IL PROCESSO DI VERONA
Regia: Carlo Lizzani
Lettura del film di: BER (Aldo Bernardini)
Titolo del film: IL PROCESSO DI VERONA
Titolo originale: IL PROCESSO DI VERONA
Cast: regia: Carlo Lizzani aiuto regia: Giovanni Vento, David Carbonari sogg.: da una trama di Sergio Amidei e Luigi Somma scenegg.: Ugo Pirro fotogr.: (b. e n., VistaVision) Leonida Barboni A.I.C. operatore della macchina: Claudio Ragona scenogr.: Elio Costanzi arredamento: Augusto La Valle cost.: Giulia Mafai trucco: Giuliano Laurenti parrucchiere: Elda Magnanti, Rosa Luciani mus.: Mario Nascimbene tecnico del suono: Venanzio Lisca fotogr. di scena: Alfonso Avincola segret. di edizione: Vittoria Vigorelli mont.: Franco Fraticelli interpr. princ.: Silvana Mangano (Edda Ciano), Frank Wolff (Galeazzo Ciano), Franηoise Prevost (Frau Betz), Salvo Randone (l'avv. Andrea Fortunato, pubblico accusatore), Vivi Gioi (donna Rachele Mussolini), Claudio Gora (giudice Cersosimo), Umberto D'Orsi (Luciano Gottardi), Filippo Scelzo (Giovanni Marinelli), Gianni Di Benedetto (Carlo Pareschi), Andrea Bosic (Tullio Cianetti), Gennaro De Gregorio (Emilio De Bono), Giorgio De Lullo (Alessandro Pavolini), Ivo Garrani (Roberto Farinacci), Andrea Checchi (Dino Grandi), Tino Bianchi (il giudice Aldo Vecchini), Eva Hart (moglie di Cianetti), Ugo Carboni (Trinagli Casanova), Umberto Raho (Don Chiot), Edoardo Toniolo (Ministro Pisenti), Pietro Fumelli (generale Piatti), Carlo D'Angelo (console della milizia, Italo Vianini), Mario Cipparone (direttore del carcere, Olas), Carmelo Artale (guardia Pellegrinotti), Armando Furlai (generale dei carabinieri), Pierannibale Danovi (aiut. maggiore), Antonio Ricci (Fabrizio Ciano), Loris Loddi (Mario Ciano), Patricia Cafiero (Dindina Ciano), Mario Milita (capitano dei carabinieri), Curt Lowens (capitano tedesco), Franco Castellani (avvocato difensore), Henri Serre (il marchese Pucci, amico di Ciano), Renato Terra, Calisto Calisti dirett. Di produz.: Domenico Bologna A.D.C. ispett. di produz.: Antonio Palumbo segretario di prod.: Pilade Collaveri coproduz.: Duilio Coletti per la Duilio Cinematografica S.p.A. (Roma), Orsay Films S.R.L. (Paris) stabilimenti: Dino De Laurentiis pellicola negativa: Dupont sviluppo e stampa: Istituto Nazionale Luce registraz. sonora: Nis Films origine: ITALIA / FRANCIA, 1963 distrib.: De Laurentiis.
Sceneggiatura: Ugo Pirro
Nazione: ITALIA / FRANCIA
Anno: 1963
Chiavi tematiche: Carlo Lizzani nato a Roma il 3 aprile 1922 e morto a Roma il 5 ottobre 2013 a volte noto anche come Lee W. Beaver
da: Schedario Cinematografico, 1965, BER, alla voce
È LA STORIA DELLE drammatiche vicende che, dopo la caduta del governo Mussolini provocata dall'approvazione dell'ordine del giorno Grandi alla seduta del Gran Consiglio del 24 luglio 1943, portarono cinque dei responsabili - e fra essi il conte Galeazzo Ciano, genero di Mussolini - ad essere processati a Verona dagli esponenti del nuovo Partito Fascista Repubblicano (costituito dopo la liberazione del duce), sotto il controllo dei tedeschi, e per vendetta condannati a morte (tutti meno uno), nonostante i tentativi della moglie di Ciano (Edda) per far fuggire il marito ricattando i tedeschi, attraverso la mediazione della segretaria di Ribbentropp, con i compromettenti "Diari" in suo possesso.
GIUDIZIO UFFICIALE CATTOLICO (C.C.C., Italia): «L'insufficiente rispetto per l'intimità privata di alcune persone, pur collocate sulla ribalta della storia (alcune delle quali ancora viventi) pregiudica il risultato finale dell'opera. Ciò premesso, il film, che evita arbitrarie interpretazioni e faziose deduzioni, ripropone - con la narrazione di una vicenda sciagurata - severi moniti alla coscienza civile degli italiani e di tutti gli uomini liberi. Debbono essere rilevati lo scarso rilievo dato alla fede religiosa dei condannati e l'eccessiva crudezza della rievocazione dell'esecuzione capitale. Per adulti in sala pubblica.»
GIUDIZI DELLA CRITICA: ASPETTO CINEMATOGRAFICO E ARTISTICO
«(...) IL PROCESSO DI VERONA regge abbastanza bene, perché il regista ha concentrato la tragedia in scontri di carattere e in situazioni che hanno poco di teatrale, ma si condensano in un clima di verità psicologica (...). C'è necessariamente uno sforzo di contrazione narrativa, ma l'essenza del dramma non ci sfugge (...). Gli inserti documentari, tratti da cinegiornali dell'epoca, fanno da illustrazione al romanzo, che ottiene dai forti chiaroscuri della fotografia, dallo stile spesso serrato (la parte più debole, forse, è proprio il processo), scandito dagli spari dei mitra, un taglio acre e livido, che talvolta gela il sangue. (...)» (GIOVANNI GRAZZINI in «Corriere della Sera», 3-3-63)
«(...) Nello scrupoloso rifacimento dei fatti, il film perde (...) una gran parte di quel mordente sempre necessario ad uno spettacolo cinematografico per agganciare" il pubblico, ma si rifà con il senso di autenticità di alcune sequenze, dove ciò che fu il fascismo si materializza sotto i nostri occhi in un abisso insondabile di imbecillità, di inutili perfidie e di basse vendette. (...) Valido (...) il film di Lizzani lo è senza riserve sul piano drammatico, dove alcuni personaggi hanno modo di stagliarsi con precisi contorni umani, in una esatta sistemazione psicologica. (...) » (C. T(ERZI] in «Avanti!», 8-3-63)
«(...) Piuttosto che di tragedia (...) è il caso di parlare di melodramma (...). Nella scena dello scontro nel cortile del carcere, se il rapporto padroni-servi è ben reso attraverso i primi piani dei fascisti, il tipo d'inquadratura e la forma stilistica richiamano al diverso rapporto oppressori-resistenti dei primi film neorealisti. Cosi, nel finale, la tensione sarebbe stata indubbiamente più forte, se ci fossero stati cadaveri di patrioti. Del resto, ciò era in certo senso fatale: Lizzani aveva appreso il linguaggio ai tempi di ACHTUNG, BANDITI! e di CRONACHE DI POVERI AMANTI. Quel linguaggio è rimasto, per cose assai diverse: e talvolta si avverte lo stridore. (...) La Mangano è eccellente nell'impostazione generale del suo personaggio, mentre il Wolff alterna felici introspezioni a pose esteriori. (...)» (UGO CASIRAGHI in « L'Unità », 8-3-63)
