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REALTÀ E MASS MEDIA: CONSEGUENZE ETICHE, POLITICHE, EDUCATIVE


di LUIGI ZAFFAGNINI
Edav N: 361 - 2008

L’articolo ampliato e completo di foto, schemi si trova in Edav n. 361 giugno 2008 

La domanda fondamentale sulla realtà.
Già piú di quarant’anni fa Taddei si preoccupava di confrontare il valore della realtà con quello dell’immagine con parole chiare e significative:
«La realtà è una parola di moda; e lo è sempre stata. Dal realismo ilemorfico degli Scolastici al realismo storico dei marxisti o al fenomenologismo dei post-esistenzialisti (ma si può arrivare all’indietro fino alle origini conosciute del pensiero umano), questa parola sacrée rimbalza di epoca in epoca. La realtà. E cos’è questa benedetta realtà? Già, è la res (e oggi si dice perfino “reificare”!), ciò che è, lí, fuori di noi, con una sua autonoma esistenza, sia che la conosciamo, sia che non la conosciamo. Anche noi siamo realtà; ed è realtà anche il nostro pensiero, la nostra stessa conoscenza della realtà. D’accordo. Ma chi interpreta in un modo e chi in un altro […]. E cos’è dunque questa realtà? Quantitativamente, è tutto ciò che esiste […]. E cos’è? […] Però qualcosa possiamo pur dire. La realtà è qualcosa — diciamo — “dentro” ed è qualcosa — diciamo — “fuori”. Non disturbiamo Kant col noumeno e col fenomeno, ma siamo lí (a parte ogni valutazione filosofica); non disturbiamo Marx e tutti gli altri pro o contro, ma siamo lí. […] È sempre questione di piani e di livelli; è questione di non confondere... la sostanza con gli accidenti. Comunque, si può veramente dire che una seggiola è una seggiola, che un uomo che cammina è un uomo che cammina e che — alla fin fine — ogni realtà dell’universo è qualcosa in se stessa ben definita (anche se non sempre da noi ben definibile) ed ha dei “contorni” con i quali essa si presenta».
 
