ROMA BENE
Regia: Carlo Lizzani
Lettura del film di: NAT
Edav N: 26/28 - 1971
Titolo del film: ROMA BENE
Titolo originale: ROMA BENE
Cast: regia: Carlo Lizzani – sogg.: Luigi Bruno Di Belmonte (dramma) – scenegg.: Luciano Vincenzoni, Nicola Badalucco, Carlo Lizzani – fotogr.: Giuseppe Ruzzolini – scenogr.: Flavio Mogherini – mus.: Luis Enriques Bacalov – mont.: Franco Fraticelli – cost.: Marina De Laurentiis, Adriana Berselli – arred.: Daniele Mogherini – interpr. princ.: Nino Manfredi (Commissario Quintilio Tartamella), Senta Berger (Dede), Vittorio Caprioli (Barone Maurizio De Vittis), Virna Lisi (Silvia Santi), Philippe Leroy (Giorgio Santi), Irene Papas (Elena Teopulos), Michèle Mercier (Betty), Umberto Orsini (Marito di dede), Gastone Moschin (Il monsignore), Franco Fabrizi (Nino) colore- durata: 113’ – V. M. 14 anni – origine: ITALIA, 1971 – produz.: Nino Crisman per Castoro Film Marianne Productions (Parigi), Oceanic Filmproduktion(Monaco) – distrib.: Ceiad
Sceneggiatura: Luciano Vincenzoni, Nicola Badalucco, Carlo Lizzani
Nazione: ITALIA
Anno: 1971
Chiavi tematiche: Carlo Lizzani nato a Roma il 3 aprile 1922 e morto a Roma il 5 ottobre 2013 a volte noto anche come Lee W. Beaver
Lizzani, sempre attento ai fatti di costume del nostro tempo, questa volta se l'è presa con la Roma-bene, cioè con quella parte di fauna umana afflitta dal blasone della nobiltà o dei soldi (ma tanti!) o dell'una e degli altri insieme.
A che cosa porti quel blasone, è quello che Lizzani cerca di dire, rifacendosi genericamente a fatti di cronaca e mettendoli insieme nella storia di un gruppo di tali persone, ciascuna delle quali ha un suo certo cammino narrativo che - un po' dall'esterno - s'intreccia con quello degli altri. Dalla serata che apre il film emergono i vari personaggi, oltre che lo sfondo di alcune situazioni, che da soli o legandosi ad altri (il prelato del Vaticano, l'ingegnere ecc.) daranno il via ad alcuni episodi più appariscenti, per ricongiungersi poi nella vicenda finale dello yacht, i cui croceristi diretti in Tunisia annegano per essersi dimenticati di abbassare la scaletta; mentre il prelato col suo aliscafo e l'ingegnere col suo bimotore, ambedue in piacevole compagnia, li sorpassano senza accorgersi del tragico destino dei colleghi. Il tutto è contrappuntato dalla presenza di un solerte commissario di polizia (con l'inseparabile poliziotto Tognon) che finirà nominato ispettore per impedirgli ulteriori indagini sull'omicidio commesso da una, ora, vedova allegra. Prima, il commissario, scoperto il barone ladro, l'aveva dovuto lasciare a un giudizio che avrebbe fatto passare per scherzo di società il suo furto; scoperta la finta estorsione di 300 milioni, aveva dovuto ritirarsi di fronte alla responsabilità di 200. 000 disoccupati che l'arresto dei manigoldi avrebbe procurato. E ora, promosso improvvisamente ispettore, può dire almeno d'esser stato promosso per aver compiuto il suo dovere...