«(...) Lizzani ha mosso i personaggi, chiudendoli al centro di una morsa che via via, con la sua fatalità, li ha distrutti: graduando le tappe dell'avvenimento con incalzare rapido (...) e traendo da ogni sequenza il lato umano dei caratteri con uno studio esatto delle loro psicologie, una attenzione meditata per ogni loro reazione, una precisione intelligente nell'accordare i loro stati d'animo al momento e nell'esprimerli visivamente; con un linguaggio cinematografico vibratissimo, acceso da notazioni stilistiche di effetto spesso vistoso, ma sempre sicuro ed efficace. (...) Si potrà rimproverare al film, qua e là, una certaesteriorità e, soprattutto in determinati svolgimenti dell'azione, il desiderio di calcare la mano in senso spettacolare, per ottenere effetti un po' facili; e, nelle sequenze iniziali (...) anche un sospetto di artificioso in contrasto con lo spietato realismo delle pagine che seguirono, ma questo non toglie al film il suo rigore e il suo interesse emozionante; salve restando tutte quelle riserve sulla fedeltà ai fatti che (...) non tocca a noi sollevare. (...) » (GIAN LUIGI R0NDI in « Rotosei», 25-3-63)
«(...) Sul piano spettacolare (...) l'efficenza del PROCESSO DI VERONA è difficilmente contestabile. Non gli manca niente, nemmeno l'ingrediente romanzesco della "suspense" (i famosi diari di Ciano), nemmeno un'invenzione cinematografica che è qualcosa di più di una trovata ingegnosa: l'epilogo sanguinoso della fucilazione vista, in un improvviso e suggestivo silenzio, attraverso la cinepresa di un soldato tedesco. (...) La forza del PROCESSO DI VERONA (...), nonostante gli scivoloni nella comodità melodrammatica, (...) risiede nei suoi due protagonisti. (...) » (MORANDO MORANDINI in « Le Ore », 21-3-63)
«(...) Lizzani (...) [ha scritto] attraverso le immagini, pagine di cinema non dozzinali, là dove la tentazione verso il melodramma avrebbe potuto essere più facile. (...) La scena della fucilazione (...) si vale di una suggestiva trovata: le parole dei condannati, le grida e gli spari sono coperti dal ronzio della macchina da presa con cui un ufficiale tedesco riprende tutta la scena. Un brano (...) dal ritmo avvincente, che eleva su un pianto d'arte la forte suspense insita nella vicenda. (...)» (ANGELO SOLMI in « Oggi », 21-3-63)
«(...) Al di fuori delle controversie della cronaca e dei limiti della autenticità, il PROCESSO DI VERONA resta un serio, audace e potente saggio di cinema storico, un grosso spettacolo al tempo stesso intelligente e popolare, valido artisticamente e istruttivo (...). E un grande reportage sceneggiato (...) a cui aggiunge stupore l'impressionante, talora allucinante somiglianza fisica raggiunta in certi personaggi (...).» (FILIPPO SACCHI in « Epoca », 24-3-63)
«(...) La ricostruzione d'ambiente è inappuntabile, quella dei personaggi quasi sempre verosimile. In pochi gesti, in poche battute, i protagonisti della vicenda assumono un carattere; quelli minori più dei maggiori. (...) Lizzani (...) ha lasciato parlare i fatti e le persone, tenendosi in disparte. Ci voleva del coraggio a farlo, specialmente da parte di un marxista. (...) Se vergogna, meschinità, paura o intrigo ci furono, non li sottolinea, non li mette in bocca al tenore; è tutta la partitura che conta. Una cosi misurata esposizione risulta alla fine straordinariamente efficace. (...)» (U. A[STOLFO] in «Lo Specchio», 17-3-63)
«(...) Lizzani, uomo di parte, si è barricato, qui, nell'imparzialità del narratore di classe, nell'oggettività di un autentico artista. Egli non premedita effetti, non sottolinea, non agghinda nulla; eppure smuove infallibilmente, nello spettatore, tutto quello che c'è da smuovere. Non è più casto e lindo un monastero. Bravo. (...)» (GIUSEPPE MAROTTA in «L'Europeo», 17-3-63)
«(...) La parte cronachistica del film, che è soprattutto la seconda, si fa apprezzare per la precisione e la fermezza del resoconto. Dalle udienze alla fucilazione, un brano di cinema esemplare, il film è quasi senza errori, teso, angoscioso: ha la forza indiscutibile di un documento ricostruito. Purtroppo Lizzani non ha resistito alle tentazioni della storia romanzata, dell'interpretazione drammaturgica, della sottolineatura psicologica. Non ha saputo scegliere, insomma, fra il modello ineccepibile proposto da Rosi con SALVATORE GIULIANO e le vecchie formule alla Ludwig e alla Zweig. (...) Il film scade irreparabilmente ogni volta che si sposta dalla vicenda pubblica alla cronaca familiare. (...) Ma IL PROCESSO DI VERONA guadagna forse in popolarità ciò che perde in rigore (...).» (TULLIO KEZICH in «Settimana Incom Illustrata», 24-3-63)
« (...) Lizzani (...) ha utilizzato il bianco e nero (...) con un intendimento riscontrabile nella realtà, o nella prospettiva realistica, che egli ha voluto imprimere al film. Il tono fotografico, è sempre sostenuto su piani e ritmi di luce molto discreti, quasi per seguire le sfumature interne dei personaggi. La musica è caricata di un potere suggestivo, e i rumori sono naturali. (...) I dialoghi, quantunque in parte inventati, hanno una loro precisione di tono, sono espressioni di alcuni turbamenti, e realizzano pienamente quel clima in cui si svolsero i fatti. (...) » (FRANCESCO D0RIG0 in «Cineforum», 1963, 27, pp. 658-659)
«(...) Il film non è riuscito a raggiungere toni drammatici nemmeno là dove ciò non sarebbe stato poi eccessivamente difficile. L'arresto di Ciano, (...) il congresso repubblichino di Verona, il processo, l'attesa della grazia rappresentavano altrettante occasioni particolarmente favorevoli, per svolgere un discorso drammaticamente convincente. Lizzani si è lasciato sfuggire anche queste facili occasioni. (...) Una delle poche parti del film, che raggiunge dignità artistica, è quella dell'esecuzione finale (...). Ma non basta una parte dignitosa a riscattare tutto il resto, che purtroppo sta a testimoniare l'involuzione artistica ed espressiva di un regista come Lizzani (...).» (M. M. in «Cinema 60», 1963, 34, pp. 46-47)
«(...) Incerto fra una sorta di ritrovamento documentaristico della storia, che degenera nella "ricostruzione" verosimile, e una libertà di narrazione che si svia dietro le amplificazioni romanzesche, Lizzani è caduto nell'equivoco che era legittimo paventare: la storia gli si è irrigidita in una cornice ambientale, in una convenzione drammatica (...).» (A. F[ERRERO] in «Cinema Nuovo», 1963, 162, p. 131)
«(...) IL PROCESSO DI VERONA è una specie di rotocalco democratico, in cui la tecnica della cronaca riproposta entro una formula narrativa avvincente raggiunge la pienezza dell'esito spettacolare. (...) Lizzani (...) benché a sprazzi sconfini in un tessuto espositivo a tinte melodrammatiche, in genere elude il trabocchetto e propende per uno svolgimento secco, incentrato sulla nuda evidenza dei fatti, senza ingombranti forzature. Ciò nonostante (...) si ferma in superficie (...).» (MINO ARGENTIERI in «Rinascita», 16-3-63)