La cultura che ha favorito il distacco dalla realtà.
In queste riflessioni ci sono tutti i capisaldi di una strategia che, oggi piú che mai, dovrebbe essere sentita come il solo orientamento educativo capace di raddrizzare e rafforzare quella cultura che rende una società autenticamente civile e progredita.
Diciamo dovrebbe, perché in pratica le cose stanno ben diversamente.
Tutto parte dal relativismo che negli ultimi venti anni si è affermato dopo la crisi delle precedenti proposte culturali (razionalismo, positivismo, nichilismo ecc.), costituendo le basi della cultura «postmoderna» ovvero del «pensiero debole», come è conosciuto dai piú.
Perché si capisca in concreto cosa vuol dire relativismo bisogna pensare che si tratta di un modo di ragionare che fa sembrare giusto come principio generale, volta per volta, in chiave sempre diversa, quello che è invece il punto di vista di un gruppo relativamente ristretto. Gli esempi sotto gli occhi di tutti sono quelli secondo i quali sono stati da tempo proposti, attraverso i media, sul piano politico-legislativo modi di vita che riguardano specificatamente i gay o la struttura della famiglia o la libertà d’aborto o l’eutanasia. In questo modo il relativismo è stato perfettamente «mimetizzato»; cioè di esso viene tenuto nascosto, dietro il paravento della tolleranza verso tutti, quanto invece conviene strumentalmente a chi vuole mettere sullo stesso piano norma ed eccezione, per ottenere o mantenere il potere con l’appoggio di determinati gruppi di pressione. A questo carattere di presunta tolleranza si aggiunge il fattore emotivo che fa leva su particolari casi umani per suscitare una generalizzazione (fig. 1). In tal modo si permette di far dipendere il contenuto della morale sempre piú da una prospettiva puramente umana, determinata da situazioni particolari e sempre meno da una concezione religiosa fondata sul valore della persona umana in generale.
Un sistema di pensiero come questo ha soddisfatto indubbiamente le esigenze di molti e ha portato i comportamenti individuali a un livello notevole di egocentrismo, per non dire di egoismo. Tuttavia per realizzarsi tale sistema è dovuto venire meno alla coerenza interna e cadere spesso nelle formule della sofistica. Ciò vuol dire che si è fatto prevalere un atteggiamento tollerante e «giustificazionista» verso se stessi, mentre si è adottato un giudizio accusatorio e moralista verso gli altri, a seconda del momento e di ciò che faceva comodo. L’utilitarismo spicciolo e, ai nostri giorni, il potere in se stesso sono l’obiettivo della pratica sofistica adattata ai tempi.
Punto di forza di questa sofistica è una comunicazione che si propone sempre di persuadere, caso mai di condizionare, ma che non aiuta assolutamente ad argomentare, cioè a ragionare correttamente. Questo tipo di comunicazione è quello che si fonda sul linguaggio dell’immagine e che fa derivare da esso un modo di pensare che, anche quando si fa a meno dell’immagine, usa comunque la stessa logica. Si tratta in fondo di una vera e propria comunicazione sofistica sui generis il cui scopo è quello di fare in modo che chi riceve il messaggio non si accorga del fine ultimo ingannevole, e quindi si schieri emotivamente a favore di qualunque asserzione o obiettivo vengano proposti dal comunicante, soprattutto se assumono l’aspetto di un principio astratto che sembra soddisfare un diritto individuale indiscutibile. Masse considerevoli di persone manifestano contro la guerra o si muovono contro i maltrattamenti degli animali, mosse dallo stesso sentimento, che fa loro difendere il principio abortista, senza avvertire la minima contraddizione. Interi paesi, come la Spagna del 2004, hanno scelto, addirittura, il proprio governo reagendo emotivamente a un attentato.
Questo sistema di pensiero, dunque, ha il difetto di essere troppo dipendente dalle mode e dalle ondate emotive che contraddistinguono l’atteggiamento di massa del nostro tempo su cui gioca, come s’è detto, la sua funzione strumentale il mondo dei massmedia.
Pertanto succede che, mentre da una parte si afferma soggettivamente il primato dell’individuo e il conseguente relativismo dei valori, contemporaneamente si pretende dalla intera società il rispetto di regole e di comportamenti nella concreta realtà, moralisticamente imposti a tutti gli altri.
 
La comunicazione sofistica copre le contraddizioni.
Dobbiamo dunque parlare di un predominio della comunicazione sofistica, la cui contraddizione interna sarebbe evidente, se le persone fossero maggiormente preparate a coglierla. Invece la sua natura profonda non viene percepita da quasi nessuno degli intellettuali e tanto meno dalla gente comune. Volere salvaguardare l’individualismo estremo dei diritti e pretendere al tempo stesso doveri e comportamenti ben precisi e concreti negli altri, non è solo un fenomeno di natura egoistica individuale, ma soprattutto un filo conduttore della nostra cultura. Cultura che viene quotidianamente insegnata e divulgata dai mezzi di comunicazione di massa e che genera, conseguentemente, un modus vivendi che solo per poco ancora potrà tenere nascosto il contenuto di grande violenza individuale e collettiva che vi si cela dietro.
Ma questa cultura e questa mentalità non nascono a caso in Occidente e soprattutto in Italia. Non nascono dalla esistenza dei massmedia, anche se da essi sono favorite e divulgate. Nascono da una lunga tradizione ideologica imposta come concezione radicale di massa, sfruttando proprio le caratteristiche di cinema, stampa, televisione e internet. Alla base di questo orientamento ideologico vi è una costante di pensiero che si è tradotta in una piú o meno consapevole adesione politica, anche in chi pensava di essere distante o addirittura oppositore delle teorie totalitarie. A giustificare un atteggiamento del genere è sempre stato il convincimento di «stare dalla parte giusta». E stare dalla parte giusta ha sempre voluto dire fare una lettura semplificata della storia e del Vangelo. Una sorta di autostima etico-politica, fondata su un complesso di superiorità morale. Trascurando, infatti, la realtà in sé, dimenticando la storia nel profondo, dissimulando la componente ideologica del culto del potere dietro il paravento della giustizia per tutti e del bene comune, si è costruita una nuova morale sociale. Essa si fonda, non sullo sforzo di migliorarsi individualmente per tendere alla perfettibilità di un sistema sociale, ma sulla superbia di credere di possedere già in teoria il modello di come dovrebbe essere la società, col quale modello spiegare i fatti quotidiani. 
 
