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BELYE NOCHI POCHTALONA ALEKSEYA TRYAPITSYNA



Regia: Andrei Konchalovsky
Lettura del film di: Manfredi Mancuso
Titolo del film: BELYE NOCHI POCHTALONA ALEKSEYA TRYAPITSYNA (LE NOTTI BIANCHE DI UN POSTINO)
Titolo originale: BELYE NOCHI POCHTALONA ALEKSEYA TRYAPITSYNA
Cast: regia: Andrei Konchalovsky – scenegg.: Andrei Konchalovsky, Elena Kiseleva – fotogr.: Aleksander Simonov – mus.: Eduard Artemyev – scenogr.: Lubov Skorina – suono: Polina Volynkina – mont.: Sergei Taraskin – interpr. pric.: Aleksey Tryapitsyn (Lyokha, The Postman), Irina Ermolova (Irina), Timur Bondarenko (Timur, Irina’s Son), Victor Kolobov (The Bun), Victor Berezin (Vitya, The Sailor), Tatyana Silitch (Tatyana), Irina Silitch (Tatyana's Sister), Yury Panfilov (Yura), Nikolay Kapustin (Kolya) – colore – durata: 110’ – produz.: Andrei Konchalovsky Studios – origine: RUSSIA, 2014 – distrib. int.: Andrei Konchalovsky Studios
Sceneggiatura: Andrei Konchalovsky, Elena Kiseleva
Nazione: RUSSIA
Anno: 2014
Presentato: 71. Mostra Internazionale D'arte Cinematografica di Venezia (2014) CONCORSO
Premi: LEONE D'ARGENTO per la migliore regia

In uno sperduto villaggio russo, dove la vita della piccola comunità ivi racchiusa scorre lenta e sempre uguale, lavora il postino Aleksey che si reca quotidianamente con la barca presso il centro postale nel villaggio vicino per ritirare la posta da smistare poi tra i suoi compaesani. L’uomo rappresenta di fatto l’unico collegamento del villaggio con il mondo esterno. Della comunità fa parte anche Irina, giovane mamma che lavora come ispettrice del “Comitato della Pesca” e della quale Aleksey è innamorato sin dai tempi di scuola. Irina è madre del piccolo Timka, con il quale il postino è legato da un bel rapporto di amicizia quasi “paterna”.

 

La tranquilla monotonoia della vita di Aleksey viene sconvolta quando qualcuno ruba il motore della barca dell’uomo, impedendogli di fatto di svolgere il suo lavoro. L’uomo cerca così di trovare qualcuno che lo aiuti a ricomprare un nuovo motore; si reca quindi in città, accompagnato dal piccolo Timka per cercare di trovare un investitore. L’uomo va dapprima a chiedere aiuto al suo superiore nell’ufficio centrale della posta, ma la burocrazia dell’ufficio si prospetta ardua e difficile da superare; quindi l’uomo prova con la sorella, ma anche con lei il postino non ha fortuna. Aleksey si reca infine da un generale dell’esercito del quale è amico e che lavora in una base spaziale poco distante, ma nemmeno lì egli riesce a cavare un ragno dal buco. All’uomo non resta quindi che ritornare nel suo villaggio. Una volta tornato, però, Aleksey viene a sapere che il motore potrebbe essergli stato rubato da un vicino. Si reca quindi nella casa del compaesano e lo accusa di essere il ladro, chiedendo di restituire il maltolto, ma ricevendone in cambio soltanto botte da parte dei familiari del sospettato. Pochi giorni prima era arrivata per Aleksey anche un’altra brutta notizia: Irina aveva trovato lavoro in città e si era trasferita dunque con il piccolo Timka. Risoluto, il postino prepara in gran fretta i bagagli e lascia il villaggio andando a stare dalla sorella. La vita della città è però difficile da digerire per un uomo abituato ai silenzi e ai ritmi sonnecchiosi del villaggio rurale e l’uomo riparte dopo nemmeno poche ore di sonno, facendo ritorno nella comunità, dove la vita riprenderà per lui con la solita melanconica routine.