«(...) Il film è meno riuscito di quanto poteva essere, perché Lizzani (o forse il suo scenarista Ugo Pirro) s'è lasciato trascinare troppo, rispetto all'equilibrio asciutto dell'opera, dall'intrigo semi- spionistico dei "Diarii" colla figura misteriosa di Frau Betz, quella di Pucci ecc.: una disturbante intrusione del romanzesco in quella che doveva rimanere una tragedia. (...)» (ERNESTO G. LAURA in «Bianco e Nero», 1963, 4, pp. 59-60)
«(...) Il film è (...) caratterizzato da un'intelligente anche se composita e ardua struttura che è sintesi di documento e di romanzo. Anzi, (...) prevale la dimensione "romanzesca" (o se si preferisce psicologica) che risulta da un'analisi interiore della tragedia dei protagonisti e conduce ad afferrare in tutta la sua portata la tragicità dei fatti.,(...) un tentativo di esprimere con fedeltà gli eventi storici partendo dall'interno dei personaggi (...). E una soluzione strutturale in se stessa indovinata, ma non esente da tranelli; primo di tutti quello di dilatare talmente l'introspezione psicologica dei protagonisti da ridurre al minimo l'incisività espressiva degli eventi, o da trascurare le innegabili ripercussioni corali popolari che questi necessariamente comportavano. (...) La scrittura di Lizzani prende un avvio semplicemente corretto (...). E con l'arresto di Galeazzo alla stazione di Verona che il regista ci sembra prendere decisamente in pugno un discorso servito dall'agghiacciante fotografia di Leonida Barboni. Sa imporgli un ritmo narrativo dall'accento quasi sempre vigorosamente scandito, che suscita nello spettatore una coscienza di tragicità, acuita dal commento musicale nel quale domina insistente il motivo delle raffiche di mitra. L'epilogo è la pagina più avvincente del film. (...)» (LUIGI BINI in «Letture», 1963, 5, pp. 382-383)
«(...) Nascimbene in IL PROCESSO DI VERONA basa la sua musica su due supporti "documentaristici ", le raffiche di mitra che sterminano i congiurati e il ronzio della macchina da presa del cine-reporter tedesco che ha filmato gli ultimi momenti dei condannati. Le "invenzioni" musicali in sé (...) sono piuttosto povere. (...) Premuto anche da Lizzani, Nascimbene si libera di ogni lustrino e si tiene stretto alle immagini, togliendo alla musica la funzione di "commentare" l'azione e dandole quella, nei suoi scarsissimi interventi, di far risuonare drammaticamente, attraverso l'alterazione degli effetti sonori, alcuni incisivi momenti del film. (...) La soluzione delle raffiche di mitra e del sibilo "tenuto" ricorre (...) tutte le volte che Ciano accenna al suo destino o che ci si richiama alla condanna a morte, oltre che durante l'ultimo colloquio in cella fra Ciano e Edda. E una ripetizione piuttosto meccanica, che scatta a freddo, e di limitato respiro. L'impennata viene nella sequenza finale. (...)» (ERMANNO COMUZIO in «Cineforum», 1963, 27, pp. 661-662)
«(...) A prima vista, è (...) a Rosi che Lizzani deve aver pensato. IL PROCESSO DI VERONA ricorda irresistibilmente GIULIANO. La volontà di ricostruire gli avvenimenti sui luoghi stessi dove si sono svolti, l'adozione di uno stile documentario apparentemente distaccato, ma dove sono integrate scene improvvisamente liriche o epiche, fino alla presenza (...), nel tribunale, degli attori Frank Wolff e Salvo Randone (...), manifestano questa influenza. (...) E chiaro che il film di Lizzani resta inferiore a quello di Rosi. Ma la sua materia è più ingrata, più spiacevole. (...)» (ROBERT BENAYOUN in «France-Observateur» [Paris], 22-8-63)
«(...) Facendo interpretare Edda Ciano da Silvana Mangano con uno stile shakespeariano, utilizzando il prodigioso e proteiforme Frank Wolff (...), sottolineando abbastanza pesantemente ogni sequenza che si chiude su Ciano con il rumore di una raffica, Lizzani ha voluto ritrovare lo stile un po' ingenuo del "racconto" che non aspira affatto (...) a un'interpretazione ambiziosa della Storia, marxista o esistenzialista, perché non è antropologico e strutturale. Si tratta in effetti di" attualità" ricostruite, drammaticamente, conferendo loro la forma di un romanzo, salvandone l'esattezza dei dettagli. (...)» (P.-L. THIRARD in «Cinéma 63» [Paris], 1963, 79, p. 128)
«(...) A metà strada fra le realtà (documenti, testimonianze raccolte dalle fonti più serie) e la finzione (l'aver dato una forma, l'aver "messo in scena" degli avvenimenti reali passati), sta per nascere un nuovo genere cinematografico. Il suo tallone d'A- chille è il ricorso ad attori troppo celebri. (...)» (GILBERT SALACHAS in «Téléciné» [Paris], 1963, 112)
GIUDIZI DELLA CRITICA: ASPETTO CONTENUTISTICO E TEMATICO
Il film ha riproposto anche il problema del valore storiografico del cinema, sul quale citiamo come esemplificazione il parere di due uomini di cultura.
«(...) Il cinematografo dovrebbe, dal maneggiare una materia ancora così viva e palpitante, se non per i giovanissimi, certo per la maggior parte degli spettatori; e se proprio si vuole che riviviamo sullo schermo cronache di ieri, tuttora oggetto di polemiche e di contrasti, ce le mostrino nella sola forma ammissibile, quella di documentari del tempo (integralmente, senza rimaneggiamenti né interpolazioni né tagli). (...) La cosa più turbante in questi gratuiti rifacimenti è la violazione, o peggio la deformazione della più gelosa personalità di persone ancora viventi; o — se scomparse dalla vita — ancor vive nel ricordo e nel rimpianto dei familiari, della vedova, dei figli, e uccise una seconda volta, ricacciate una seconda volta nel limbo dei defunti con un volto che non è il loro, con atteggiamenti che i congiunti non riconoscono, con parole che dissero mai. (...) Il cinema (...) non deve degradarsi (...) a rendere la storia a fumetti. (...)» (PAOLO MONELLI in «La Stampa», 23-3-63)
«(...) Il film ci pare si ponga (...) come opera sussidiaria, di esplanazione popolare, quasi un promemoria per un fatto che dovrà avere in altra sede la 'sua definizione. Una sede, del resto, dove senza meno non avrà udienza una siffatta ricostruzione figurativa che è pur sempre, per quantosupportata da vastadocumentazione, una interpretazione emozionale, estetica: e non mai, appunto, critica. (...) Un film (...) sobriamente polemico; senza acrimonie, senza crucifige; quasi con distacco, con una scabrezza che scava la drammaticità, e diventa monito. (...)» (BRUNO DE MARCHI in «L'Italia», 3-4-63)
Anche i giudizi dei critici sul valore storico e sulla validità espressiva del film sono discordi. La maggioranza di essi ha condiviso le posizioni del regista, lodandone il coraggio civile e l'obiettività politica.