Idee di massa e manicheismo.   
Per questo le idee allo stato di opinione, che costituiscono la base delle ideologie massificanti, rappresentano, oggi, un dato di fatto diffuso e radicato. La mentalità dominante non corrisponde mai a una ricerca personale seria ed approfondita della realtà, ma sempre e solo a una risposta immediata ed emotiva, a un sommario giudizio, sulla base di valutazioni invariabilmente date prima di una lettura dei fenomeni.
Oggi, quindi, la tendenza culturale piú diffusa è quella che ha portato all’estremo il bisogno di spaccare sempre verticalmente il mondo in due parti: da un lato il bene e dall’altro il male. Da una parte i buoni e dall’altra i cattivi.
Per questo si potrebbe tranquillamente affermare che un neo-illuminismo semplicistico pensa ancora che l’uomo sia buono per natura e che le idee corruttrici e gli esempi corruttori di una società corrotta lo facciano deviare dalla sua originaria ingenuità.
Ma, per decidere quali sono le idee corruttrici e per catalogare i comportamenti corruttori, la mentalità dominante fa ricorso proprio a una comunicazione sofistica. Tutto sta nel dimostrare che i buoni sono quelli che credono buone le teorie che promettono di realizzare società perfettamente funzionanti in teoria e i cattivi sono quelli che si richiamano alla realtà e che smascherano di volta in volta le contraddizioni e la violenza materiale e morale di coloro che si accontentano di avere fede in un modello terreno. Reciprocamente, quindi, pochi «opinion makers», cosí come i leaders politici, che fanno della ideologizzazione il proprio pane quotidiano, si attribuiscono la funzione di definire ciò che è bene e ciò che è male per i molti (fig. 2). È in questo, soprattutto, che risiede il potere, oggi come ieri. Il potere è raggiungere e detenere il ruolo in cui sia possibile imporre agli altri ciò che risponde al seguente assunto pensato, ma mai dichiarato apertamente: – Lo so io che cosa è giusto per te! –. E tutti non si accorgono che resta loro solo il compito di obbedire, ma credono che quello che viene loro additato sia giusto per sé e per gli altri (il cosiddetto bene comune). Cosí, in passato, si sono sempre costruite le società ingiuste e cosí si costruisce, oggi, la società di massa postmoderna, secolarizzata e pragmaticamente materialista.
Questo manicheismo moralistico è proprio figlio del relativismo e della diffusione generalizzata della comunicazione sofistica, che, negli uomini del potere, ha sostituito la comunicazione autoritaria e/o paternalistica dei passati regimi. L’abilità nella comunicazione come strumento di potere consiste proprio nell’esprimersi in modo tale da produrre negli altri il massimo dell’individualismo coniugato con il massimo del conformismo senza che gli altri se ne avvedano. In buona sostanza il costruttore di opinione oggi ragiona cosí: «La mia idea e la mia volontà possono dominare sugli altri, purché rinunci a esternare il mio proposito utilitaristico». In tal modo si scambia il valore della conoscenza e della intelligenza (capacità di andare a fondo nella lettura delle cose) con la astuzia (capacità di uscire sempre vincitori con vantaggio personale in ogni situazione).
 
