Premi: «Globo d'Oro» 1968 della stampa estera per il miglior film italiano della stagione 1967-68 e a Gian Maria Volonté, per l'interpretazione anche per il film A CIASCUNO IL SUO di E. Petri e I SETTE FRATELLI CERVI di G. Puccini; «David di Donatello» 1968 a C. Lizzani per la regia; «Grolla d'Oro» 1968 a G. M. Volontè; «Nastro d'argento» 1969 a D. Maiuri, M. De Rita e C. Lizzani per la miglior sceneggiatura.
10. Uscito in Italia il 29-3-68, il film, nelle prime visioni di 16 città capozona, per complessivi 607 giorni di programmazione, ha incassato L. 423.900.000 (dati aggiornati all'11-8-68; da «Giornale dello Spettacolo»).
11. A proposito del suo film, C. Lizzani ha rilasciato numerose dichiarazioni. «Penso che questo film (...) possa anche far luce sugli sforzi, talvolta fraintesi, che la polizia fa, con scarsi mezzi, per reprimere questi mali. (...) Avevo già in mente di dirigere un film sul racket delle bische e dei locali notturni, un fenomeno che già lo scorso anno aveva preso a Milano preoccupanti proporzioni, e poi ha continuato a crescere in gravità, quando la mattinata di fuoco di fine settembre mi persuase ad inserire come fatto centrale dell'opera l'impresa dei gangsters: a poco a poco quest'ultima è venuta a costituire il nucleo principale del film.» (cit. in «Oggi», 25-4-68, p. 123)
12. «Vorrei che il film potesse contribuire a condurre un discorso civile (bandendo, cioè, i rigurgiti reazionari che fecero tempo fa gridare addirittura al linciaggio e al ripristino della pena di morte) anche sui fatti criminosi come quelli raccontati, puntando più che sulle imprese dei banditi, sull'esempio di coraggio civile dato da Roaldo Piva. Dunque, il gangsterismo visto non già come avventura, ma soltanto come l'esplosione più drammatica di un male che mina un'intera città, un'intera società in cui le quotidiane, piccole e forse tollerate corruzioni, connivenze, mistificazioni sono quasi sicuramente le concause più verosimili di soprassalti tanto violenti e traumatici.» (cit. in «L'Unità», 16-11-67). «BANDITI A MILANO non vuole riproporre allo spettatore dei puri e semplici fatti di cronaca, anche se questi fatti costituiscono drammatici avvenimenti da meditare. Le rapine (...) costituiscono per me un punto di partenza e non di arrivo. A me interessava arrivare alle origini della criminalità, scoprire le radici, rendermi conto delle dimensioni del fenomeno. (... ) In una società dominata dal nichilismo, basta un niente a trasformare un innocuo cittadino in un criminale spietato. E spesso questi personaggi negativi rivelano le irrequietezze dei galantuomini che tengono duro in mezzo alla confusione delle aspirazioni. Con il benessere che dilaga, dilaga l'inquietudine interiore. All'uomo non bastano più frigoriferi, televisori e automobili. Cerca qualcosa che nessuno gli dà e che, da solo, non riesce a conquistare. Nella crisi generale, il crimine è uno dei tanti modi per procurarsi maggior benessere. BANDITI A MILANO potrebbe aprire gli occhi non tanto sulla violenza in sé, quanto sulla realtà che sta dietro i fatti.. È tempo di difendersi, prima che il paese finisca in mano agli industriali del crimine.» (cit. in «Il Resto del Carlino», 12-3-68)
13. Il film è particolarmente adatto per cicli sui problemi del banditismo, sugli aspetti deteriori della società moderna, sul cinema di denuncia sociale, sul valore della recitazione per la resa di un personaggio.
da Note Schedario n. 1, 1968. Aldo Bernardini
Il film conferma l'impegno civile del cinema di Lizzani, la sua attitudine a cogliere e a interpretare i dati della cronaca italiana in funzione di analisi sociologiche e di costume di notevole interesse.
Rispetto a Svegliati e uccidi, l'opera precedente, dedicata a un argomento analogo, questo Banditi a Milano indica però una preoccupante linea involutiva. Anziché rispettare la complessità della realtà, i vari aspetti del fatto di cronaca considerato sono costretti in uno schema di comodo che impedisce loro di raggiungere risonanze più generali, di acquistare un valore emblematico rispetto a tutta una mentalità e un mondo. Il documentario introduttivo sulla delinquenza organizzata getta ben poca luce su la vicenda della banda Cavallero: e il compromesso tra l’obiettività della cronaca e il thrilling ad effetto costringe queste due parti, nettamente differenziate, a restare sommarie, approssimative e superficiali. Il racconto finisce quindi per lasciare senza risposta ambizioso interrogativo proposto all’inizio (perché c’è stata quell’ondata di indignazione popolare contro i banditi?) e risulta sostanzialmente una retorica apologia dell’efficienza e dell’abnegazione delle forze dell’ordine (apologia tanto meno opportuna, in quanto proprio quell’episodio ne aveva semmai messo in luce certe deficienze operative). Cavallero e i suoi complici sono alla fine soltanto delle macchinette o poco più quasi come l'improbabile figura dell'imberbe commissario, interpretato con un piglio forse volutamente ironico (l'imitazione grottesca di certi film americani) da T. Milian. Un'occasione mancata, dunque, per Lizzani,che pare essere ormai lontano da una prospettiva veramente critica e responsabile; anche se il film è certo un'ulteriore prova del suo smaliziato mestiere, della sua capacità di drammatizzare i fatti della cronaca in funzione di uno spettacolo avvincente e impressionante. Lo scarso approfondimento dello sfondo umano e sociale dell’episodio e la suggestione spettacolare che il regista ottiene nel raccontarlo diminuiscono notevolmente quel valore di testimonianza di un mondo e di un'epoca che pur era nelle intenzioni: per cui il film non riesce ad esercitare sullo spettatore una valida azione educativa e una sollecitazione morale autenticamente positiva. (BER)