«(...) Rimproverare al film di essere inesatto, falso, tendenzioso in alcuni particolari, è a nostro avviso giustificato soltanto nella misura in cui si sia disposti ad ammettere che (...) tutti coloro che in quei mesi furono trascinati dalla furia dell'odio, della disperazione e della vendetta, avevano una statura da eroi rinascimentali (...). Al contrario a noi sembra che tutto il processo di Verona sia stato privo di ogni alone, sia pure romantico, che possa idealizzarne i protagonisti diretti e indiretti (...). Se non è vero, il film è perciò verosimile. Ecco perché Lizzani ha fatto bene a tentare di interpretare (...) l'atmosfera di quei tempi, riassumendo nel personale rapporto fra Ciano e sua moglie le linee essenziali di un più vasto quadro d'ambiente. Egli ha compiuto, in un certo senso, un processo inverso a quello che compie il melodramma. Come questo mitizza i personaggi cosi Lizzani li ha demitizzati, facendoci sentire che la storia in cui siamo immersi non è fatta di schemi libreschi, bensì di conflitti di caratteri e di passioni nei quali si esprime l'autentica natura degli uomini e delle donne sulle cui deboli spalle si accumula il destino dei popoli. E ha pensato il film in modo che la sensibilità dello spettatore sia toccata proprio in quella zona in cui la condizione umana coincide con la condizione civile. (...)» (GIOVANNI GRAZZINI in «Corriere della Sera», 3-3-63)
«(...) Lizzani (...) non aveva forse mai trasferito così pulitamente la sua vocazione neorealistica, il suo impegno di verità, sul piano tormentato della cronaca. Il suo film non ha nemmeno una intonazione antifascista, tanto è antifascista naturalmente, così proiettato su quella fossa di sangue, che fu il processo di Castelvecchio. E d'altra parte non esclude quella vibrazione di pietà che non si nega neppure all'ultimo malfattore quando è davanti alla scure e molto meno si nega a un debole che si sia tirato addosso un destino superiore alle sue forze. (...)» (Leo PESTELLI in «La Stampa», 3-3-63)
«(...) Bisogna riconoscere che l'interpretazione storico-psicologica di una delle stagioni più fosche della storia italiana (...) proposta da Lizzani e dai suoi collaboratori è interessante, drammatica. (...) Di suo, Lizzani vi ha aggiunto un distaccato sentimento di pietà (...).» (A. S[ALA] in «Corriere d'Informazione», 8/9-3-63)
«(...) Chi non ha conosciuto direttamente a quale grado di abiezione fosse sceso il fascismo, può assumere questo film a documento, tenendo presente che, per necessità di cose, si tratta di un gelido documento, ricostruito sulle testimonianze degli stessi protagonisti, e nelle quali, dunque, non v'è posto per il grado di dolore e di vergogna cui il regime aveva condannato l'Italia. (...) Carlo Lizzani e Ugo Pirro (...) hanno dimostrato nella rievocazione degli avvenimenti una obiettività e una freddezza da osservatori ormai consumati, come se quell'epoca fosse assai più remota di quanto effettivamente nonsia. (...) I tempi delladisfatta del fascismo e della sua putrefazione sono stati scanditi da Lizzani (...) con il necessario inquadramento critico. (...)» (UGO CASIRAGHI in «L'Unità», 8-3-63)
«(...) Il film, e questo è il suo torto, accenna appena alle lunghe battaglie combattute dai gerarchi, nel gioco degli scaricabarile, per evitare di assumersi la responsabilità dell'esecuzione della condanna, dopo la sentenza; l'omissione è grave, perché fu qui il fulcro vero della esigua tragedia. (...) Ma è certo che Lizzani (...) ha dato alla ricostruzione della cronaca, rielaborata sia pure e magari travista, il solo carattere precipuamente italiano che fosse lecito dargli. Nel film, il processo è la storia di una cupa vendetta: amara, spietata, ingiusta e inutile come tutte le vendette consumate nel sangue. (...)» (ARTURO LANOCITA in «La Domenica del Corriere», 24-3-63)
«(...) [Con] IL PROCESSO DI VERONA (...) Lizzani ha affrontato uno degli argomenti impegnativi della nostra storia più recente, ancora in bilico tra la cronaca e il documento, come già fecero Rosi in SALVATORE GIULIANO e Loy in LE QUATTRO GIORNATE DI NAPOLI. (...) Ritenevamo che la passione di parte avrebbe potuto far velo all'obiettività e alla serietà della narrazione. Invece dobbiamo dar atto a Lizzani della piena riuscita, proprio da tale punto di vista, della sua opera: la quale è serena e imparziale nei limiti in cui ciò può essere possibile, a cosi breve distanza dagli avvenimenti raccontati. (...) Né ci sembra che le figure di Ciano e di Edda escano diminuite dall'opera: (...) proprio la loro dolorosa tragedia, spostandosi dal piano politico a quello umano ed intimo, prende luce pietosa dal terribile viluppo di intrighi in cui la forza e la fatalità degli avvenimenti avevano avvolto la figlia e il genero di Mussolini. (...) Dietro ai due protagonisti si intravvede (...) il dramma di un popolo e di un regime, avviati verso una triste china di odi, di lotte civili, di miserie, fino alla catastrofe conclusiva. (...) Mussolini non si vede mai, ma se ne sente continuamente la presenza, soprattutto quando questa è divenuta ingombrante per gli stessi che, a parole, si dicono suoi sostenitori fanatici e non sognano che la rapina e lo sfogo di basse vendette personali. (...)» (ANGELO SOLMI in «Oggi», 21-3-63)
«(...) Lizzani e Ugo Pirro (...) sono riusciti a mantenere un tono distaccato di testimonianza e in virtù di questo tono il film offre un quadro commovente e nello stesso tempo agghiacciante di quel periodo. Non infierendo particolarmente contro nessuno il film riesce a rendere bene il clima e tutto l'orrore e lo sgomento di quegli anni, di quel processo assurdo e ingiusto, di quella sinistra repubblica dominata dal rancore, dalla paura, dalla ferocia e dai tedeschi. (...) Un film appassionante e istruttivo la cui umanità nulla toglie al suo antifascismo costituzionale.» (ERCOLE PATTI in «Tempo», 23-3-63)
«(...) IL PROCESSO DI VERONA fa l'altalena tra due procedimenti: il grosso romanzo popolare a base di elementari conflitti passionali (l'odio, la vendetta, la disperazione, l'intrigo) e il dramma storico in cui, sulla scorta di una rigorosa documentazione si cerca di demistificare razionalmente gli avvenimenti e i personaggi e di darne un obiettivo giudizio. (...) Se Edda è (...) il cuore del film, Galeazzo ne è il cervello. L'analisi di questo personaggio è uno dei maggiori meriti degli sceneggiatori: dignità e infatuazione, incertezza e orgoglio, debolezza e impulsività ne fanno una figura ambigua, umanamente probabile e storicamente significativa. Attraverso il personaggio si può trarre un giudizio su un ambiente, un movimento politico, un regime. Per capire il fascismo serve più il contradditorio Ciano che il sinistro Pavolini o il torvo Farinacci.» (MORANDO MORANDINI in «Le Ore», 21-3-63)