Nella comunicazione sofistica si modifica il concetto di realtà.
Quindi, tutto il problema della esperienza viene spostato dal livello del contatto autentico con la realtà al livello superficiale del linguaggio e di ciò che si afferma, senza bisogno o possibilità di controllo e di verifica. Per di piú, quando un sistema di convivenza civile, come la democrazia, viene svuotato di valori forti e di principi, quali per lungo tempo sono stati quelli cristiani, si perde del tutto la possibilità di tale controllo, che viene piuttosto delegato incoscientemente ai media, diventati, ormai, giudici e maestri di interi Paesi, al servizio dei gruppi di potere.
Inoltre il problema dell’utilizzo dei linguaggi nella comunicazione sofistica punta piú alla capacità di organizzare bene il discorso (cioè alla struttura dei segni) e alla caratteristica esteriore dei messaggi che non al rispetto di quegli aspetti che Taddei indicava come «verità logica», «verità morale» e—«verità ontologica» (v. EDAV n. 359, p.7). Soprattutto, la comunicazione sofistica stravolge il concetto di verità morale (intesa come adeguamento della mente alla realtà), perché prescinde dall’obbligo di un vincolo con la realtà conosciuta. La verità morale viene, cosí, rispettata solo apparentemente, in quanto il riferimento non è piú alla realtà in sé, ma alla idea, al disegno di imporsi sugli altri e quindi alla esigenza di trovare i segni adatti allo scopo. In poche parole: è l’obiettivo che si intende raggiungere (cioè l’idea progettuale) che diventa una realtà, rispetto alla quale formulare una nuova idea da tradurre in segni.
Esemplificando banalmente: non è piú un qualunque evento in sé la realtà di cui parlare; essa è quello che si vuol far diventare quel determinato fatto nei confronti dei destinatari della comunicazione per ottenere il loro consenso.
Se ad esempio la realtà di fronte a cui ci si trova è un fatto di violenza contro una donna, nel mondo della comunicazione sofistica la realtà circa cui ci si impegna non è l’informazione sul fatto in sé, ma quanto il fatto può «rendere» in termini di potere convincente nei confronti di un pubblico. È l’interpretazione piú adatta «in funzione di…». E «in funzione di…» vuol dire tante cose: dal vendere piú giornali o avere piú audience, fino al vero e proprio obiettivo di formare il modo di pensare del pubblico per garantire il consenso alla propria parte politica (fig. 3). La realtà come semplice verità dei fatti finisce per rimanere, quindi, molto, ma molto, indietro rispetto alla necessità di conquistare il consenso delle persone e di tenerle legate alla concezione di vita che il medium vuole sostenere.
 
La comunicazione deve affermare una morale e non il moralismo.
Il senso dell’importanza di affermare una morale al posto del moralismo, attraverso la comunicazione, si comprende solo se alla concezione della divisione verticale del mondo se ne sostituisce un’altra: quella di una divisione orizzontale della società, quanto a capacità di ancorarsi alla realtà. Chi è in grado di riconoscere che nella conoscenza vale di piú il reale, rispetto alla quantità di interpretazioni ideali che vengono comunicate dagli altri, appartiene a una fascia che trasversalmente tocca ogni genere e ogni tipo di persone, indipendentemente dall’ambiente, dalla cultura e dalla ideologia cui appartengono. Tale fascia rappresenta di per sé un livello di moralità del pensiero piú alto di quello di chi si affida semplicemente alle idee altrui, per il solo fatto che non costringe la realtà dei fatti a piegarsi fino a quadrare con le teorie che si sono sposate. Chi, al contrario non riesce a distinguere tra ciò che gli viene comunicato (le idee degli altri) e la esperienza diretta nei confronti della realtà è portato ad appartenere a una fascia umana, anch’essa trasversale, che non può far altro che applicare nei suoi giudizi quel moralismo di cui s’è detto e quella conflittualità con se stesso e con gli altri, dovuta alle contraddizioni di un pensiero relativistico.
 