Che fa questa gente-bene? Intrallazza, in ogni senso, in ogni campo. E cerca di usare i soldi guadagnati (o rubati) per divertirsi nelle maniere più noiosamente stravaganti. Ci sono battute: filmiche d'una enorme violenza: l'episodio del barone che ingoia gli smeraldi rubati - tutti lo sanno - e che viene riammesso; il prelato che passa dalle riunioni apostoliche a quelle meno sacre del suo aliscafo privato per i suoi traffici internazionali, mai sprovvisti di femmine; la moglie dell'arrampicatore fallito che si dà alla prostituzione di lusso; la donna che sposata al vecchio greco vuoi "distruggere il matrimonio ma non il patrimonio" e ci riesce con l'aiuto della madre 5 volte vedova e che con gli aiuti internazionali, prelato compreso, sfugge - come detto - al commissario; l'arrampicatore finisce di sincope, il prelato e l'ingegnere probabilmente concluderanno a Tunisi i loro affari e gli altri muoiono vittime della loro ricchezza e della loro incauta voglia di divertimento.
Storia-mosaico inventata, i cui tasselli sono veri o verisimili.
Una stentata tematica risulta dalla vicenda: tanto va la gatta al lardo che ci lascia - forse - lo zampino, comunque i soldi non fanno la felicità.
Ma un'altra quasi tematica risulta dall'ambientazione e dai tasselli del mosaico: una denuncia, facendola conoscere, d'un modo di vivere che non può essere umanamente sopportabile.
Ma a questo punto, si affaccia il problema dei film di critica del costume, Lizzani - diciamolo subito - non è il solito regista che maschera di tematiche d'attualità i suoi film per fare cassetta. Senza cassetta, è ovvio, nemmeno egli riuscirebbe a fare film in discreta abbondanza; ma i suoi intenti sono molto più seri di altri. In un film come questo (pare che l'idea gli sia venuta dopo il caso Casati, ma non ne rimane traccia almeno apparente), non poteva chiamare con nome e cognome i suoi episodi, così come p. e. in BANDITI AMILANO. So che ha indagato in quel mondo, ha raccolto testimonianze dirette. Ma la storia è inventata e i casi - verosimili, forse veri, ma abnormi - senza nome e cognome non fanno testo.
Che cosa resta dunque del documento di costume, della pur sacrosanta denuncia? Ecco il problema.
Il film proiettato in una sala dei Parioli, la zona di molta Roma-bene, ha visto il pieno e gente in piedi tutti i giorni e a tutte le ore. Ha sentito risate abbondanti ai punti vari della vicenda. Forse che quella gente (se non proprio quella "bene" del film, certo molta del giro un po' sotto e che comunque aspira alla stessa vita) ha raccolto la denuncia? Per LA DOLCE VITA quella gente-bene era scattata; questa volta il film se ne va via calmo. Solo il fatto dei 10 anni che stanno tra i due film?
A livelli societari più bassi, il film si pronuncia meglio come denuncia. Ma che cosa produce di fatto? Certo diffidenza e disistima, probabilmente rancore, ma non è escluso anche un fondò di invidia. In fondo, se capita a me, la scaletta dello yacht non c'è pericolo che la lasci alzata..
Temo che film come questi, anziché denunciare facciano piuttosto scuola: attraverso i desideri, le invidie; creino più fratture tra classi (non precisamente borghesi, bensì tra te che hai quello che io non ho e me, anche se tu non hai quello che io ho!) che unire in una solidarietà di pulizia socia le e individuale.
È un grosso interrogativo che si pone, sotto il profilo morale, di fronte a questi film di denuncia e satira del costume, finché sono fatti in certo modo (eppure quello di Lizzani è migliore di certi altri). Non è questione di nudi o di presentazione del male: è questione di struttura, di informazione materiale pura e semplice, di psicologia del pubblico d'oggi. E' allora questione - se vogliamo vedere il problema in dimensione più vasta, alla quale questo film ci dà solo occasione di pensare - di politica pastorale che solo apporti specificatamente scientifici sono oggi in grado di determinare e di seguire, al di fuori degli empirismi del cosiddetto buon senso e della cosiddetta buona sensibilità. (NAT)