«(...) Per l'interpretazione storico-psicologica del momento e dell'ambiente (...) Lizzani ha puntato su Ciano, una figura complessa, contradditoria, sfuggente, che ben s'identifica con lo spirito del tempo e delle vicende e, attraverso il suo dramma familiare, è il personaggio più illuminante e rispondente per raffigurare i motivi umani inseriti nel vasto dramma che dilaniava il popolo italiano (...).» (GIACINTO CIACCIO in «Rivista del Cinematografo», 1963, 4, p. 169)
«(...) Lizzani ha preferito rivolgere la sua attenzione al dramma familiare, anche se, per necessità di racconto, ha dovuto rendere quanto più obiettivamente possibile, l'atmosfera di terrore e di paura di quel periodo. (...) Egli (...) ha cercato di intuire la parte più intima di questi uomini, ha messo in rilievo, cioè, le ragioni che li hanno spinti a determinare una svolta decisiva agli eventi. Sotto questo profilo, però, non si può parlare di opera storica, ma piuttosto del tentativo di scoperta di alcuni momenti caratteristici comuni ad ogni tempo, poiché gli uomini che vi agiscono sono mossi da sentimenti che con il periodo storico hanno ben poco da spartire. L'interesse per la vicenda (...) consiste dunque in una specie di esame di coscienza sui fatti, più che (...) in una interpretazione oggettiva. (...) Il film (...) è un dramma di corte e come tale va visto. (...) Lizzani (...) non ha voluto rinvigorire un'accesa polemica fra fascismo ed antifascismo, ma si è preoccupato di saldare l'unità esplodente di quel periodo, e soprattutto di riconoscere gli effetti di una lotta nata prima di tutto in seno agli stessi fascisti. (...)» (FRANCESCO DORIGO in «Cineforum», 1963, 27, pp. 655-656)
«(...) Lizzani ha affrontato questo tormentato capitolo di cronaca con rispettoso impegno di verità. (...) Non parliamo di una veridicità storica che pretenda di far rigorosamente coincidere ogni momento del film con un corrispettivo momento della realtà. La verità che Lizzani si propone di captare è la verità essenziale cioè lo spirito degli eventi descritti. Il significato profondo che emana dalla sua ricostruzione cinematografica rispecchia difatti con sufficiente adeguatezza il senso e la portata della vicenda più tragica della Repubblica di Salò. (...) Dal film risulta in pieno rilievo l'inconsistenza interna di un regime in liquidazione, animato da capi di scarso valore e di limitato senso di responsabilità che, sia pur fremendo, si adattano a tutte le servitù nei confronti di un temuto alleato che stenta, del resto, a camuffare del tutto sotto gli ingranaggi di una macchina organizzativa ancora impeccabilmente funzionante la vuota angoscia del declino e della sconfitta incombenti. (...)» (LUIGI BINI in «Letture», 1963, 5, pp. 381-382)
«(...) Lizzani (...) compie uno sforzo notevolissimo di obbiettività, quasi a volte sembra che si dimentichi della parte in cui sta. Tuttavia ciò non porta ad alcun equivoco, ma anzi (...), lo sviluppare con paziente imparzialità anche le ragioni degli altri, il serbare, anche, nobiltà a chi l'aveva (è il caso del personaggio di De Bono) consente alla fine con maggior forza, con la forza della verità, di imprimere a tutta la vicenda la giusta dimensione che la storia le ha dato e da cui scaturisce senta incertezze la condanna d'un regime e d'un pseudostato. (...) Il regista ha compreso che la materia che aveva in mano, proprio per la sua emblematicità, era tale da consentirgli di realizzare una severa tragedia moderna, i cui personaggi fossero, al di là del documento dei personaggi reali che indicavano con nome e cognome, centro di un dramma umano di più universale risonanza. Di qui la cura che Lizzani ha dedicato a Ciano (...).» (ERNESTO G. LAURA in «Bianco e Nero», 1963, 4, p. 59)
«(...) È questo clima di caos morale e di insicurezza che Lizzani ha ricreato in modo notevole. È l'assurdità stessa della Storia, a sostenere il suo carattere tragico, con la sua coorte di responsabili e di irresponsabili, di vittime colpevoli e di carnefici innocenti. Spettacolo seducente e insopportabile che occorre contemplare con lucidità, IL PROCESSO DI VERONA ci invita a un doloroso ritorno al passato. (...)» (GILBERT SALACHAS in «Téléciné» [Paris], 1963, 112)
«(...) In Italia come in Francia, ben poche persone sanno, si ricordano, parlano; il film di Lizzani costituisce appunto una testimonianza, un insegnamento, un ricordo. (...) Quando potremo vedere, in Francia, un film puramente aneddotico come questo, che resta aderente alla realtà, anche se un tantino la semplifica quando è necessario - diciamo, per esempio - sull'arresto di Lavai e sulla sua liberazione? (...)» (P.-L. THIRAM in «Cinéma 63» [Paris], 1963, 79, p. 128)
«(...) L'impresa era difficile. Un pericolo soprattutto esisteva: giocando la carta dell'obiettività, dell'umanità, Lizzani e il suo sceneggiatore Ugo Pirro rischiavano di attirare la simpatia del pubblico sulle vittime (...). Quella che bisognava fare era una tragedia senza la catarsi della pietà. (...) Per raggelare la pietà nella sua stessa sorgente, occorreva mostrare che il Destino che spezzava Ciano e i suoi complici non era una nemesi cieca, che opprimeva la nobiltà e il coraggio, ma una fatalità storica mille volte più giusta del più giusto dei tribunali. (...) Questi lupi divorati da altri lupi non ci interessano che come dei casi psicologici. Bisognava soprattutto suggerire la presenza di una forza in marcia che spezzerà presto i ridicoli vincitori di questo regolamento di conti, i Pavolini, i Farinacci, e la marmaglia repubblichina e le SS con tutta la loro aria di sufficienza. Anche in questo gli autori sono riusciti. Senza artifici, senza forzare la verosimiglianza, hanno saputo far circolare attorno al procedimento istruttorio e al processo la meravigliosa minaccia dell'insurrezione. Soltanto a queste condizioni potevano rendere giustizia alla dignità di De Bono, alla forza di carattere di Edda Mussolini. Potevano così, più in generale, entrare in quella che Pirandello chiama la ragione degli altri (in altre parole: nella pelle dell'avversario) senza che la forza della loro dimostrazione ne fosse compromessa. (...)» (RAYMOND BORDE, ANDRÉ BOUSSY in «Premier Plan» [Lyon] 1963, 30, p. 88)
Ma molti altri critici, soprattutto di parte marxista, hanno rilevato i limiti che condizionano, l'opera, la mancanza di un approfondimento nella critica e nell'accusa alle varie componenti del fascismo, giungendo anche a negare la portata antifascista del film.