La stratificazione dei livelli morali.
Anche nella visione della componente umana si deve accettare una natura fatta di male, che sta al fondo di ognuno, e di bene che sta a un livello piú alto, ma che si può raggiungere solo se ci si innalza dal livello basso nel quale tutti, in quanto uomini, sono e possono essere invischiati. Non è questa la teoria del peccato originale venduta a buon mercato; è la constatazione ancora una volta del primato del reale sul concettuale, del primato della conoscenza per esperienza su quella per comunicazione, della morale sul moralismo.
Trascurando il fatto che anche i cattolici non sfuggono a una tentazione di interpretazione moralistica e non morale del mondo, quando privilegiano in astratto le conoscenze teoriche su quelle che provengono dalla esperienza, il sistema dei comportamenti è oggi disancorato dalla realtà per una serie di concause tra cui sicuramente quella del linguaggio dell’immagine ha la sua non piccola importanza.
La comunicazione sofistica in senso moderno, quella che pensa di potere fare a meno della realtà, nasce al tempo della rivoluzione francese e da lí continua in un unico processo fino ai giorni nostri, ma con un momento di grande espansione e divulgazione che è il Sessantotto. Senza entrare in dettagli, è dunque una cultura che si espande e domina le coscienze, anche grazie alle tecnologie, anche a causa di cinema e tv, ma sono i modi di ragionare stessi che sono diventati i veri contenuti della comunicazione sofistica e non i riferimenti a una eventuale realtà.
L’esempio palpabile della trasformazione dei comportamenti umani ad opera dei modelli suggeriti dal cinema, dalla televisione e dalla stampa di massa è quotidianamente verificabile da tutti. Non solo gli influssi della pubblicità negli acquisti, ma anche il sistema e la gerarchia dei valori sono stati sconvolti da idee trasformate in comportamenti suggestivi amplificati dai massmedia (fig. 4). Tutti possono facilmente riflettere sul fatto che tante delle cosiddette conquiste della modernità si sono realizzate proprio grazie a una diffusa opinione di massa favorita dalle storie e dalle vicende umane trasmesse dai media. La cosiddetta fiction ha fornito a generazioni una etica comportamentale assai piú di quanto non abbiano saputo fare famiglia, scuola e chiesa messe insieme. E non solo in fatto di etica della sessualità alla quale è stata data sempre soverchia importanza sia pro che contro, ma addirittura nella individuazione e nel discernimento di ciò che è bene e di ciò che è male, di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, una intera società occidentale ha tratto ispirazione dalla cultura di massa, anche perché, proprio la famiglia, la scuola, la chiesa la hanno a lungo snobbata o sottovalutata o al massimo considerata sotto il profilo puramente tecnico, senza comprendere nemmeno quelle indicazioni che provenivano dal magistero di grandi intellettuali come Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Popper, Postman, Mc Luhan e pochi altri.
 