Una scritta all’inizio del film informa che il lungometraggio è stato realizzato con attori non professionisti, tutti abitanti degli stessi luoghi ritratti sullo schermo. È un fatto che, seppur non fondamentale, riveste però una certa importanza, legando strettamente le vicende narrate sullo schermo con la “realtà” di tali comunità rurali dell’entroterra russo. Usando uno stile che si sarebbe tentati di definire “documentaristico”, il regista Koncalovskij affida al personaggio del postino Aleksey il compito di illustrare, in gran parte, i riti e le usanze abitudinarie e monotone della comunità, proiettata al passato, tra pescatori e contadini che passano il loro tempo fumando e bevendo Vodka fino a ubriacarsi. Rivolto al passato è anche, però il nostro protagonista (proprio con un dettaglio di alcune fotografie dei rari momenti “significativi” della sua vita si apre il film), che è ancorato al suo ruolo di postino vecchio stampo e non vuole riconoscere i grossi cambiamenti portati dalla tecnica moderna («Quando lascerai la scuola ti insegnerò a fare il postino», promette Aleksey a Timka, che pronto risponde: «Tra un poco i postini non esisteranno più, ci sarà solo internet!»). Il mondo rurale e “antico” in cui Aleksey vive è del resto un mondo intatto e non privo di un suo fascino genuino, nonchè di autentica poesia (la scena della strega Kimkimora) e di sincero affetto per riti (il funerale) e tradizioni, destinate nel tempo a scomparire. Gli abitanti di tale villaggio ripetono i loro gesti all’infinito, da essi “intrappolati”, pur negli spazi immensi dell’incontaminata natura, ento le mura delle loro capanne, proprio come mosche (e grande attenzione è posta, a livello di design del suono, proprio al ronzio delle mosche nelle abitazioni) che cercano di uscire, sbattendo però contro il vetro spesso della finestra (si ricordi proprio l’inquadratura della mosca). La malinconica insoddisfazione che però attanaglia sia il protagonista Aleksey (l’inquadratura ripetuta delle pantofole) che i suoi compaesani (si pensi al monologo di Bombolo o alla scena della conversazione con l’amico che confida di avere male all’ “anima”) è in tal senso molto indicativa. Il mondo in cui i personaggi si muovono è infatti un mondo votato ormai alla scomparsa e che, dice il regista, si deve saper lasciare alle spalle senza rimorsi. Cosa però più facile a dirsi che a farsi per gli esponenti di un tale tipo di comunità che, o si adattano (come Irina, che si trasferisce) o rimangono a “morire”, mentre il mondo va però avanti verso un inevitabile progresso (il razzo che, sul finale ironicamente solca il cielo, sparato verso lo spazio, mentre gli uomini del villaggio ripetono per l’ennesima volta gli stessi consueti gesti di una vita). Trattato con grande rispetto e sensibilità per le sfumature psicologiche e per le contraddizioni dell’animo umano è l’atteggiamento di Aleksey che, pur infastidito e annoiato dalla routine della sua vita (si pensi ancora alla ripetuta insistenza del’inquadratura sulle pantofole), è però ad essa legato da un sentimento di odio-amore: del resto sono proprio le pantofole le cose che gli mancheranno di più nella casa della sorella (il “vuoto” inquadrato dalla MDP sul pavimento della casa della donna) e, se è vero che, all’inizio del film, l’uomo viene disturbato nel suo sonno da una mosca, peggior sorte gli capita quando prova a chiudere occhio nella città, dato che sarà lì il rumore infinatamente più forte dei treni in corsa a impedirgli del tutto il sonno.

L’idea del regista rispetto al destino di questi tipi di comunità è quindi chiara: non si può restare ancorati a un passato che è destinato a morire, ma bisogna saper adattarsi alle novità del progresso e imparare a convivere con esso. E difatti nell’ultima immagine del film, sullo scorrere dei titoli di coda, tutti i personaggi sono mostrati insieme su una barca mentre lasciano il villaggio dietro le loro spalle (quasi un invito di Koncalovskij rivolto agli abitanti del luogo), seppur resta una qual certa malinconia per dei valori che verranno però inevitabilmente persi nella transizione e che, forse, potrebbero essere simbolicamente rappresentati da quel misterioso gatto che compare a più riprese, ora come animale in carne e ossa, ora nelle fattezze di pupazzo del piccolo Timka (che non vuole lasciare per nessuna ragione il paesello natio perchè ha perso appunto il suo pupazzo).

Opera profonda e intelligente, il film acquista pregio grazie al fascino ipnotico della bellissima fotografia (che si esalta nella maestosità dei paesaggi) e alla direzione del regista russo, che riesce ad amalgamare insieme e “ammaestrare” un cast di amatori che, a tratti, recita però addirittura meglio di tanti altri noti e strapagati professionisti.

(Manfredi Mancuso)

 


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