«(...)Non parleremmo (...) di "documento storico" (...). Non siamo di fronte ad una "interpretazione ", ma ad una esposizione parziale dei fatti, sebbene la parzialità sia relativa perché le cose principali siano state dette e mostrate. Una "interpretazione ", lungi dallo spostare la visione delle cose su un piano soggettivo, avrebbe permesso di indagare meglio sul fenomeno fascista, nella sua fase finale, non solo come guerra fra compari di saccheggio, ma come ultimo tentativo di una parte della società italiana per difendere così i suoi interessi.» (C. T[ERZI] in «Avanti!», 8-3-63)
«(...) Lizzani (...) ha mirato ad una oggettività tra documentaristica e psicologica, da una parte curando con meticolosità l'azione e i particolari ambientali, dall'altra cercando di vedere tutta la vicenda dall'angolo visuale e intimo di Galeazzo Ciano e di sua moglie che furono, in effetti, i due più importanti protagonisti. Ma la meticolosità di ricostruzione, diciamo cosi, fenomenologica, ha portato spesso Lizzani a rappresentare i personaggi con le loro sole ragioni, senza lo sfondo d'un giudizio superiore, cosi che, non di rado, quelle ragioni ci sono offerte in maniera acritica e pericolosamente isolata, com'è il caso di Alessandro Pavolini e degli altri repubblichini. E il tentativo di ricostruzione dall'interno del dramma di Ciano ha invece spostato la rappresentazione verso la storia romanzata. Unidimensionali sono dunque gli scorci nelle convulsioni della repubblica di Salò; romanzesche le avventure di Edda Ciano. (...)» (ALBERTO MORAVIA in «L'Espresso», 17-3-63)
«(...) IL PROCESSO DI VERONA ha un appropriato tono funerario; i suoi protagonisti rivelano la falsa vitalità di un corpo scosso dalle contrazioni dell'agonia: da ogni parte incombono le grinte deprimenti e la simbologia iettatoria di un'ideologia scaduta che cerca di ritrovare l'illusione della giovinezza. (...) I fatti privati si intersecano con il quadro storico, suscitano consensi o dissensi di ordine psicologico, confondono il giudizio che lo spettatore è chiamato a pronunciare. Edda Mussolini (...) potrebbe persino guadagnarsi delle simpatie. Ora è davvero troppo presto per fare di simili personaggi degli eroi da romanzo, ammesso che ne abbiano la statura (...). Ci interessa Ciano di fronte ai suoi giudici e di fronte al plotone d'esecuzione, non Ciano in vestaglia davanti a sua
moglie. Lizzani (...) avrebbe dovuto ricordare la pagina in cui Eisenstein ammonisce i registi a non presentare i personaggi storici in pantofole (...).» (TULLIO KEZICH in «Settimana Incom Illustrata», 24-3-63)
«(...) Del fascismo repubblichino [Lizzani] ci mostra solamente la grinta vendicativa, trascurando invece di scandagliare il gioco non troppo sottile di talune correnti. (...) Tutt'al più ci suggerisce l'immagine, peraltro non priva di attendibilità, di una corte di avventurieri pronti a scatenarsi per la conquista di una poltrona ministeriale. (...) Addebitare a Lizzani di non aver spremuto più sugo dal tema con il quale si è cimentato, sarebbe una maniera come un'altra di circoscrivere sfasature che oltrepassano la personalità di un regista che, proporzionalmente all'acquisizione di un saldo mestiere, abdica a fatiche impegnative e delude le promesse e le speranze di ieri. (...)» (MIN0 ARGENTIERI in «Rinascita», 16-3-63)
«(...) Lizzani puntava, nelle intenzioni, (...) a cogliere nella fortunata ascesa di un personaggio del genere [di Ciano] e nella sua rapida rovina un processo di dimensioni più ampie e complesse, la crisi e il crollo di una classe dirigente mancata in un momento di drammatico trapasso, in una svolta della vita nazionale. La formula del "dramma di corte" (...) poteva risultare pertinente e accettabile nella misura in cui la rievocazione della "corte" fosse scesa in profondità, cogliendone le diverse componenti, le ramificazioni e i prolungamenti negli effettivi centri di potere della società (...). Riducendo la "corte" a una masnada di esasperate marionette e di lividi assassini, le figure dei due personaggi principali, i più "umani" ritrovavano su un piano di svolgimento "romanzesco ", accentuato dall'ambigua presenza di certe figure minori (Frau Betz e il marchese Pucci), una imprevista patente di nobiltà: il velleitarismo di Ciano, complice delle peggiori imprese del fascismo dall'assassinio dei fratelli Rosselli all'aggressione dell'Albania, si trasformava in incertezza e ritrovava nella sconfitta una nuova dignità, mentre la figura di Edda si rivelava dotata di una forza di indignazione, di una non comune misura morale dinanzi al sormontare della vigliaccheria e dei tradimenti. (...) Nata da certi intenti critici, [l'opera] si è rivelata di fatto non priva di preoccupanti consonanze con certi orientamenti del cinema tedesco del dopoguerra (...). E la pretesa "obiettività di un giudizio storico" si è rivelata, a opera conclusa, come una mancanza di reale approfondimento, una incertezza e reticenza di valutazione.» (A. F{ERRERO] in «Cinema Nuovo», 1963, 162, pp. 130-131)
«(...) Il campo lasciato alla fantasia e al romanzo è esiguo, solo quel tanto che era indispensabile per trasformare una serie di documenti in una serie di situazioni drammatiche. Compatto ed essenziale, il dramma si svolge tra pochi personaggi, può sembrare addirittura shakespeariano, dovrebbe essere carico di significati molteplici: e invece non è nemmeno un intrigo di corte, è una sbiadita cronaca di odi e rancori personali, una misera vicenda familiare. (...) Anche se il film fosse risultato quella possente tragedia dei tempi moderni che invece non è, il suo spirito antifascista sarebbe stato ugualmente nullo. Il giudizio sui fatti storici non, è mai razionale e basato su una visione più ampia del problema storiografico, ma preferisce affidarsi alla commozione e al sentimento. (...) La rappresentazione non aggiunge nulla, se non un piacere epidermico, alla cronaca degli avvenimenti. E questa è lacunosa (...). Ma c'è di più. La pietà umana per i condannati, giusta e doverosa, ne assolve totalmente i delitti, d'altronde non detti nel corso del film; cosicché alla condanna morale e politica si sostituisce l'assoluzione, e il film, che doveva essere un'opera contro il fascismo, si trasforma tutt'al più in una invettiva contro taluni esponenti della repubblica di Salò e contro i soliti aguzzini nazisti. (...)» (GIANNI RONDOLIN0 in «Il Nuovo Spettatore Cinematografico» n. s., 1963, 4, pp. 19-20)