La realtà nella esperienza e nella comunicazione.
Ammettendo dunque che sia compito di chi vuole essere libero interiormente rivalutare l’importanza del reale, dobbiamo perciò parlare di «Realismo comunicativo» perché, dopo il ritorno alla realtà dell’esperienza e all’esperienza della realtà, dobbiamo anche comunicare questo patrimonio recuperato. Ma comunicare vuol dire cadere sotto il dominio dei segni che esprimono idee in quanto interpretazioni della realtà. E allora? Non c’è via di scampo: bisogna insegnare ad avere piú fiducia nello studio della comunicazione e meno fiducia nella storia delle idee.
La storia delle idee, come insegnano tutta una pedagogia e una didattica della scuola italiana, può essere a piacimento manipolata a beneficio delle ideologie dominanti, mentre la indagine sulla struttura dei fenomeni può difficilmente essere falsificata se si possiedono gli strumenti scientifici adatti alla lettura.
La prima conquista da fare per rendersi indipendenti da rischi è quella di giovarsi della distinzione tra linguaggio dei concetti e linguaggio dell’immagine e di tutto il patrimonio della educazione alla lettura dei media accumulato da Taddei, ma sarà obbligatoria anche una riflessione sulla portata insignificante alla quale si è progressivamente ridotta la conoscenza per esperienza diretta, nella vita del singolo individuo, da quando i massmedia sono diventati di prepotenza la prima fonte nella formazione della personalità.
La lettura approfondita dei linguaggi dei media non può essere confusa con una tecnica o con una esercitazione da specialisti. Occorre recuperare l’importanza di quello che ci capita tutti i giorni rispetto a ciò che si legge, si ascolta o si vede sui media. Diversamente diventa difficile ricomporre uno stato di integrità e dignità umana. Anche se quello che ci capita sotto il profilo della esperienza è poco, pochissimo quantitativamente, esso è tremendamente importante qualitativamente in quanto riguarda noi direttamente e singolarmente e non altri o non un pensiero o una idea, ma una trasformazione piccola o grande della nostra esistenza. Cosí un dolore, fisico o morale. Cosí una gioia. Cosí il male o il bene fatto concretamente. Cosí la morte.
L’esperienza non si può condividere nella sua essenza, né si comunica semplicemente; si vive individualmente e il contenuto di ogni esperienza di vita riguarda un uomo nella sua unicità esistenziale. Il resto, cioè la condivisione della esperienza, è, quanto meno, un modo di dire che riguarda il livello della comunicazione, cioè il livello che i segni e le idee presentano in funzione di quello che vogliono ottenere dal recettore della comunicazione. Davanti alla stessa realtà le esperienze sono singolari e non collettive e il contatto con la stessa realtà da parte di persone diverse produce conoscenze diverse, che influenzano comunicazioni diverse.
La realtà, che è conosciuta e sperimentata individualmente, diventa comunicabile, non in sé oggettivamente, bensí subordinatamente alla conoscenza (idea) che viene distillata nel segno, che indica o rappresenta tale realtà unitamente alla marca di tipo soggettivo consistente, sia nella interpretazione della realtà, sia nella adozione del segno che viene ritenuto piú adatto alla funzione di raggiungere il recettore della comunicazione. Quello che si condivide, dunque, è il livello dei segni che parlano di una idea che si riferisce a una realtà, ma non si parla della realtà, si parla della propria idea, della propria conoscenza di una precisa realtà.
Come si fa allora a dare un senso all’espressione «Realismo comunicativo» se essa sembra solo una contraddizione in termini e se appare in pieno la impossibilità di fare coincidere realtà con i segni che servono alla comunicazione della conoscenza individuale di essa? Accettare la distanza abissale che c’è fra le due cose e pretendere che tutte le forme di comunicazione, sistematicamente, auto-denuncino sempre il proprio limite e la propria insufficienza come un male concretamente dipendente dalla natura stessa dell’uomo non potrà portare lontano, per quanto questa sia già una prova di onestà intellettuale.    
Sotto il profilo logico, di indagine strutturale sul rapporto realtà-comunicazione, siamo allora inchiodati e verrebbe voglia di dire crocifissi. Anche la prospettiva di affidarsi alla antropologia e invocare la ragionevolezza come conquista di una consapevolezza che attenua le rigidità della ragione nella pretesa di esaurire ogni spiegazione della realtà non convince. Logica, filosofia e antropologia non risolvono il problema perché cozzano contro l’ostacolo del linguaggio, senza il quale non potrebbero né raccontare, né raccontarsi. Ancora meno servono psicologia e sociologia, scienze, cosiddette umane, che vivono esclusivamente sul piano della interpretazione dei fenomeni generali basandosi sulla indagine del soggettivismo emozionale o sulla campionatura quantitativa del mondo circostante nella pretesa di estrapolarne la qualità.