«(...) Il film ha tradito le intenzioni dichiarate del regista, che erano quelle di rappresentare un momento della nostra storia nazionale e non le vicende private dei Mussolini e dei Ciano. Il risultato ottenuto non si discosta granché dai lacrimosi memoriali scandalistici, che hanno deliziato dalle pagine di diffusi rotocalchi gli interessi morbosi di serve e nostalgici. (...) Sarebbe stato troppo pretendere che la moglie di un produttore facesse la comparsa nella storia. Si è preferito, quindi, fare della storia una cornice per la moglie di un produttore. (...) Il presupposto stesso del nucleo centrale del film (il processo), e cioè la seduta del 24 luglio 1943 del Gran Consiglio, è stato fatto mancare completamente. (...) Mentre un rilievo immeritato vien assegnato sia alle traversie di Edda Mussolini, che in verità interessano ben poco la Storia (...), sia ai tentativi espletati dagli emissari di Ribentropp per recuperare i diari di Ciano; tentativi che sono sfruttati in maniera pretestuosa, unicamente per introdurre un'altra vicenda d'amore (...). Due storie d'amore tutte in una volta vanno bene al più per un melodramma, e appunto un grosso melodramma è il risultato di quest'ultima fatica di Lizzani. (...) La farsa offensiva di ogni norma legale celebrata nel castello degli Scaligeri, non è avvertita in tutta la sua enormità. (...) Solo nella figura del pubblico accusatore (...) è rivissuto il fascismo, che per il resto è stato il grande assente del film, come anche l'antifascismo (...) che (...) appare appena sussurrato con rapidi e superficiali accenni. (...)» (M. M. in «Cinema 60», 1963, 34, pp. 45-46)
«(...) Il giudizio sul comportamento morale dei protagonisti del processo di Verona, carnefici e vittime, porta con sé un preciso giudizio sulla responsabilità del cittadino che in qualche modo vorrebbe riconoscersi in una delle due parti. (...)» (GIOVANNI GRAZZINI in «Corriere della Sera», 3-3-63)
«(...) Lizzani (...) ha capito che gli avvenimenti contenevano (...) una forza di denuncia che non poteva non operare nelle coscienze degli spettatori: da quelli che avrebbero ricordato a quelli che si sarebbero stupiti. Una lezione morale, quindi (...).» (A. S[ALA] in «Corriere d'Informazione», 8/9-3-63)
«(...) Un film che sotterra cristianamente gli ultimi fascisti suggerendo irrevocabili, ma non disumane condanne (...).» (LEO PESTELLI in «La Stampa», 3-3-63)
«(...) Lo spettacolo penoso e macabro che il film offre, dovrebbe essere illuminante per le nuove generazioni. (...)» (UGO CASIRAGHI in «L'Unità», 3-3-63)
«(...) La semplice rappresentazione dei fatti, in cui le eventuali idee che li sottendono esauriscono la loro carica polemica nel corso della rappresentazione stessa, mi pare fondamentalmente inutile e financo dannoso (...). Se [il film] esaurisce nello spettatore comune e digiuno di altre conoscenze storiografiche il desiderio di una maggior valutazione dei fatti relativi al processo di Verona, io lo considero senz'altro dannoso. Se invece esso si aggiunge, sotto forma di spettacolo piacevole, alle altre conoscenze che già posseggo su quei fatti, allora risulta sostanzialmente inutile. (...)» (GIANNI R0ND0LIN0 in «Il Nuovo Spettatore Cinematografico» n. s., 1963, 4, pp. 20-21)
«(...) L'assenza di stridenti deformazioni settarie e la presenza di una vibrante pietà umana per i protagonisti della vicenda, rendono ancora più incisiva ed accettabile la lezione di umanità e di libertà che emana dall'opera. (...)» (LUIGI BINI in «Letture», 1963, 5, p. 383)
• Il film rievoca il periodo storico compreso tra il 24 luglio 1943 e l’11 gennaio 1944, dalla seduta del Gran Consiglio del fascismo (24/25 luglio), in cui venne approvato l'ordine del giorno presentato da Dino Grandi che portò all'arresto di Benito Mussolini e alla nomina del maresciallo Pietro Badoglio come capo del Governo, fino alla liberazione di Mussolini e alle vicende del processo intentato dai fascisti del nuovo Partito Fascista Repubblicano, sotto il controllo tedesco, contro alcuni dei 20 firmatari dell'ordine del giorno (Galeazzo Ciano, Giovanni Marinelli, Emilio De Bono, Tullio Cianetti, Luciano Gottardi e Carlo Pareschi): tutti gli imputati, eccettuato Cianetti, vennero condannati a morte e fucilati a Verona nella mattina dell'11 gennaio 1944.
• Le fonti sulle quali è stata basata la ricostruzione dei fatti rievocati furono i Diari di Galeazzo Ciano, Due donne nella tempesta di Vittorio Mussolini, Benito, il mio uomo di Rachele Mussolini, il volume del dott. Cersosimo che fu giudice istruttore del processo di Verona e le interviste condotte nel dicembre 1962 a Verona con alcuni testimoni (tra i quali padre Dionisio Zilli che accompagnò il corteo dei condannati davanti al plotone d'esecuzione).
• Le riprese del film, iniziate nell'ottobre 1962 e terminate nel febbraio 1963, furono effettuate a Roma e a Verona. Gli interpreti del film furono scelti e truccati in funzione della loro somiglianza fisica con i personaggi che dovevano interpretare.
• Carlo Lizzani, nato a Roma il 3-4-1922, cominciò a occuparsi di cinema nel 1942 entrando a far parte dell'equipe della rivista «Cinema». Entrato nelle file del Partito Comunista durante la Resistenza, nel dopoguerra cominciò a occuparsi anche di realizzazione; dopo un periodo di apprendistato come sceneggiatore, aiuto regista e attore (con A. Vergano per IL SOLE SORGE ANCORA [1946], con G. De Sanctis per CACCIA TRAGICA [1947] e RISO AMARO [1949], con A. Lattuada per IL MULINO DEL P0 [1948] e con R. Rossellini per GERMANIA ANNO ZERO [1948]), realizzò alcuni documentari di contenuto sociale, esordendo quindi nel lungometraggio con ACHTUNG, BANDITI! (1951). Tra i film più Importanti della sua carriera ricordiamo inoltre CRONACHE DI POVERI AMANTI (1954), LO SVITATO (1956), LA MURAGLIA CINESE (1958), ESTERINA (1959), IL GOBBO (1960), LA VITA AGRA (1964) e SVEGLIATI E UCCIDI (1966). Nel 1953 ha pubblicato anche una pregevole Storia del cinema italiano, presentata in una nuova edizione aggiornata nel 1961.
• Ugo Pirro, nato a Salerno il 24-4-1920, esercitò vari mestieri affermandosi come giornalista e quindi come scrittore (con i romanzi Le soldatesse, Jovanka e le altre e Mille tradimenti) e come autore drammatico. Nel cinema dal 1952 come soggettista e sceneggiatore (ACHTUNG, BANDITI! di C. Lizzani), ha collaborato, fra gli altri, a film come IL SOLE NEGLI OCCHI (1953) di A. Pietrangeli, UOMINI E LUPI (1957) e LA GARONNIÈRE (1960) di G. De Santis, SVEGLIATI E UCCIDI (1966) di C. Lizzani.
• Per notizie su L. Barboni v. FERROVIERE (IL); su M. NASCIMBENE e S. Mangano v. BARABBA; su S. RANDONE v. GIORNI CONTATI (I).