La realtà non ha bisogno di un linguaggio: semplicemente è. Siamo noi, anche noi realtà appartenente all’universo dell’essere, che, quando cominciamo a distinguere tra il nostro e l’altrui essere, ci mettiamo a spiegarcela o a parlarne per descriverla e, per spiegarcela o descriverla, troviamo classificazioni e distinzioni, servendoci del linguaggio. E cosí costruiamo le impalcature che servono ad ammettere o a tenere lontani gli altri e la realtà esterna stessa dal nostro mondo interiore. Ma le gabbie piú inespugnabili e piú efficaci nel tenere lontano il reale sono proprio quelle costruite dai media della immagine con il loro modo di esprimersi, prima ancora che con i loro contenuti.
È questa dunque la conferma della teoria cosí affascinante nella cultura del ‘900 e che va sotto il nome di «incomunicabilità»? A prima vista sembrerebbe proprio di sí. Ma allora, se cosí fosse, sarebbe tutto finito nel «non senso» della vita e nell’assurdo di ogni idea che trascende la materia e la finitezza terrena dell’uomo. Eppure è proprio dalla metodologia di lettura di Taddei che ci viene un aiuto a prendere le distanze dal nichilismo e dal relativismo! 
Cercare di adeguare il linguaggio alla realtà è stato il compito pregevole dell’arte e della letteratura che hanno dato vita a realismo, verismo, naturalismo, esistenzialismo! Ma, per quanto la tensione e lo sforzo artistico siano stati grandi, tutto ciò non è bastato a colmare il fossato che c’è tra segno e realtà. Soprattutto lo strapotere delle ideologie dell’uomo, tradotto in messaggi per la massa, la ha sempre avuta vinta sulla realtà stessa e qualsiasi opera di realismo è diventata o propaganda semplicisticamente zdanovista (il realismo della Unione Sovietica) o, nel migliore dei casi, retorica celebrativa della natura impregnata di spontaneismo postmoderno.
Portare invece la realtà dentro il linguaggio dovrebbe essere lo sforzo improbo di chi non si accontenta di raccontare le sue idee, ma vuole essere raccontato dalla sua vita reale.
Bisogna che «il verbo si faccia carne». Non è solo un modo di dire o una dichiarazione di religiosità. È un salto, non verso il mistero, ma verso la conoscenza della essenza profonda del senso della vita che non teme alcuna fine o alcun vuoto. Ma come? Il linguaggio per eccellenza di un Dio, che non sia frutto della invenzione dell’uomo e del mito, è stato quello dell’Incarnazione e della assunzione della dimensione storica in funzione di una Redenzione, cui niente e nessuno, se non un Amore estremizzato per la creatura «ha costretto» il Creatore stesso. Ma per noi?
Per noi reale è ciò che è e non può non essere, e di cui non è logicamente possibile negare la esistenza sotto il profilo della semplice possibilità. Di fronte a questa constatazione non ci resta che percorrere la strada inversa a quella della Incarnazione per riconquistare quello stato che abbiamo perduto con il peccato originale. Si tratta di una faticosa, ascetica, lettura della nostra vita e del mondo, in direzione di un progressivo abbandono della «falsa terrestrità» suggerita dai linguaggi dell’immagine.
 
Ecco allora che per far questo viene in aiuto proprio l’imponente lavoro di lettura strutturale sui media elaborato da Taddei. Con esso si smaschera la confusione creata dalla comunicazione sofistica e si restituisce la giusta importanza alla realtà. È questa l’unica strada da seguire per riappropriarsi di un rapporto con il reale, in un mondo dominato dal linguaggio dell’immagine, che, per sua natura, invita a confondere proprio l’essenza delle cose con la loro rappresentazione.
 
Leggere quindi i film (e i media in genere) in modo corretto porta alla riscoperta di quanta distanza ci sia tra la finzione e la verità e di conseguenza porta a restaurare un’etica, che è quanto di piú lontano dal «tradimento» della realtà operato dall’uomo mediante i segni delle nuove tecnologie. L’etica risulta fondata, cosí, sulla esperienza reale e non sulla imitazione del modello comportamentale offerto dalla cosiddetta «realtà virtuale», di cui cinema, televisione e computer sono portatori e diffusori, con la complicità degli uomini che si limitano a considerarne solo il lato tecnico oppure che ne sfruttano proprio la natura linguistica per asservire pensiero e comportamento di intere società.
 


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