• Frank Wolff, nato a San Francisco (California), durante gli studi di medicina cominciò a occuparsi di teatro come attore, regista e autore, e in questa materia si laureò alla California University di Los Angeles. Dopo aver iniziato senza molto successo la carriera di attore in teatro, in televisione e nei cinema, trovò finalmente l'occasione favorevole in Italia, interpretando il personaggio del bandito Pisciotta in SALVATORE GIULIANO (1962) di F. Rosi. Dopo aver partecipato in Italia anche a LE QUATTRO GIORNATE DI NAPOLI (1962) di N. Loy, a IL DEMONIO (1963) di B. Rondi ed a IL PROCESSO DI VERONA (1963), è tornato in America per interpretare AMERICA AMERICA (1963) di E. Kazan, ma tuttora lavora abitualmente in Italia.
• La proiezione del film fu ostacolata da una serie di istanze di sequestro. Poche ore prima che fosse presentato in anteprima mondiale al cinema San Marco di Venezia (1-3-63) la contessa Edda Ciano e l'ex console generale della milizia fascista Italo Vianini presentarono due istanze di sequestro al pretore di Venezia (Leone Luzzato) che fece sospendere la proiezione. Nella domanda di sequestro, Edda Ciano dichiarava di riscontrare nel film «molteplici e grossolane falsificazioni della verità, senza rispetto per i sentimenti di coloro che, tuttora viventi, soffrono della grave ingiustizia subita», mentre I. Vianini richiedeva soltanto il taglio di una scena che lo riguardava (il ballottaggio per non far arrivare a Mussolini le domande di grazia). Autori e produttori riuscirono tuttavia, Son un espediente legale, a far proiettare il film in un cinema di Mestre il 2-3-63. E. Ciano e I. Vianini inoltrarono allora analoghe richieste alla Pretura di Mestre che tuttavia ritenne improponibile l'istanza di sequestro e trasmise gli atti alla pretura di Roma, dove il caso era già in discussione. E. Ciano inoltrò allora una memoria al pretore di Roma, accusando quanti avevano contribuito alla realizzazione del film di aver violato il segreto che copre i documenti degli archivi di Stato. Al pretore di Roma vennero inoltrate contemporaneamente altre istanze di sequestro da parte di Rachele Mussolini e di sua figlia Annamaria, e dai familiari di Giovanni Marinelli, di Luciano Gottardi e di Roberto Farinacci. Tuttavia li 23-3-63 il pretore di Roma, con una ordinanza, dichiarava prive di fondamento le proteste dei Mussolini, tenendo conto del fatto che «gli autori del film, nel ricostruire gli episodi, si sono attenuti ai documenti e alle informazioni fornite dagli stessi protagonisti». Per notizie circa le controversie che hanno accompagnato la lavorazione e l'uscita del film cfr.: « Corriere della Sera », 2-3-63 e ibid., 3-3-63; « Corriere d'informazione », 21/22-3-63; « Corriere Lombardo », 28-3-63 e ibid., 21/22-3-63; « Le Ore », 14-3-63; « Lo Specchio », 10-3-63; « La Stampa », 2-3-63 e ibid. 15-3-63; « L'Unità », 2-3-63.
• Dalla copia in circolazione, rispetto all'originale, presentata in visione privata alla contessa Edda Ciano, è stata tolta la sua fuggevole apparizione nell'aula del tribunale speciale di Verona.
• Il film è uscito a Milano il 7-3-63; a Parigi il 17-8-63, con il titolo LE PROCÈS DE VERONE.
• Uscito in Italia nel marzo 1963, il film ha incassato in 15 città capozona per complessivi 345 giorni, L. 171.723.000 ;indice di frequenza, 201 (dati aggiornati al 31-10-63; da «Cinemundus»).
• «La sceneggiatura di Ugo Pirro, da me pienamente sottoscritta, racchiude, ovviamente, in una “rappresentazione” di due ore, una vicenda che si svolse nel tempo reale di alcuni mesi. Opera una scelta, una selezione: concentra drammaticamente una miriade di fatti decisivi in una sequenza sintetica, e quindi esalta, mette in luce soprattutto i punti nodali della vicenda realmente accaduta. Trascurando molte ombre e dettagli, forzandone altri. Inoltre impernia la storia sui personaggi essenziali, e quindi fa si che questi personaggi vengano ad assumere, in determinati momenti, non dico il valore di simbolo, ma aspetti e accenti che un poco li trascendono. Se ci sarà un pericolo, sarà nel senso che le figure principali, e specialmente quella di Edda Ciano e di Galeazzo Ciano, appariranno forse più tragicamente coscienti del loro destino di quanto in realtà non lo siano state.» (C. LIZZANI, cit. in «Avanti!», 6-10-62) «(...) Secondo me l'apparire di certi personaggi della storia contemporanea, identificati con nome e cognome, visti in momenti reali della loro vita, può non essere in contraddizione col profilo generale del nostro cinema attuale. A parte i risultati (...), il principio di una ricerca in questa direzione mi sembra assolutamente moderno, sostenibile e gravido di sviluppi positivi. (...) Qual'è il problema fondamentale per gli autori che vogliono arrischiarsi su questa strada? E possibile interpretare a distanza di pochi anni momenti storici e personaggi complicati, discussi e tante volte ancora inaccessibili per l'inviolabilità dei segreti di Stato o dei diritti alla riservatezza sulla vita privata? Nella realizzazione del PROCESSO DI VERONA ci siamo trovati spesso di fronte a queste difficoltà. È chiaro che la scena immaginata, o meglio ricavata da testimonianze indirette, risulterà qualche volta meno efficace e incisiva della scena ricostruita su prove inoppugnabili. Altre volte invece, la sintesi operata artificialmente dagli autori, potrà rendere più chiari certi conflitti o certi personaggi che la realtà ci offre polverizzati in frammenti, e che presi a sé potrebbero apparire insignificanti. Insomma si tratta di porsi di fronte a determinati fatti e personaggi sui quali manca il documento diretto, nella stessa posizione in cui ci metteremmo se dovessimo rappresentare avvenimenti e figure di molti decenni orsono, o addirittura del secolo scorso. E quello che abbiamo tentato di fare costruendo il personaggio di Ciano. (...) Certo, seguendo questa linea - nella raffigurazione di personaggi della storia recente o contemporanea - possono sorgere enormi difficoltà, una quantità di scontri con le persone "messe in scena" e ancora viventi, o con i loro eredi. Ma se la posizione degli autori è storicamente giusta, se il film risulta realizzato non per scopi scandalistici, anche questa censura privata agguerritissima e fino a un certo punto legittima, dovrebbe esser battuta. (...) Una volta con le campagne di stampa cadevano anche i governi. Oggi ci vuoi altro. Forse un grande correttivo del costume, una bomba con la miccia sempre accesa sotto la sedia dei potenti potrà essere costruita, nel futuro, da questa grande e nuova paura di essere "messi in scena" davanti a milioni di spettatori - e di spettatori contemporanei. (...)» (C. LIZZANI in ANTONIO SAVIGNANO [a cura di], Il processo di Verona di Carlo Lizzani, Bologna, Cappelli, [1963], pp. 35-38)
• Il film può essere indicato per cicli sul film storico, sul cinema italiano post-realistico, sulla storia recente d'Italia (il fascismo), sul cinema usato come mezzo di documentazione d'una realtà storico-sociale.